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La necessità di politiche per il Mezzogiorno d’Italia ha una lunga storia, ma certamente il Mezzogiorno nel corso di 150 anni di unità nazionale di cui quasi 70 di repubblica è molto cambiato, anche per effetto dell’intervento pubblico (SVIMEZ, 2011). Pur nella prolungata e difficilissima fase che si protrae dalla crisi avviatasi nel 2008 e che vede l’intero paese in grandi difficoltà, il Mezzogiorno è comunque un’area che può essere giudicata a medio reddito sullo scenario mondiale, cioè non è in assoluto un’area povera.

“In termini assoluti al 2011, basandosi sul prodotto interno lordo (PIL) pro-capite in dollari correnti, rispetto a tutte le altre aree mondiali, il Mezzogiorno fa comunque parte dell’area a maggior reddito (sopra i 20.000 dollari per abitante, laddove anche le grandissime economie nuove protagoniste dello scenario globale, come Brasile, India e Cina rimangono molto sotto questi dati e con elevati squilibri interni) e, soprattutto ha raggiunto condizioni medie di avanzamento sociale di base molto avanzate” (Aiello e Pupo, 2008, p. 39).

In termini relativi, e guardando solo alle aree di maggior progresso economico assoluto, esso mantiene invece un minor livello di sviluppo economico, in parte derivante dal fatto che le regioni meridionali sono nell’insieme periferiche rispetto al centro sviluppato dell’Europa (Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione, 2011).

Figura 2.2 – PIL pro capite in Europa

Fonte: immagine da europa.eu, 2015

“Dagli ultimi due decenni del secolo scorso con l’Europa progressivamente più unita nel mercato, vi sono dinamiche di accentramento economico notevoli che agiscono a sfavore delle Regioni periferiche del sistema ancora poco sviluppate economicamente che non riescono ad essere attrattive per imprese e studenti e costrette a competere con i paesi in via di sviluppo, che acquisiscono fette di mercato sempre più ampie, nei settori in cui tali regioni sono presenti (manifattura, agricoltura, ecc.)” (Gelli e Grasse, 2010, pp. 13-14). Infatti, alla fine degli anni Ottanta, il Rapporto Delors nell’aprire la strada all’unione monetaria segnalava con forza questo aspetto: “l’esperienza storica

suggerisce che in assenza di politiche di riequilibrio, l’impatto complessivo (dell’integrazione economica) sulle Regioni periferiche potrebbe essere negativo. I costi di trasporto e le economie di scala tendono a favorire lo spostamento delle attività economiche dalle regioni meno sviluppate, specialmente se si trovano alla periferia della Comunità, verso le aree più sviluppate, al centro. L’unione economica e monetaria dovrebbe incoraggiare e guidare gli aggiustamenti strutturali che possono aiutare le Regioni povere a ridurre le distanze da quelle più ricche” (Commissione Europea, 1989).

Visto a distanza più ravvicinata il Mezzogiorno è, però, anche un’area internamente differenziata; lo è in parte sempre stata, ma con il passare del tempo e con l’avanzare della modernità lo è divenuta ancora di più. Differenze importanti sussistono non solo tra le otto regioni che compongono il Mezzogiorno geografico (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna), ma anche al loro interno. “Tra le regioni e internamente ad esse, diversa è la composizione dell’attività economica, delle specializzazioni prevalenti e della loro densità; alcune di queste differenze sono originarie, altre sono state indotte dall’intervento pubblico, indipendentemente dai suoi successi o insuccessi di lungo periodo” (Petrusewicz, Schneider, Schneider, 2009, pp. 229-231).

