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Come per quanto concerne il romanzo antico, con il quale il genere degli Atti apocrifi condivide motivi e modalità diegetiche94, ci si è spesso domandati se la riproposizione di determinati nuclei narrativi dipendesse dall’esistenza di tradizioni più o meno popolari e tramandate per via orale o, piuttosto, dalla presenza di modelli letterari ben precisi. Si è posto, dunque, sin da subito il problema delle cosiddette ‘fonti’. In effetti, l’impressione che si ha nel leggere gli Atti apocrifi è che questi siano molto spesso il risultato della combinazione di unità narrative più piccole e, in un certo qual modo, autonome95.

Come nota Christine Thomas (1992, 129), stabilire le fonti di un’opera significa determinare, nel contempo, il ruolo sociale che essa aveva, il pubblico e lo scopo, finanche l’eventuale intento teologico. In questo senso, il primo a porsi il problema del ‘genere’ e, più in generale, il problema delle fonti fu Junod (1983, 271-285), il quale si chiedeva se determinati elementi romanzeschi presenti negli Atti apocrifi rispondessero all’esigenza di conservare più tradizioni possibili intorno alla figura degli apostoli o, piuttosto, se dipendessero dall’adeguamento di genere a una determinata letteratura d’intrattenimento. Premesso ciò, sono pochi gli studiosi che, nel campo degli apocrifi cristiani, si sono preoccupati di analizzare in maniera analitica il problema delle fonti. Junod (1983, 274s.), dal canto suo, si mostrava scettico nei confronti del cosiddetto

source criticism, non perché negasse l’esistenza di fonti (orali o letterarie) alla base

degli Atti apocrifi, ma perché riteneva impossibile determinarle con precisione, e distinguere, così, tra ‘tradizione’ e ‘redazione’, a meno di non trovare riferimenti ‘esterni’ al testo. In generale, secondo Junod, dovevano certamente esistere delle tradizioni sugli itinerari e sulla morte dei singoli apostoli, ma tutto il resto dipendeva prevalentemente dalla libera creazione dell’autore.

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Dobschütz (1902, 87-106) arrivò a sostenere che gli Atti apocrifi altro non erano se non dei veri e propri romanzi. I Cristiani avrebbero impiegato il genere del romanzo – nella struttura e nei contenuti – come modello letterario per i propri scopi propagandistici. Rosa Söder (1932), per parte sua, si mostrò più scettica a riguardo: escludeva una dipendenza diretta del genere degli Atti apocrifi dal romanzo greco e preferiva vedere alla base di entrambi la presenza di motivi ben più antichi e condivisi anche dal genere dell’epica e della storiografia: come il viaggio, l’aretalogia, la teratologia, l’elemento erotico, la propaganda. Credeva, in sostanza, nel riutilizzo di storie popolari trasmesse anche per via orale.

95 Un caso emblematico è quello degli Atti di Giovanni: Junod e Kaestli (1976, 125-145), sulla base di

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Che esistesse una forma di sapere orale, tuttavia, è non solo plausibile, ma confermato dalle parole di Papia che, in Eus. HE II 39,3s., afferma: οὐ γὰρ τὰ ἐκ τῶν βιβλίων τοσοῦτόν με ὠφελεῖν ὑπελάμβανον ὅσον τὰ παρὰ ζώσης φωνῆς καὶ μενούσης. Benché sia pressoché impossibile individuarle con sicurezza e precisione, è a mio avviso corretto quanto nota Christine Thomas (1992, 134), quando ritiene che il source

criticism o, meglio, l’oral criticism, risulta fondamentale al fine di comprendere il

contesto socio-culturale nel quale è nato un determinato testo. Accanto a un approccio prevalentemente letterario sugli apocrifi cristiani, i primi a occuparsi in maniera sistematica delle tradizioni orali soggiacenti agli apocrifi, sono stati Mac Donald (1983), Virginia Burrus (1987), e appunto Christine Thomas (1992).

Mac Donald prendeva come esempio tre racconti contenuti negli Atti di Paolo: il racconto di Tecla, il racconto di Efeso (o del leone battezzato), il racconto del martirio. Di queste tre sezioni narrative, lo studioso sottolineava non solo come esse fossero largamente conosciute in antico – erano, per esempio, note anche ad autori come Tertulliano, Origene e Girolamo – ma soprattutto rilevava la loro autonomia narrativa, fatta di incipit, svolgimento e conclusione, nonché la presenza di elementi folklorici: per esempio, la storia del leone battezzato avrebbe avuto come modello l’allora assai noto racconto su Androclo e il leone. Soprattutto, Mac Donald sottolineava l’intrinseca estraneità di questi tre nuclei narrativi al resto del racconto ed escludeva che potessero essere stati creati ex novo dall’autore degli AP.

