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RAGGUAGLIO SULLA FISICITÀ DEI LIBRI

Nel documento Elisa nella stanza delle meraviglie (pagine 7-19)

Sulla consistenza

In questo momento la mia biblioteca dovrebbe ospitare circa settemila volumi. Non lo so con esattezza, ho smesso di contarli anni fa. Non li ho mai catalogati (anche se ho intrapreso più di un tentativo) e riesco ad avere un’idea della quantità solo calcolando una media per scaffale. Cre-do comunque che oltre una certa cifra i numeri non abbiano più impor-tanza. Sono già significativi del passaggio dall’amore per i libri alla bi-bliomania. Amare i libri comporta possederne tanti quanti se ne sono letti o si ha realisticamente l’intenzione di leggere, mentre la bibliomania è uno stato patologico, che sfocia in un accaparramento fine a se stesso, in una accumulazione molto “capitalistica”. Io sono un bibliomane, e te ne darò le prove.

Seimila volumi accumulati negli ultimi trent’anni (tra i quindici e i venticinque ero arrivato a circa un migliaio) significano una media di duecento libri l’anno. Calcolando che sono un lettore velocissimo, ma te-nendo conto che nel frattempo ho anche lavorato – nella scuola e più an-cora in campagna –, ho praticamente costruito un paio di case, ho scritto sui temi più disparati, ho scalato montagne e fatto cene con gli amici, e non ultimo ho avuto tre figli e due famiglie, posso aver letto tra i sessanta e gli ottanta libri l’anno. Almeno due terzi dei libri che possiedo, quindi, non li ho letti.

In compenso li conosco. Non ho mai riposto un libro negli scaffali senza averne assaggiato qualche pagina, oltre ad aver letto i risvolti di copertina, l’indice e qualche volta l’introduzione. Posso affermare di sapere, almeno per sommi capi, di cosa parla ciascun libro della mia biblioteca. E quindi posso fare ad esso riferimento in qualsiasi momento, quando se ne presenti l’opportunità.

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Un caso a parte è costituito dai libri di saggistica (che sono la maggio-ranza). Spesso ne ho letto solo alcune parti, o passi specifici che poteva-no tornarmi utili per qualche ricerca. Quindi in fondo poteva-non è vero che poteva-non li abbia letti: ho letto quello che mi serviva.

Quanto alla sindrome dell’accumulo, che comunque esiste, ha anch’essa una parziale giustificazione, anzi, ne ha diverse. Ci sono libri che prendi in un momento nel quale non hai assolutamente tempo o di-sposizione per leggerli, ma che ti riprometti di leggere al più presto – e magari il tempo e la voglia non arrivano mai più. Altri ancora, specie quelli particolarmente ponderosi, li metti da parte “per l’inverno”, in vi-sta di non augurabili ma possibili lunghe degenze o convalescenze, o ad-dirittura detenzioni (non sto scherzando. Non del tutto, via. Secondo le statistiche nessuno legge quanto i ricoverati o i carcerati – per ovvi moti-vi. E personalmente ho il ricordo di un isolamento di trentadue giorni per epatite, negli anni sessanta, senza il quale non avrei mai letto “Guer-ra e pace”).

Ci sono infine quelli che “devi” avere per completezza. I nomi che ti si sono stampati nella mente studiando le storie delle diverse letterature hanno un’aura particolare: sai benissimo che non leggerai mai “La desi-nenza in A”, che pure ti aveva intrigato da studente, ma ritieni che la tua sezione di letteratura italiana non sarebbe sufficientemente completa sen-za quel volume. Questo vale naturalmente per le opere letterarie. Per la saggistica è più facile che il libro che acquisti ti intrighi davvero, anche se a breve non avrai il tempo di affrontarlo, perché ritieni possa rivelarsi utile in vista di possibili o probabili ricerche. In qualche modo cerchi di riempi-re la dispensa di saperi che siano a portata di mano per ogni evenienza.

A non avere spiegazioni di alcun tipo, se non connesse alla sindrome maniacale, sono invece quei titoli che possiedi in due o più edizioni, per-ché li avevi acquistati ed utilizzati magari in economica e li hai poi trovati in una veste più lussuosa, rilegata o comunque accattivante. Quando il numero delle edizioni possedute supera il tre conviene cominciare a preoccuparsi e pensare a qualche terapia (che non esiste).

