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Il periodo che intercorre tra gli anni 1950 e 1973, e che termina sostanzialmente con l’avvento degli shock petroliferi, viene comunemente definito da storici ed economisti con l’appellativo di “Golden Age”: facendo riferimento al periodo aureo dell’andamento capitalistico, tale termine ben descrive, infatti, la fase di crescita sostenuta che attraversò le principali economie internazionali immediatamente dopo la fase di ricostruzione e ripresa del periodo post-bellico. La caratteristica fondamentale di tale periodo fu, appunto, una crescita ingente e generale della produzione nelle principali economie internazionali e nell’intera area europea, con scarse interruzioni di un certo peso ed il raggiungimento di picchi produttivi mai registrati durante le precedenti decadi. Secondo Aldcroft, tra il 1950 e il 1970, il prodotto interno lordo europeo aumentò in media del 5,5% l’anno, a fronte di un 5,0% mondiale, mentre la produzione industriale europea registrò un aumento del 7,1%, rispetto ad un più modesto tasso mondiale del 5,9%1. Persino confrontando la performance europea rispetto a quella degli Stati Uniti, paese che aveva beneficiato di entrambi i conflitti mondiali, consolidando la propria posizione all’interno delle relazioni economiche internazionali, il vecchio continente ne uscì vincitore: il prodotto pro capite statunitense registrato dopo il 1950, fu, infatti, soltanto la metà di quello europeo.

Le ragioni di tale cambiamento nel ritmo di crescita, sono da addurre ad una serie di motivi:

66 a) La decisione da parte delle principali economie internazionali, di adottare

nuovamente una politica liberale nelle transazioni internazionali, al fine di promuovere gli scambi con i paesi esteri;

b) La stimolazione della domanda interna da parte dei governi, attraverso politiche di tipo keynesiano di aumento della domanda grazie a forti incrementi della spesa pubblica;

c) Una serie di circostanze contingenti e di manovre di politica economica che accrebbero la domanda pur mantenendo bassi livelli di inflazione, come ad esempio, il sistema di tassi di cambio fissi che impose un certo controllo sui prezzi;

d) Un margine di crescita produttiva accumulato negli anni precedenti, che permise alle economie europee e al Giappone di sorpassare in velocità di crescita il paese guida per eccellenza, gli Stati Uniti.

Tale fase di espansione generalizzata, per quanto estesa e duratura, non investì, naturalmente, le potenze europee in maniera simultanea: vanno distinte, infatti, diverse fasi di sviluppo che portarono gli stati europei a procedere secondo percorsi e strategie diversi. Se, infatti, la Gran Bretagna assieme a quei paesi che si erano mantenuti neutrali durante il conflitto, rappresentavano i precursori di quella crescita sostenuta e continua, va detto anche che vennero presto sorpassati, a partire dagli anni Cinquanta, da coloro che maggiormente avevano sofferto in tempo di guerra, come Germania, Francia e Italia, per i quali la via verso lo sviluppo economico fu più lunga, più rapida e senza grosse interruzioni. Questo non significa che gli altri Stati avessero registrato fasi di flessione. Semplicemente non potevano sostenere la velocità di performance di questi protagonisti della Golden Age, i quali subirono tuttavia un rallentamento nello sviluppo solo dopo il 1962, a causa di mutamenti nella politica economica, che pose un freno ai consumi interni per timore di un aumento eccessivo dell’inflazione2. Tale rallentamento non modificò lo sviluppo europeo in generale, data la tendenza media

67 nel tempo alla convergenza dei tassi di crescita della produzione intorno ad una media del 4,5%3.

Tabella 1: Crescita media del PIL dei Paesi dell 'Europa Occidentale 1950-1970 (percentuali)

Fonte: D.H. Aldcroft, 2000.