Oggi, forse più che in passato, tra le differenze da considerare ci sono anche quelle derivate dai tentativi, dalle acquisizioni positive e dagli errori delle politiche pregresse. “Come molti Paesi a medio reddito su scala mondiale, il Mezzogiorno si presenta soprattutto come un’area complessa, in cui convivono modernità e arretratezza, classi sociali ricche e povere, fenomeni criminali persistenti e forte mobilitazione di porzioni avanzate di società civile, tensione alla normalità e desiderio di uguaglianza” (Casavola, 2015, p. 22). “Nell’insieme questi caratteri e forze disgiunte restituiscono però un quadro che negli ultimi decenni è di persistente insufficienza rispetto a quello che dovrebbe e potrebbe essere” (Serravalli, 2006, pp. 75-76).

I dati e le esperienze dirette fanno emergere, in particolare, due punti che segnalano come quella del Mezzogiorno sia una condizione inaccettabile. “Il primo è la necessità che le politiche individuino leve per innescare o ampliare l’attività economica di mercato. Il secondo è la necessità che le politiche assicurino comunque il dignitoso funzionamento dei servizi pubblici a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini, della loro fiducia nell’azione collettiva e nello Stato” (Viesti, 2011, p. 110). “Affinché uno schema ordinato di azione pubblica possa essere innanzitutto definito, è necessario che l’obiettivo sia condiviso dalle forze politiche, sociali ed economiche rilevanti che sorreggono l’esistenza dell’azione pubblica tutta” (Casavola e Trigilia, 2012, p.83). “Il Mezzogiorno necessita certamente ancora di politiche dedicate o, almeno, attente alle sue specifiche necessità e opportunità di crescita economica e di tutela dei diritti di

cittadinanza. L’argomento rimane valido pur all’interno della lunga crisi strutturale in cui l’Italia intera versa in modo visibile da almeno due decenni e che anticipa la prolungata recessione in atto dal 2008” (Trigilia, 2012, p. 32).

A questo riguardo, un punto molto rilevante è che il grado di condivisione nazionale sulla stessa necessità di avere politiche per il Mezzogiorno, o almeno politiche attente al Mezzogiorno, si è molto attenuato a partire dalla fine degli anni Ottanta e forse anche prima. Finché il Centro-Nord del Paese è stato un’area abbastanza dinamica e in relativo progressivo arricchimento e il Mezzogiorno procedeva comunque in modo tendenzialmente integrato con il resto d’Italia, “la permanenza di divari anche significativi di reddito relativo del Mezzogiorno giustificava il ragionevole stimolo a fare di più e a interrogarsi su come superare gli errori o le sfortune delle scelte compiute in passato” (Prota e viesti, 2012, pp. 200-201).

Tuttavia con l’avvio più deciso dell’integrazione europea, con la globalizzazione e il declino economico italiano, la questione si è fatta assai più delicata.

Dall’inizio degli anni Novanta, infatti, lo scenario è molto mutato. Anche volendo per un momento tralasciare il tema degli squilibri di finanza pubblica, che pure ha giocato un ruolo determinante, l’integrazione europea e la globalizzazione hanno fatto venire meno un dato di fondo. “Non è stato più vero, nella percezione generale e nella sostanza di alcune aree, che per il benessere del Centro-Nord sia realmente così importante la crescita del Mezzogiorno” (Cannari e Franco, 2010, pp. 92-93). Il mercato interno di riferimento per le imprese del Centro-Nord si è potenzialmente allargato; la spinta al risparmio sui costi ha portato a guardare a occasioni di delocalizzazione anche all’interno dell’area europea, ormai molto vasta e differenziata, ben più convenienti di quanto possa offrire il Sud, oppure a prodotti acquisibili a prezzi irrisori da molto lontano e assai più accessibili dei contoterzisti del Sud. “La presa di coscienza che anche il Centro-Nord aveva accumulato un grosso deficit di produttività e innovazione ha spinto a concentrare maggiormente nell’area l’investimento pubblico” (D’Antone, 1996, p. 315).

Il 1992 è l’ultimo anno dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. “Si è trattato, come ben noto, di una politica di grande intensità e durata, messa in atto

nell’immediato dopoguerra per provare a ridurre il colossale divario di reddito e di condizioni di vita esistente in Italia, frutto a sua volta delle particolari vicende politiche ed economiche del primo secolo di unità nazionale” (Felice, 2007, p. 71).