Settemila volumi sono davvero tanti. Anche se si trattasse di sole edizioni economiche, con un peso medio (verificato) attorno ai tre etti, si arriverebbe ad un paio di tonnellate di carta. Dal momento che oltre la metà sono edi-zioni rilegate, con peso medio attorno agli otto etti, posso stimare un ordine

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di quattro-cinque tonnellate. Un bel carico, pure se distribuito perimetral-mente. Non sarebbe male fare ogni tanto delle verifiche strutturali sui muri maestri e sulle solette.

Nella cifra – e nel peso – ho incluso quasi tutto il mio patrimonio libra-rio, compresi i libri per la gioventù, l’antiquariato, i vari dizionari (una quindicina, per undici lingue – di cui tre morte e sette che non conosco) e le enciclopedie; ho escluso invece le raccolte di riviste storiche, antropolo-giche e scientifiche, e tutto il settore scolastico, che stante la mia profes-sione è piuttosto consistente.

Questa mole di roba occupa anche un notevole spazio. Qui posso esse-re più pesse-reciso. Le scaffalatuesse-re per i libri occupano circa cinquanta metri quadri di pareti, distribuiti su quattro locali. Altri otto metri sono occu-pati in un rustico che ho riattato in aperta campagna.

C’è infine un altro aspetto da considerare, quello patrimoniale. Ho provato a calcolare quanto ho speso in più di quarant’anni per i libri, e quale potrebbe essere il loro attuale valore, facendo le debite rivalutazio-ni dei prezzi. Ho tenuto conto di tutta una serie di variabili (acquisti scontati, metà prezzo, regalie, ecc...) e credo di poter arrivare a una valu-tazione credibile, senz’altro approssimata per difetto, tra i sessanta e gli ottanta milioni di vecchie lire (il prezzo medio di un economico, oggi, è attorno ai dieci euro, ventimila vecchie lire). Se dovessi buttare il tutto sul mercato dell’usato riuscirei a spuntare (data la qualità e lo stato di conservazione) venti milioni. A conti fatti, anche come investimento prettamente economico si è mostrato senz’altro superiore a quelli nei Bond argentini o nei titoli tecnologici.

Una spesa di due milioni l’anno in libri (non una tantum, ma per qua-rant’anni) può sembrare un tantino esagerata. In realtà, se ci si riflette, è nulla rispetto ai sette e passa milioni annui che mi è venuto a costare nel-lo stesso periodo l’uso dell’auto, tra svalutazione, benzina, assicurazioni e accidenti vari, ed è pari a quanto ho buttato letteralmente in fumo per la disperazione dei miei polmoni. Senza contare i vantaggi collaterali, seme di ordine puramente economico, che ha comportato, come ad esempio il non dover investire in quadri o in mobili per riempire le pareti. Quel problema è stato infatti risolto con semplici scaffalature.

Bada che è un aspetto tutt’altro che secondario. Chi entra in una casa zeppa di libri, fosse anche la più pettegola delle amiche, deve sospendere

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i normali criteri di giudizio relativi all’arredo di interni. L’arredo domi-nante sono i libri stessi, quindi o li ama, e allora si immerge e gode, e non gli frega nulla se i mobili sono antichi e se c’è l’idromassaggio, oppure non li ama ma li teme, e capisce di essere in una dimensione altra, nella quale non ha alcun senso esibire megaschermi o divani in pelle di lucer-tola, e si arrende. Ma vallo a spiegare alle mogli che si lamentano per l’invadenza dei libri dei mariti (non conosco mariti che si lamentino per l’invadenza dei libri delle mogli).

Sulle infrastrutture (leggi: scaffali)

La storia della mia biblioteca può essere raccontata anche partendo dagli scaffali. Ne possiedo di diverse tipologie. Quella passata nel rustico è la prima scaffalatura seria che ho potuto permettermi, pressappoco at-torno ai venticinque anni. In precedenza mi arrangiavo con trespoli del Postal Market, che si ordinavano via catalogo, erano in truciolato sottile rivestito di formica e assumevano ben presto le curvature più incredibili.