Stabilito tale assunto, tuttavia, diventa difficile comprendere quanto del resoconto pervenuto sino a oggi derivi da un racconto orale o, piuttosto, da un redazione scritta, capire cioè quanto lavoro originale ci sia dietro la ‘rimodulazione’ di un determinato motivo narrativo: sarebbe come comprendere quanto Eschilo ha alterato la leggenda di Oreste per comporre la sua trilogia. In ogni modo, Mac Donald, riprendendo un famoso studio di Olrik (1965, 129-141), enucleava otto regole più o meno necessarie alla composizione di un racconto orale, che possono fungere da guida nel rintracciare all’interno dei testi tradizioni non scritte:

1. La regola dell’incipit: un racconto orale non inizia mai ex abrupto, ma prende sempre le mosse da una situazione di ‘calma’ per poi procedere verso l’azione vera e propria.

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2. La regola del protagonista: l’azione si concentra, generalmente, su di un solo personaggio.

3. La regola del contrasto: l’azione si esplica intorno a un episodio di conflitto fra due o più personaggi.

4. La regola del doppio: il/i personaggio/i minore/i possono essere per così dire ‘duplicati’.

5. La regola del filo singolo: la storia è generalmente economica e semplice. 6. La regola della ripetizione: nei racconti orali, le scene vengono di sovente

ripetute.

7. La regola della scena: il picco della narrazione viene spesso realizzato attraverso ‘scene quadro’, dotate di una loro forza evocativa e immaginifica. 8. La regola della chiusura: ogni racconto orale deve avere una sua

conclusione.

Se lo studio di Mac Donald può essere utile a confermare l’ipotesi che gli Atti apocrifi facciano uso sovente di tradizioni di tipo orale, egli tuttavia non arriva ad analizzare nel dettaglio le sequenze narrative degli Atti di Paolo: non spiega, cioè, quanto, di queste storie, debba essere attribuito a motivi già esistenti e quanto, invece, alla creatività redazionale. Se Junod assegnava troppa responsabilità al lavoro dell’autore, non era in torto quando affermava che è pressoché impossibile individuare nel dettaglio il rapporto tra le fonti e il lavoro di stesura: gli Atti apocrifi sono testi il cui pubblico e le cui occasioni rimangono a tutt’oggi poco chiare, ma essi devono certamente molto della loro fisionomia alla comunità entro la quale venivano redatti, tradotti, trasmessi o rielaborati. Del resto, la forma nella quale questi testi sono pervenuti è spesso variabile e presenta fenomeni di ‘ricontestualizzazione’: gli AAB, con la loro epitome, ne sono, in questo senso, un esempio illuminante. Contesti ed elaborazioni dottrinali potevano mutare sensibilmente la forma di un racconto o di un testo. Per tale ragione, prudenza vorrebbe che, se è possibile ammettere l’esistenza di motivi orali o di tradizioni locali, lo studioso non osi spingersi oltre tale affermazione.

Tuttavia, Christine Thomas (1992, 138-144) ha voluto andare oltre questo assunto: la studiosa prende in considerazione la struttura degli Atti di Pietro e sulla base dell’analisi testuale, mostra come la sezione 9-15 derivi verosimilmente da una breve unità scritta, arrivando a ipotizzare, in essa, almeno tre fasi redazionali: presenza di fonti

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scritte, composizione di un continuum narrativo, lavoro redazionale. La studiosa enuclea altresì, all’interno del medesimo testo, diversi motivi narrativi che rimanderebbero a fonti orali, e mostra chiaramente come i due tipi di fonte (quella orale e quella scritta) fossero entrambi presenti e produttivi.

L’analisi puntuale di Christine Thomas, al di là della validità del suo lavoro, dovrebbe fungere da esempio nello studio degli Atti apocrifi. Non sempre, infatti, è necessario ‘rassegnarsi’ all’idea che si tratti di testi la cui storia redazionale è talmente complessa da risultare insondabile. Come si è detto, gli AAB rappresentano un testo esemplare sotto questo punto di vista: la storia del mostro convertito alla fede cristiana era un motivo largamente diffuso e conosciuto in antico96. Se ne trovano esempi simili negli Atti di Paolo e Tecla (9,7-9) e negli Atti di Filippo (8). Del resto, la morfologia stessa del racconto sembra seguire le regole enucleate da Olrik, nonché essere dotata di una certa autonomia, caratteristica dimostrata dal fatto che gli epitomatori riuscirono a ritagliare dal testo degli AAB questo motivo soltanto.

Ciò nonostante parlare di racconti esclusivamente orali sarebbe riduttivo e semplicistico. Come dimostra lo studio di Christine Thomas (1992), infatti, un medesimo autore poteva usufruire di ‘fonti’ tanto orali quanto scritte e mischiarle fra loro. Gli Atti di Pietro ne sono la dimostrazione. Non solo: va a mio avviso considerata l’ipotesi che, in una società a carattere ancora parzialmente ‘orale’, ma che faceva ampio uso della scrittura, i due piani venissero a intersecarsi di sovente. Ci si riferisce, cioè, alla possibilità che gli autori di questi testi potessero fare uso di fonti scritte, rimodulandole secondo i meccanismi propri della tradizione orale, a cui erano evidentemente abituati. La vicinanza testuale che intercorre, per esempio, tra il racconto del leopardo negli Atti di Filippo e quello dell’antropofago degli AAB non può essere casuale e lascerebbe propendere per una dipendenza diretta fra i due testi (vd. commento). Il racconto, tuttavia, viene risemantizzato in maniera completamente differente, mantenendo all’interno di esso i crismi tipici del racconto orale che sono stati enucleati da Olrik. A una situazione iniziale, sono stati così sostituiti soggetti e contenuti, probabilmente a scopo teologico. In effetti, se alla base del racconto del leopardo contenuto negli Atti di Filippo stava la polemica encratita sull’uso della carne, per converso negli AAB l’autore sembra voler accostarsi alla teoria, largamente

