fermarmi e capire perché ero finita nella droga. Uscire da quel buco nero non
è uno scherzo, anzi, quando sei sicuro di aver smesso devi essere forte e dirti di
continuare ad avere paura. Mai abbassare le difese. E quindi dopo cinque anni
e mezzo di carcerazione senza benefici, solo i giorni di buona condotta, al
mo-mento che uscii volevo un lavoro, la vita sociale: riprendere in mano tutta la mia
vita immediatamente. Ma il tutto e subito quando c’è ancora l’eroina dentro di
noi, non è la strada giusta da perseguire. L’eroina era sempre lì, vicino a me e
non ressi che qualche mese per poi ricadere nel baratro e questa volta fu ancora
peggio perché ero di nuovo fuori di casa e dopo otto mesi di libertà mi
arresta-rono. Rientrai al Don Bosco dove tutto cominciò e da lì trasferita per esigenze
di istituto a Sollicciano e poi a Lucca. Proprio a Lucca, senza commentare il
luogo, mi proposero la Casa Circondariale femminile a custodia attenuata di
Empoli aperta l’8 marzo 1997. Arrivare ad Empoli, essere accolta con gentilezza
e guardata come persona e non come un “numero” matricola, fece il suo effetto.
Era strano. Sentirsi che ero nel poso giusto, dove c’erano sbarre e cancelli di
ferro ed un po’ di umanità, fu il primo segnale che colsi per il mio recupero.
Il primo periodo non fu dei migliori. Entrare nella custodia attenuata
signi-fica firmare un contratto dove sono menzionate delle condizioni di vita che il
detenuto/a deve rispettare comunque e che sono obbligatorie. Non si sceglie se
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Dal nord al sud dell’Italia: dieci anni di detenzione poi la salvezza
prendere o non prendere terapia: ad Empoli nessuno aveva terapia e si arrivava
“detossicate”. Non si sceglie se lavorare o meno. Il lavoro era per tutte e tutte
avevano un compito ben preciso ed una responsabilità da portare avanti. Non
si sceglie se alzarsi dal letto e andare o meno ai corsi. Si andava e basta e se una
voleva restare in cella, il gruppo la convinceva e la portava giù nella sala dove si
svolgevano le varie attività. Ho visto ragazze che non parlavano, quella
timidez-za di sentirsi isolate anche in un carcere dovuto all’uso ed abuso della sostantimidez-za,
riprendersi dopo alcuni mesi e tornare ad avere uno scambio con il gruppo e
diventare protagoniste di se stesse. L’essere violente, picchiarsi, offendersi non
esisteva a Empoli eppure le prime sette che aprirono quel piccolo Istituto in una
zona tranquilla della città, erano le migliori delle peggiori. Vuoi per tipologia di
reati vuoi per il comportamento avuto in altri Istituti. Ma non era tutto rose e
fiori. Vivere con lucidità tutto quanto ti stava accadendo, non sempre si riesce
a sopportare e diventa più difficile vivere la propria condanna. Io che ero stata
assolta dal quel fatidico ed ingombrante 416 bis, ancora mi risultava e fui
“os-servata” per l’ennesima volta. La direzione del carcere chiese al Ministero della
Giustizia che tipo di detenuta ero, a quale classe appartenevo. Se non lo avessero
fatto, per regolamento non avrei potuto scontare quella nuova condanna di tre
anni ed otto mesi là dentro. Fui “declassata”. Ero una detenuta comune non
più mafiosa. Empoli ha lavorato su di me ed anche sulle altre ospiti come una
“mamma”, credendo nelle potenzialità di ognuna di noi, facendo uscire dalle
nostre personalità così forti, in discussione con il sistema “fuori”, il meglio che
dentro avevamo. Sì il meglio, perché quel meglio se c’era prima doveva tornare
fuori. Quando ci ammaliamo consumando eroina e cocaina, abbiamo bisogno
di cure. Io non sono nata tossicodipendente e non avrei mai pensato che un
carcere mi curasse nella maniera giusta. Forse ad Empoli c’era una cosa
impor-tante che dovrebbe essere trasportata nelle altre realtà a circuito ordinario dato
che il progetto di custodia attenuata non esiste più: il rispetto reciproco tra
ospiti e personale di custodia, creando un rapporto umano. Con il Comune
di Empoli, l’allora sindaco Vittorio Bugli, oggi assessore alla Presidenza della
Regione Toscana e la giornalista de Il Tirreno, Barbara Antoni che prima
in-segnava inglese ai detenuti di Empoli, in quanto Istituto maschile, ebbero una
grande idea che si è poi, nel tempo, dimostrata vincente, anche con la
collabora-zione dell’Arci Empolese Valdelsa: realizzare il giornale della amministracollabora-zione
comunale empolese e farlo scrivere alle ragazze del carcere di Empoli. A quel
piccolo gruppo di donne il Comune ha sempre dato sostegno e voce e nacque
così il progetto di due posti di lavoro in comune per coloro che si erano
con-traddistinte nella scrittura della rivista “Ragazze Fuori”, dove tutte scrivevano,
riconosciuta in città, che ha avuto una grande storia decennale, ancora nei cuori
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Patrizia Tellinidi molti, attualmente “sospesa” per mancanza di fondi e di un nuovo progetto
di pubblicazione. Io sono stata la prima a sperimentare il fuori dopo un anno di
comunità terapeutica a Varazze. Finito l’ultimo anno in affidamento la, arrivai
ad Empoli e comincia questa avventura. Questo progetto è diventato il mio
futuro. È il mio lavoro oggi. Quella piccola redazione del periodico ‘Empoli’ è
l’ufficio stampa del Comune; sono iscritta all’Albo dei giornalisti della Toscana
elenco pubblicisti e mi occupo di conferenze stampa, comunicati e tanto altro.
Ho imparato da giornalisti professionisti che sono stati i miei capi e dal 16
ot-tobre 2000 vivo un sogno diventato realtà, grazie alla scrittura e a due persone
che hanno scommesso su di me per la mia voglia di vivere e di tornare ad essere
quella ragazza spensierata di un tempo. Vorrei che la mia esperienza del giornale
tornasse dentro il carcere di Empoli; le ragazze lo vorrebbero tanto e vorrei che
si osasse di più in questo campo, senza pensare solo a tagliare fondi. I miei occhi
hanno visto tanto, troppo in quei luoghi: abusi che ho subito, ho visto
ragaz-ze morire nel sonno per la troppa terapia o impiccate con una calza davanti al
proprio bambino ed ho visto donne che ce l’hanno fatta grazie alla custodia
at-tenuata di Empoli, alle Istituzioni che hanno dato loro la speranza che un’altra
vita era possibile, se lo avessero voluto. Non mi ritengo un esempio ma ritengo
che costosa o no quella esperienza empolese, non doveva essere spazzata via. In
tanti hanno lottato perché non accadesse. Mi sono salvata la vita, sono un
mam-ma di un meraviglioso bambino di dieci anni a cui un giorno racconterò la mia
storia. E a voi che state leggendo e che siete gli operatori che possono e devono
fare di più per la popolazione che vive al di là di quelle mura, non smettete mai
di credere che quelle persone un giorno potranno tornare ad esser cittadini del
loro domani, perché ne abbiamo comunque il diritto.
Nel documento
E' una bella prigione, il
mondo
(pagine 140-143)