Ricordo che dovevo rivoltare sottosopra i ripiani almeno una volta al mese. Ma il mio primo scaffale in assoluto era stato un pensile, realizzato da un falegname del paese che aveva in mente come unico modello una piattaia, e nessuna cognizione del suo uso. Avevo dodici o tredici anni.

Lo riempii subito con tutto ciò che di cartaceo avevo a disposizione, giornalini compresi. Dopo pochi mesi cominciò ad essere abitato da un tarlo, anzi, da generazioni successive di tarli, che la notte mi facevano impazzire (era appeso in camera). Mi alzavo e pestavo sul legno con scarpe, libri, con tutto ciò che avevo a portata di mano. Taceva per dieci secondi e poi riprendeva. Tutto questo è andato avanti per anni, nella più assoluta inconsapevolezza di mio fratello, che continuava beatamen-te a russare, a volbeatamen-te in sintonia col tarlo. Oggi quello scaffale lo trovi ap-peso in magazzino. I tarli sono stati uccisi dal freddo.

I primi scaffali seri erano comunque assolutamente poco funzionali e ingombranti, alti solo due metri, profondi quasi mezzo, adatti per di-sporre i libri su tre file, con pianali fissati rigidi: ciò che di peggio può es-sere immaginato per un bibliofilo. Ma erano anche i più economici.

Il salto di qualità l’ho realizzato quasi quindici anni dopo, quando ho fornito lo studio di una scaffalatura dignitosa, con ripiani mobili e

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sti. Ho risolto il problema della profondità con una complicata operazio-ne di taglio e riassemblaggio di montanti e ripiani, che mi ha consentito di aumentare di un terzo la metratura quadrata.

Negli ultimi anni, a seguito anche delle disavventure familiari, ho po-tuto realizzare un doppio sogno: quello di invadere con i libri anche il

“tinello”, partendo dalla copertura della parete di fondo, e quella di co-struirmi personalmente anche gli scaffali, in legno massiccio. Ne vado particolarmente fiero. Ad uno sguardo attento non possono sfuggire le imperfezioni, ma il colpo d’occhio immediato è notevole, i pianali sono robustissimi, la profondità è quella giusta per risultare pienamente fun-zionale e non ingombrante.

Esiste infine una quarta scaffalatura, ereditata, che assomma ai difetti di dimensione dell’arredo da ufficio una fastidiosa lamella metallica a vi-sta, e che quindi è stata relegata in una camera decentrata. Ed altri pezzi sparsi, tra i quali due pregevoli (per me, almeno) vetrinette, perfette per i libri d’antiquariato.

Non prevedo, al momento ulteriori acquisizioni strutturali. Non saprei dove metterle. Il corridoio è stretto, il bagno è microscopico, in camera tua non c’è più spazio. Se vorrai continuare nell’opera dovremo inven-tarci qualcosa.

Sui criteri di collocazione

I miei libri sono disposti secondo un ordine ben preciso. Per discipline la saggistica, per aree linguistiche la letteratura. Sono poi ordinati se-condo diversi criteri di suddivisione. Per la letteratura ho adottato il cri-terio cronologico: per ogni area parto dalle origini e procedo per autori, in successione biografica (quindi non in base alle date di pubblicazione dei testi, ma a quelle di nascita degli autori). Per la saggistica mantengo il criterio cronologico per alcune discipline, mentre procedo per aree, per assonanze o per temi in altre, oppure combino assieme i vari criteri. Ad esempio: i testi storici e le biografie sono disposti in base al periodo sto-rico di riferimento, ma in alcuni casi questo criterio si associa alla suddi-visione per aree geografiche (popoli extraeuropei) o tematiche (biografie

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di rivoluzionari, di scienziati, ecc…). Lo stesso accade per Filosofia e per la Storia delle idee.