L’intervento straordinario si caratterizzava per l’azione di una struttura tecnica speciale, la “Cassa per il Mezzogiorno”, posta al di fuori del perimetro delle pubbliche amministrazioni ordinarie, con una dotazione finanziaria sua propria, conferita con varie disposizioni di legge. “Questa dotazione avrebbe dovuto essere aggiuntiva rispetto all’azione ordinaria dello Stato e degli enti locali, anche se i dati disponibili non consentono una semplice verifica di questa circostanza” (Cafiero, 2000, p. 34).

Negli anni Cinquanta l’azione della Cassa è volta a grandi opere di infrastrutturazione del territorio, soprattutto idriche. A partire dal 1957, tuttavia, l’enfasi degli interventi è spostata anche verso la promozione degli investimenti industriali, sia attraverso una serie di disposizioni di incentivazione dei privati (contributi in conto capitale e in conto interessi, esenzioni fiscali), sia attraverso l’azione delle imprese a partecipazione statale; ad esse si somma poi, anche un robusto intervento di contenimento della componente contributiva del costo del lavoro (la fiscalizzazione degli oneri sociali), volta ad evitare l’aumento del costo del lavoro, come conseguenza dell’abolizione delle gabbie salariali (Casavola, 2015, pp. 17-18). “I risultati raggiunti dalla Cassa per il Mezzogiorno sono stati imponenti” (Del Monte e Giannola, 1978, p. 391).

Tuttavia, l’analisi storica concorda nel ritenere che, a partire dalla metà degli anni Settanta, si assiste ad una riduzione dell’efficienza e dell’indipendenza tecnica della struttura, sempre più permeata, come altre strutture tecniche dell’intero paese, dalla pervasiva invadenza della politica. Questo avrebbe portato ad una eccessiva estensione del perimetro di intervento della Cassa, alla frammentazione e alla distorsione, in favore di interessi locali e di più breve periodo, degli interventi.

Con la legge 488 del 1992 termina l’intervento straordinario. “Da quella data si apre un periodo che durerà fino al 1998, nel quale le politiche di sviluppo regionale in Italia appaiono di intensità assai minore. La legge 488 lascia in vigore alcune forme di incentivazione degli investimenti nel Mezzogiorno, come i contratti di programma” (Barca, 1997, p. 172). “Disegna altresì un nuovo meccanismo di incentivo

generalizzato, a bando e ad asta, per gli investimenti nelle “aree deboli” del paese, al Sud come al Centro Nord, che tuttavia verrà operativamente avviato con il primo bando solo nel 1996” (Bodo, Viesti, 1997, pp. 152-153).

La crisi fiscale italiana della metà degli anni novanta determina una forte contrazione delle incentivazioni e, in generale, della spesa in conto capitale in tutto il paese, in particolare nel Mezzogiorno. Il valore degli investimenti fissi lordi in percentuale del PIL, nel Mezzogiorno, scende da più del 25% nel 1991 (quando era sei punti percentuali maggiore che nel Centro Nord) al 19% del 1995. A ciò si somma il sensibile aumento del costo del lavoro. “La politica di sviluppo regionale conosce un lungo intervallo e questo avviene in un momento di difficoltà dell’economia italiana, che ne acuisce gli effetti in particolare sulle regioni più deboli, che conoscono, infatti, un rallentamento dello sviluppo e soprattutto una forte caduta dell’occupazione” (Bodo, Viesti, 1997, pp. 158-159). Due importanti fattori ne controbilanciano in parte gli effetti. “La forte svalutazione della lira, con l’uscita dallo SME conseguente alla crisi del settembre 1992 determina un repentino aumento della competitività di prezzo delle esportazioni italiane. Di esso si giovano per la prima volta in maniera sensibile anche gli esportatori meridionali, che riescono a mantenere le proprie quote di mercato all’estero anche quando il cambio poi si stabilizza” (Casavola, 2015, p. 32). In secondo luogo, le vicende della politica italiana determinano un grande cambiamento delle classi dirigenti nazionali e locali in tutto il paese; e così “anche nel Mezzogiorno pare esservi un diffuso miglioramento delle capacità di rappresentanza politica e di governo, che si somma a fenomeni di più lungo periodo di rafforzamento – per quanto sia possibile misurarlo – del “capitale sociale”” (Diamanti, Ramella, Trigilia, 1997, p. 123).