Il risultato più evidente di questo sviluppo fu senza dubbio il rafforzamento della posizione dell’Europa all’interno di un più vasto panorama economico internazionale, un processo iniziato già nell’immediato dopoguerra grazie agli aiuti americani stanziati attraverso l’European Recovery Program, quel famoso Piano Marshall che, tra l’aprile del 1948 e il giugno del 1951, permise la ricostruzione e il riavvio delle attività produttive per la maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale. Stimato intorno ai tredici milioni di dollari dell’epoca4, l’importo totale stanziato dagli

3 Tutti i dati fin qui riportati, sono tratti da D. H. ALDCROFT, op. cit., tabella di pag.201. Nel suo lavoro egli fa riferimento ad uno studio condotto dalla Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite, che analizza l’andamento dell’economia europea dagli anni Cinquanta agli anni Settanta. 4 Crf: A. CARRERAS, Il XX secolo, tra rottura e prosperità, in A. DI VITTORIO (a cura di),

Dall’espansione allo sviluppo, una storia economica d’Europa, Torino, 2002, pag. 429.

Austria 5,0 Italia 5,4 Belgio 3,5 Olanda 5,0 Danimarca 4,0 Norvegia 4,1 Finlandia 4,4 Portogallo 5,1 Francia 5,0 Spagna 6,1 Germania 6,2 Svezia 4,1 Grecia 6,0 Svizzera 4,2

Irlanda 2,5 Regno Unito 2,7

68 Stati Uniti rappresentò emblematicamente il cambio di registro della politica commerciale internazionale, orientata da quel momento in poi verso la cooperazione e la progressiva liberazione dei traffici da dazi e barriere doganali. L’apertura ai traffici internazionali era d’altronde già evidente nella stipulazione degli accordi di Bretton Woods del 1944, i quali, tramite l’istituzione del GATT (Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio) e del Fondo Monetario Internazionale, avevano chiarito la politica dominante a seguito del conflitto mondiale: il ritorno ad un modello di libero scambio, garantito da un sistema di tassi di cambio fissi, seguendo il principio della cooperazione internazionale come strumento di diffusione del benessere5. Tale mobilità internazionale fu di grandissima utilità per i principali blocchi commerciali che si andarono formando in quegli anni: da un lato, infatti, gli Stati Uniti potevano garantirsi mercati di sbocco per i propri prodotti, offrendo liquidità ai Paesi in piena ricostruzione post-bellica, dall’altro lato il blocco europeo riceveva valuta utile da impiegare in ricostruzione industriale, ma soprattutto in importazioni di materie prime, necessarie per il riavvio della produzione. L’istituzione del FMI, unitamente alla grande disponibilità di valuta americana garantita agli altri Stati, verteva sul ripristino del gold exchange standard del 1947, che sanciva la convertibilità unica del dollaro in oro: a fronte di questo sistema, le riserve auree americane che, agli inizi degli accordi di Bretton Woods, rappresentavano oltre i due terzi dell’oro mondiale, vennero progressivamente erose fino al 20% della fine degli anni Sessanta, determinando poi l’abbandono del gold standard, da parte del dollaro, nel 19736.

Nonostante la grande disponibilità di riserve valutarie statunitensi, un aumento eccessivo delle importazioni avrebbe portato certamente le bilance dei pagamenti europee in forte squilibrio, da qui la necessità di accrescere le esportazioni al fine di pareggiare i conti e saldare in tempi brevi i debiti accumulati grazie agli aiuti

5 Il Fondo Monetario Internazionale rappresentò l’elemento cardine del nuovo ordine economico internazionale: il sistema dei tassi di cambio fissi veniva infatti garantito da questi fondi, erogati ai Paesi qualora soffrissero di deficit nei loro conti esteri, per evitare svalutazioni competitive finalizzate all’acquisizione di competitività e, di conseguenza, aumenti nelle esportazioni. Da parte sua, il GATT operò diverse riduzioni delle tariffe doganali nel tempo, fino a giungere ad una riduzione , generalizzata delle tariffe, e non dei singoli specifici prodotti, nel 1964-67. Per i criteri sottostanti i vari round del GATT, una sintetica ed esaustiva analisi è in V. ZAMAGNI, Dalla rivoluzione industriale

all’integrazione europea, Bologna, 1999.