I criteri di collocazione dei libri possono essere svariati. Non tutti sono sensati, anche se danno l’impressione di riuscire funzionali. Trovo ad esempio irritante la collocazione per ordine alfabetico. Può andare bene in una biblioteca pubblica, o in una libreria, dove l’utenza va in cerca di un’opera ben precisa e deve poterla facilmente reperire. Ma è assurda in una biblioteca privata. La biblioteca privata non è una raccolta di libri. È un archivio della memoria che riveste funzioni ben diverse da quella pu-ra e semplice del contenitore. Deve offrire un quadro pu-ragionato delle possibilità, suggerire percorsi, raccontare storie. Se ho in mente un tema, e voglio approfondirlo cercando di sapere come lo hanno trattato autori diversi in diverse aree linguistiche, devo poter fare scorrere lo sguardo su titoli che seguono un certo ordine temporale, magari partendo da un preciso periodo o limitandomi ad un’area specifica. Una volta rintraccia-to in un aurintraccia-tore il tema in questione, saranno le parole stesse di quest’ultimo a evocarmi il ricordo di altre pagine, a rimandarmi ad altri autori. Più che mai questo criterio è importante per la saggistica, storica, letteraria o scientifica che sia.

Naturalmente, una collocazione di questo tipo presuppone che si ab-bia un’idea piuttosto precisa, ad esempio, della biografia o almeno dei dati anagrafici degli autori. Ma questo, per chi possiede settemila volu-mi, è implicito.

Al di là comunque dei criteri generali di collocazione ne esistono altri, più particolari e più soggettivi, nei quali non ha molta importanza la fun-zionalità, ma entra in scena la rappresentazione. I libri che possiedi non solo sono una parte di ciò che sei, ma lo dicono anche. Parlano a te, ma parlano anche di te a chi è capace di ascoltarli. E allora è naturale che scattino anche malizie di depistaggio, che si cerchi cioè di farli parlare non solo di ciò che si è, ma anche di come si vorrebbe apparire. Esistono quindi criteri di collocazione che sono motivati in parte da ragioni esteti-che, in parte da intenzioni comunicative.

La motivazioni estetiche possono riguardare ad esempio le dimensioni o il colore. Tomi piuttosto voluminosi ed alti stonano se collocati al cen-tro del ripiano, magari stretti da ambo i lati da volumetti di formato più ridotto. Anche quando non lo suggeriscono ragioni di opportunità e di

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equilibrio nella distribuzione dei pesi, come non caricare al centro per evitare la deformazione del legno, dovrebbe intervenire il buon gusto. Lo stesso vale, quando è possibile, per gli accostamenti di colore. Non di-sturbano tre o quattro volumi della stessa collana, ma è piatto e orribile un intero ripiano riempito con volumi dalla stessa veste editoriale.

Le intenzioni comunicative creano equilibri e determinano scelte molto più complesse. Già nel loro assieme i libri esibiscono un nostro vero o pre-sunto sapere, dispiegano la varietà e la molteplicità delle nostre conoscen-ze, o concentrano invece sulla loro specificità e profondità. Duemila vo-lumi di psicologia ci qualificano in maniera ben diversa da quattromila sparsi su venti discipline: i primi parlano di uno specialista, i secondi di un enciclopedico dilettante. Nel primo caso il problema delle sub-collocazioni preferenziali evidentemente non si pone. Nel secondo è inve-ce fondamentale. Su scaffalature di quasi tre metri di altezza, mediamente divise in sette-otto spazi orizzontali, bisogna considerare pienamente utili in termini comunicativi tre o quattro spazi, escludendo i due più alti e i due più bassi. È difficile che qualcuno si inginocchi per andare a sbirciare i titoli posti rasoterra, o salga su una sedia per decifrare quelli al soffitto. Si concentrerà su quelli ad altezza d’occhi, nelle due posizioni in piedi o se-duto. Occorre quindi fare una prima scelta delle discipline o delle sezioni che si ritiene ci rappresentino poco o non ci rappresentino più, ed esiliarle negli spazi più decentrati (d’altro canto, è lo stesso criterio col quale ven-gono valutati i prezzi per i loculi cimiteriali: quelli delle file centrali sono più cari). In genere questo criterio ha anche delle motivazioni funzionali:

se si ritiene che un determinato settore ci rappresenti poco è perché in quel momento lo frequentiamo poco, quindi abbiamo minore necessità di ricorrere alle “schermate” o di cercarvi titoli particolari.