Nel 1998 l’Italia raggiunge l’obiettivo di far parte del primo gruppo di paesi europei che adottano l’euro. “Le politiche di bilancio del biennio precedente sono state tutte orientate all’ottenimento di questo obiettivo, attraverso misure di stabilizzazione e di miglioramento dei conti pubblici” (Catanzaro, Piselli, Ramella, Trigilia p. 58).

“Avviate nel 1988 con la “riforma Delors” con un primo ciclo di programmazione (1989-1993), le politiche europee di sviluppo regionale vengono dotate nel ciclo di programmazione 1994-1999 di risorse più cospicue” (Viesti e prota, 2007, pp. 22-23). Esse interessano allora, in misura più intensa, le otto regioni del Mezzogiorno; queste ultime, avendo un reddito pro capite, a parità di potere d’acquisto, inferiore al 75% della media comunitaria, vengono incluse nell’Obiettivo uno. “Le modalità di programmazione e di realizzazione degli interventi finanziati con fondi comunitari differiscono però sensibilmente da quelle correnti nelle amministrazioni italiane, ordinarie e straordinarie, e determinano un lungo e complesso periodo di adattamento” (Viesti, 2011, p. 129).

Vengono infine sperimentati, all’inizio della legislatura 1996-2001, due nuovi strumenti. Entrambi si caratterizzano per l’intervento concertato di più soggetti, pubblici e privati, e verranno perciò ricompresi negli strumenti cosiddetti ‘della programmazione negoziata, differiscono però radicalmente quanto a finalità. “I contratti d’area determinano la concessione di agevolazioni in territori delimitati in tutto il paese, caratterizzati da fenomeni localizzati e intensi di crisi industriale, volte a favorire i processi di reindustrializzazione. I patti territoriali vengono avviati all’interno di fondi comunitari 1994-1999 ed hanno come obiettivo quello di finanziare le esperienze di partenariato positive formatesi in autonomia rispetto alle iniziative comunitarie” (Viesti, 2011, pp. 132-133).

Il contesto di tali politiche presentava in quegli anni una duplice esigenza: da un lato la necessità urgente di avvio del ciclo di Programmazione dei fondi strutturali 2000-06 nel rispetto della consolidata logica comunitaria di intervento per programmi pluriennali a disegno stabile; dall’altro quella di riorganizzare l’intervento nazionale per lo sviluppo territoriale, assai frammentato in strumenti diversi e affaticato negli scopi dalla lunga e incerta stagione che aveva fatto seguito alla chiusura dell’intervento straordinario. “Nel 1998 viene parzialmente riformato il modello di finanziamento degli interventi per lo sviluppo territoriale con l’aggregazione dei principali flussi finanziari di scopo nel fondo per le aree depresse e l’avvio del rifinanziamento annuale del fondo stesso da parte della Legge finanziaria. Si tratta di una mossa importante,

perché un fondo unico consente una migliore programmazione delle sue destinazioni” (Bianchi, Casavola, 2008, p. 69).

Il rilancio dell’intervento per lo sviluppo avviene però utilizzando soprattutto lo spazio della costruzione dell’intervento dei fondi strutturali comunitari nel Quadro Comunitario di Sostegno obiettivo 1 (2000-2006), che copre quasi l’intero Mezzogiorno. “Il Quadro comunitario di sostegno (QCS) è l’unico documento formale che offre la possibilità tecnica di esplicitare in un programma ampio le intenzioni, i metodi, i fini e le condizionalità di successo dell’intervento, tra cui l’indispensabile rinnovamento delle capacità delle amministrazioni pubbliche e la necessità di processi più ampi di riforma nelle politiche pubbliche e nel funzionamento dei mercati” (Aiello e Pupo, 2009, pp. 25-26). L’impostazione strategica che confluisce poi nel QCS obiettivo 1 del 2000-2006 è basata contemporaneamente su una visione e sulla natura degli strumenti che si possono mettere in campo (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2000).