69 bellici. Provvidenziale fu, in questo ambito, lo scoppio della guerra di Corea nel 1950, che se da una parte peggiorò la situazione delle bilance commerciali europee, facendo registrare un aumento dei prezzi delle merci, d’altro canto favorì l’aumento delle esportazioni proprio a favore del mercato statunitense, la cui capacità produttiva era momentaneamente congelata dalle commesse belliche, che di fatto soppiantarono la produzione civile. Il blocco commerciale europeo assunse così, connotati sempre più definiti: a partire dall’Unione Europea dei Pagamenti del 1950, con il quale si intraprese uno schema di cooperazione monetaria europea al fine di risparmiare valuta estera (nello specifico la valuta trainante, il dollaro) e determinare una più rapida stabilizzazione dei tassi di cambio delle monete europee, fino alla costituzione della Comunità Economica Europea nel 1958, che di fatto intensificò gli scambi tra i paesi membri, ma anche con i partner internazionali, accrescendo la forza negoziale del blocco europeo, che divenne il più importante soggetto di commercio internazionale, superando persino gli Stati Uniti7.

Oltre all’aumento delle esportazioni, altri fattori concorsero alla crescita economica, primi fra tutti i tradizionali fattori di produzione ossia lavoro e capitale8, uniti a variazioni dell’impiego di tali risorse per migliorarne il rendimento produttivo, come ad esempio i progressi in ambito tecnologico, l’aumento della specializzazione, le economie di scala, la migliore allocazione delle risorse. Per quanto concerne il fattore lavoro, vennero registrati aumenti dell’occupazione generale in quasi tutti i paesi europei: a questo va aggiunto anche l’impiego di elementi residuali della produzione, uno su tutti la produttività del lavoro, come base per lo sviluppo economico; altresì, non va sottovalutato il ruolo giocato dagli occupati nel settore agricolo, che, abbandonate le campagne, divennero il bacino privilegiato di forza lavoro disponibile da cui attingere, assieme alla grande percentuale di emigrati, sia a carattere regionale che internazionale, che costituirono in quegli anni quel famoso

7 Crf: V. ZAMAGNI, op. cit. pag 232.

8 La tradizionale ripartizione dei tre fattori di produzione (terra, capitale e lavoro) con l’avvento dell’industrializzazione, tende tradizionalmente a ridursi alle uniche risorse di capitale e lavoro, in quanto il contributo offerto dalla terra alla crescita economica si è ridotto progressivamente nel tempo. La terra come fattore di produzione viene quindi, generalmente, esclusa da considerazioni inerenti lo sviluppo economico.

70 “esercito di riserva” di cui parlava Marx decenni prima.9 Questo spiega il motivo per cui si registrarono maggiori aumenti dell’occupazione non agricola, soprattutto nel settore dei servizi. Per quanto riguarda il fattore capitale, espresso nella variazione degli investimenti, si registrarono forti aumenti nei paesi in leggero ritardo rispetto alla crescita economica europea generale, come la Norvegia o la Germania, quest’ultima obbligata a ripartire da zero per quello che concerneva il reparto produttivo: ciò sembrerebbe confermare l’ipotesi per cui i paesi con crescita maggiore sono quelli che iniziarono questo decollo produttivo dai livelli più bassi.10 Come ammette lo stesso Aldcroft, tuttavia, non esiste una corrispondenza univoca tra aumento dell’occupazione, degli investimenti e crescita economica: in generale, tuttavia, si può affermare che alti tassi di occupazione e investimento abbiano costituito terreno fertile per lo sviluppo economico, ma non rappresentarono comunque una condizione uniformemente valida per tutti i paesi.11