Esempio pratico: nella mia libreria il settore dottrine politiche, dottri-ne economiche, marxismo ha goduto per lungo tempo di una collocazio-ne centrale. Poi ha cominciato gradualmente a perdere posizioni, sospin-to verso l’alsospin-to dall’ingresso di nuovi interessi e priorità. Ben prima della caduta del muro di Berlino o dell’abiura al comunismo della sinistra ita-liana era arrivato ad occupare l’ultimo ripiano in alto, nella posizione d’angolo. Credo di non avere più pescato un libro di lassù negli ultimi quindici anni. Li sposto solo per togliere la polvere (ma so di biblioteche dove è andata ancor peggio, e certe sezioni sono proprio scomparse). La stessa sorte è toccata alle sezioni di storia delle religioni, scivolata nei

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piani a terra, e di antropologia, esiliata in alto. In compenso hanno con-quistato posizioni centrali le biografie (quelle degli “irregolari”, da Saint-Just a Camus), l’ebraismo, la letteratura di viaggio, la storia delle idee. Si potrebbe ricostruire la vicenda culturale di una generazione, seguendo questi spostamenti.

Esistono poi ulteriori e sottili malizie. Si possono riservare un paio di ripiani, quelli assolutamente centrali, più accessibili, maggiormente in luce, all’attualità (degli interessi). Agli ultimi libri che hanno suscitato entusiasmi o riflessioni, che si vogliono partecipare agli altri e condivide-re. Una sorta di vetrinetta delle novità, con i volumi non troppo pressati per essere facilmente estraibili dal visitatore curioso, che ti domanda di che si tratta e com’è. In questi spazi c’è posto naturalmente anche per le stravaganze, quelle chicche che è difficile trovare in circolazione e che tanto suggeriscono del tuo fiuto speciale e della tua appartenenza al gruppo iniziatico dei “veri conoscitori”. Questa vetrina deve essere un autentico fiore all’occhiello, va rinnovata con discrezione, con piccoli spostamenti, sporadiche rimozioni e oculati innesti. È fondamentale.

15 Sulla manutenzione

La vita fisica media dei libri editi dopo la seconda guerra mondiale non supererà, secondo gli esperti, il mezzo secolo. Responsabili di questo ra-pido degrado sono la pessima qualità della carta, che per lo più è riciclata o ricavata dagli stracci, gli inquinanti atmosferici, che agiscono sui libri come su tutto il resto, ma soprattutto l’idea stessa di merce di consumo che ha investito anche la cultura, e che porta a risparmiare al massimo sul materiale e sulla cura nella confezione. Si prospettano quindi visioni apo-calittiche, intere biblioteche che andranno in polvere e patrimoni di sa-pienza che saranno dispersi al vento. Non so se le cose stiano veramente così, ho l’impressione che le previsioni siano un tantino allarmistiche e in-fluenzate anche dalla voglia di informatizzare tutto, ma è certo che la du-rata di un libro non può essere indefinita, e che a differenza di quelli anti-chi, fatti con carta particolarmente resistente e curati nell’edizione, quelli attuali, compresi i miei, dureranno decisamente poco. Sono già costretto a constatare che gli economici tendono a scollarsi, a disfarsi e a perdere pa-gine, e temo che la malattia non tarderà ad aggravarsi.

Questo sta nel naturale destino delle cose, e noi non possiamo farci nulla, o quasi. Possiamo però evitare di accelerare lo sfascio con un’attenzione ed una manutenzione che non richiedono un grosso sfor-zo, adottando pochi ma essenziali accorgimenti. Cerca dunque di aprire bene le orecchie, se intendi continuare a frequentare il mio studio.

Il primo accorgimento riguarda le modalità fisiche della fruizione, per intenderci il modo in cui vanno maneggiati i libri. Un libro non lo si spa-lanca, le pagine non sono persiane: lo si apre. Ogni volta che sento un crack da apertura di libro provo un lancinante dolore fisico, come se mi schiacciassero una vertebra. Lo stesso vale per il lancio dei libri, sul tavo-lo, per terra o sul divano. I libri non si lanciano, si posano, e non spalan-cati, ma chiusi. Un libro va poi tenuto possibilmente con entrambe le mani, anche perché così si è impossibilitati a fare qualsiasi altra cosa, come mangiare o bere, col rischio di sporcarlo, e questa è la condizione unica e ideale per leggere.

Un altro accorgimento è quello di evitare assolutamente orecchie o

Un altro accorgimento è quello di evitare assolutamente orecchie o

Nel documento Elisa nella stanza delle meraviglie (pagine 7-19)

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