La visione è basata sull’idea che il Mezzogiorno non è privo di vitalità propria, ma soffre di diseconomie di contesto che ne abbassano la produttività potenziale, impedendo alle energie locali di esprimersi, quando ci sono, oscurando le potenzialità di valorizzazione delle dotazioni (asset) presenti e inibendo l’investimento esterno. Non vi è un’idea precisa delle direzioni più promettenti nel concreto delle singole realtà territoriali, ma vi è l’intuizione che occorra incrementare l’offerta di beni pubblici e la loro funzionalità alle esigenze delle strutture produttive e sociali interne e per l’attrazione di risorse esterne (Casavola, 2015). Questa strategia diventerà nota per l’importanza che conferisce alle “politiche di contesto” rispetto alle “politiche di promozione diretta dello sviluppo” e soprattutto al sostegno indiscriminato e poco selettivo all’investimento privato individuale. “L’idea è che, sebbene si consideri ancora necessario sostenere individualmente le imprese, l’impresa singola può poco se agisce in un ambiente molto sfavorevole, dove tutto è più difficile e costoso, perché mancano buoni collegamenti, sufficienti servizi, le strutture formative sono poco adeguate e il territorio è poco organizzato e regolato” (Petrusewicz, Schneider, Schneider, 2009, p. 239).

Obiettivo della strategia è migliorare nel tempo le condizioni del contesto meridionale che rendono più difficile la vita e lo sviluppo delle imprese e quindi ne limitano le possibilità di crescita. “Ci si riferisce sia alla dotazione di infrastrutture materiali (in primis quelle di trasporto), sia immateriali (come i sistemi formativi e della ricerca), sia, ancora, per quanto possibile con strumenti di politica economica, alla dotazione di capitale sociale. L’idea è che un miglioramento del contesto potrà favorire anche lo sviluppo economico; parallelamente si prevede di ridurre i trasferimenti “compensativi” sia alle persone, sia soprattutto alle imprese” (Viesti, 2011, pp. 136- 137).

È esemplificativa degli obiettivi delle politiche, l’allocazione programmatica delle risorse dei Fondi strutturali europei per il 2000-2006 per il Mezzogiorno. “Essa configura una vera e propria strategia di sviluppo, orientata in particolare al finanziamento di investimenti pubblici, per migliorare le dotazioni collettive di infrastrutture (di trasporto, idriche, energetiche), programmi di formazione, di ricerca, potenziamento dell’istruzione” (Casavola, 2015, p. 27).

Scelta programmatica di fondo è quella di ridurre il finanziamento di regimi di aiuto per le imprese, a favore dei programmi di investimento pubblico definiti nella programmazione comunitaria e inclusi in intese tematiche fra governo nazionale e governi locali. “La strategia deve disporre di una adeguata dotazione finanziaria aggiuntiva. Essa è rappresentata sia dalle risorse del nuovo ciclo di programmazione comunitario 2000-2006 sia da risorse nazionali aggiuntive per lo sviluppo regionale. L’allocazione geografica delle prime è definita dalle regole comunitarie; l’allocazione geografica delle seconde è definita per l’85% nelle otto regioni del Mezzogiorno e per il 15% per far fronte alle necessità delle aree deboli del Centro Nord” (Aiello e Pupo, 2009, p. 28).