Probabilmente, le cause più importanti di questa crescita sostenuta, sono da rintracciare nell’aumento della produttività determinata da una diversa allocazione delle risorse: la stessa forza lavoro, che dal settore agricolo si spostò in ambiti più produttivi, oppure l’impiego di nuova tecnologia in ambiti fino a quel momento di tipo tradizionale. Tale riallocazione risultò vincente in contesti più arretrati: ciò spiega perché realtà come la Gran Bretagna ad esempio, non registrarono incrementi sostanziali, in quanto già avevano esaurito tali possibilità nei periodi precedenti. Un altro aspetto fondamentale di questo periodo aureo risiede nel ruolo attivo svolto dal governo, una caratteristica comune alla maggior parte dei paesi europei. La fine del secondo conflitto, infatti, portò come conseguenza anche un aumento delle attività da parte del settore pubblico, che diventò una delle principali componenti delle economie mondiali. Gli Stati si trovarono sempre più coinvolti nelle vicende economiche, promuovendo determinate politiche e ponendosi obiettivi di lungo periodo quali una crescita rapida, il raggiungimento della piena occupazione, la stabilità dei prezzi,

9 Riguardo la teoria di Marx sull’impiego dell’esercito industriale di riserva, si rimanda alla prima parte. 10 Crf: V. ZAMAGNI, op. cit., pag. 229. Per le valutazioni circa la crescita di investimenti e

occupazione delle principali potenze europee, si fa riferimento ai dati di D. H. ALDCROFT, tab.5.2, op. cit., pag.209.

71 l’equilibrio con l’estero, secondo il principio di cooperazione internazionale propugnato dal FMI. Tale convergenza delle politiche adottate, tuttavia, non escluse la possibilità di raggiungere determinati obiettivi secondo percorsi diversi: così se la Francia ad esempio, adottò la strategia della pianificazione, attraverso una serie di grandi progetti di investimento pubblico e privato, a scapito della stabilità dei prezzi, lo stesso non può dire dell’Italia, che raggiunse comunque alti livelli di crescita e investimento, nonostante una politica economica più finalizzata alla stabilità della moneta che alla crescita produttiva. In generale, l’obiettivo maggiormente perseguito dalle potenze europee fu il raggiungimento della piena occupazione, anche a scapito di un inflazione galoppante e che, a seguito degli shock petroliferi, divenne poi insostenibile. In generale, è possibile sintetizzare i fattori chiave del successo economico europeo di quel periodo come segue:

1. la creazione di una serie di istituzioni nuove e adatte al particolare momento storico, come il FMI, la Cee, il Gatt e così via;

2. l’esistenza di un’ingente forza lavoro disponibile, pronta a riversarsi nei settori più produttivi senza troppe difficoltà e rivendicazioni salariali, garantendo alti livelli di produzione a costi contenuti;

3. il gap tecnologico, che permise alla produzione europea di adeguarsi e imitare il modello statunitense, ricalcando il famoso paradigma del “vantaggio dell’arretratezza” di Gerschenkron, secondo il quale, il Paese in condizione di ritardo nello sviluppo può usufruire di un vantaggio competitivo rappresentato da beni capitali, manodopera qualificata e assistenza tecnica provenienti dai Paesi industrialmente più avanzati;12 4. la progressiva liberalizzazione del commercio internazionale, che

permise una grande mobilità di fattori di produzione, ma allo stesso

12 La tesi di Gerschenkron si fonda sul concetto di arretratezza economica, intesa come uno stato di tensione tra le possibilità produttive di un paese e le sue condizioni di fatto. Secondo lo studioso russo, durante la face di slancio, ad un’economia più arretrata corrisponde un più alto tasso di sviluppo industriale, basato sull’utilizzo di tecnologie evolute e capitali provenienti dai paesi più sviluppati. Si veda al riguardo A. GERSCHENKRON, Il problema storico dell’arretratezza economica, Torino, 1965.

72 tempo incentivò concorrenza e competizione, stimolando l’efficienza produttiva;

5. una crescita minima dei prezzi delle materie prime;

6. la speculazione finanziaria quasi inesistente, a fronte di un regime di tassi di cambio fissi e forti investimenti esteri;

7. l’impiego di politiche economiche interne fortemente espansive, basate sulla stimolazione dei consumi tramite forti incentivi alla domanda.13

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