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sviluppata in Agostino e in Isidoro di Siviglia, secondo cui l’atto creativo e il conseguente piano di salvezza divina avessero valenza universale. Si ammetterà dunque la possibilità concreta che l’autore degli AAB conoscesse gli Atti di Filippo e che non si rifacesse semplicemente al motivo assai noto della conversione dell’animale, presente per esempio negli Atti di Paolo e Tecla, ma che abbia saputo declinare quel racconto ai suoi scopi, nel pieno rispetto delle regole che governano un racconto e, nella fattispecie, un racconto di tipo orale.

Lo stesso, poi, potrebbe dirsi riguardo alla leggenda di S. Cristoforo, che vantò, in antico, una fortuna ben più ampia rispetto a quella degli AAB e che sembra prendere le mosse proprio da questo apocrifo nella costruzione del motivo narrativo di partenza. Come si vedrà in sede di commento, infatti, le agiografie sul Santo risemantizzano il

topos della conversione del mostro all’interno di un racconto che ha ben poco a che

spartire con quello contenuto negli AAB, dando esito a due narrazioni (quella orientale e quella occidentale) completamente diverse: se nelle versioni latine viene descritta la storia di un gigante che reca sulle spalle Cristo (una probabile rielaborazione eziologica dell’etimologia del nome Christo-phoros), in quelle orientali (greche e siriache) si parla di un cinocefalo antropofago convertito alla fede cristiana e martirizzato sotto Decio. In un caso come questo, la cosa più semplice sarebbe quella di postulare che il racconto sulla conversione del mostro (cinocefalo o gigante che fosse) sia una storia trasmessa per via orale. Tale spiegazione, tuttavia, non soddisfa completamente: come si vedrà meglio in sede di commento, le versioni greche della leggenda di S. Cristoforo riportano alcuni dettagli che non possono essere spiegati se non sulla base di una trasmissione scritta. Oltre agli elementi in comune, come il cambio del nome, l’antropofagia, il dono dell’umana favella e la vicinanza tra i due appellativi (Cristoforo e Cristomeo), il Cristoforo con i denti sporgenti di cinghiale (οἱ ὁδόντες αὐτοῦ ὡς συάγρου ἐξέχοντες) e gli occhi infuocati (οἱ ὀφθαλμοὶ αὐτοῦ ὡς ἀστὴρ ὁ πρωὶ ἀναστέλλων) – caratteristiche che non sono proprie, né topiche della razza dei cinocefali – non può non ricordare la descrizione che viene data di Cristomeo, il protagonista degli AAB. Soprattutto, quello che stupisce è il doppio esito che la leggenda di Cristoforo avrà in Oriente e in Occidente, che sembrerebbe derivare proprio da una variante testuale presente negli

AAB. Mentre, infatti, nella versione copta Cristomeo è descritto come un vero e proprio

cinocefalo, in quella greca egli appare piuttosto come un mostro gigantesco, dall’aspetto canino. Come si vedrà in séguito, l’espressione τοῦ κυνὸς μορφὴν ἔχοντος non è esente

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da alcune difficoltà grammaticali e, nel contempo, risulta assai difficile stabilire se, in origine, Cristomeo fosse un uomo con la testa di cane o semplicemente un mostro. In questa sede, si dirà soltanto che la descrizione generica, e non di meno la logica, farebbero propendere per la seconda soluzione. Quello che tuttavia è interessante è che la leggenda di Cristoforo pur sembrando in apparenza essere una rielaborazione completamente autonoma di un motivo orale, presenta la medesima variante testuale che si trova negli AAB. Non solo, nella versioni latine, Cristoforo viene definito gente

Cananeus. Se si ammette la possibilità che Cananeus sia errore di canineus, si avrebbe

così l’esatta traduzione di τοῦ κυνὸς μορφὴν ἔχοντος. Come si dirà più avanti, va esclusa, l’eventualità che sia stato l’epitomatore degli AAB a eliminare, a posteriori, l’elemento della ‘cinocefalia’ sulla base della leggenda occidentale di S. Cristoforo, che certamente doveva essere assai conosciuta. Il martirio finale παρὰ τοῦ βασιλέως δέλκου – probabile errore testuale per Decio – fa infatti presupporre che l’epitomatore scrivesse in àmbito bizantino e conoscesse, piuttosto, la versione orientale della leggenda, quella cioè con il cinocefalo. Si ritiene utile riprodurre, in questa sede, uno schema che mostri, in via ipotetica, quella che potrebbe essere stata l’evoluzione del motivo del mostro convertito alla fede cristiana, a partire dalla storia del leopardo contenuta negli Atti di

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