Le politiche di sviluppo regionale vengono affidate alle amministrazioni ordinarie, nazionali e regionali. In particolare alle amministrazioni regionali viene affidata una rilevante responsabilità finanziaria; ciò è coerente con il progressivo processo di decentramento che ha interessato l’Italia a partire dalla prima metà degli anni Novanta, Per favorire la collaborazione fra i diversi livelli di governo vengono definiti e

intensamente adottati gli strumenti delle intese istituzionali di programma e degli accordi di programma quadro (APQ): documenti, condivisi da più amministrazioni, nei quali confluiscono risorse finanziarie differenti finalizzate a un unico programma di intervento (Casavola, 2015, p. 31).

Viene costituito il Dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione presso il Ministero dell’economia con il compito di definire, in collaborazione con le altre amministrazioni, le fasi di programmazione e di monitorarne e valutarne in itinere l’attuazione.

“Similmente si cerca di sollecitare le collaborazioni inter-istituzionali e pubblico- private (seguendo ancora una volta i principi delle politiche comunitarie) anche su scala locale, attraverso il finanziamento di nuovi patti territoriali, in aggiunta a quelli già contenuti nella precedente Programmazione 1994-1999, e poi attraverso lo strumento dei PIT (progetti integrati territoriali) negli anni successivi” (Viesti, 2011, pp. 139-140). Grande enfasi viene posta sull’obiettivo di valutare in itinere ed ex post gli interventi attuati, e di verificarne l’impatto. Anche a tal fine viene predisposta la realizzazione di un completo e dettagliato set di indicatori relativi alle politiche di sviluppo regionale, tanto in termini finanziari, quanto di effetto sulle variabili territoriali (Ministero del Tesoro del Bilancio e della Programmazione economica, 1999).

In epoca a noi più vicina, cioè dalla chiusura prima sospesa (nel 1984) e poi definitiva (nel 1992) dell’intervento straordinario, le politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno hanno quindi le seguenti caratteristiche:

a) sono ricomprese all’interno di un intervento ‘addizionale’ per tutte le aree in

difficoltà di sviluppo o di crisi del Paese (denominate aree depresse prima, aree sottoutilizzate poi);

b) sono programmate e gestite dalle amministrazioni ordinarie (ministeri,

amministrazioni regionali);

c) sono dominate dalle modalità di intervento e di impostazione operativa

d) utilizzano sia i fondi strutturali comunitari, sia i fondi nazionali dedicati (il

Fondo per le aree depresse, poi rinominato nel 2002 Fondo per le aree sottoutilizzate, FAS, e ancora rinominato nel 2011 Fondo per lo sviluppo e la coesione, FSC), in entrambi i casi si tratta di risorse speciali per politiche dedicate in primo luogo all’individuazione di punti critici su cui agire per la riduzione delle differenze territoriali nello sviluppo;

e) l’intervento è limitato finanziariamente, temporalmente e nello scopo, con il

mandato non di prendere in carico l’intera direzione dell’intervento pubblico, ma di agire a sostegno ulteriore di questo;

f) l’intervento si realizza in un contesto di progressivo decentramento e

devoluzione di responsabilità alle regioni per molti ambiti di competenza;

g) dal 1998 è attivo un punto di coordinamento e indirizzo strategico centrale

per tutte le politiche di sviluppo regionale (DPS) responsabile anche di mantenere rapporti stabili con la Commissione europea per le politiche di coesione comunitarie.

“Il modello di intervento in cui si sono inserite le politiche per il Mezzogiorno è quindi molto particolare. Non è certamente un modello centralizzato, ma non è nemmeno un modello completamente decentrato. È un modello affidato alle amministrazioni ordinarie, ma per via del grande peso che in esso hanno avuto i Fondi strutturali europei, che hanno procedure speciali e richiedono strutture dedicate alla gestione dei fondi stessi, non è un modello del tutto ordinario” (Crescenzi, 2007, p. 423).

Di fronte a problemi di particolare complessità e che richiedono uno sforzo costante e prolungato, l’idea di avere un’organizzazione speciale che si caratterizzi per competenza, flessibilità e autonomia è molto attraente e ha una sua forte razionalità. D’altro canto questa soluzione ha un prezzo elevato, perché le altre organizzazioni,

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