• Non ci sono risultati.

I RAPPORTI TRA LE PERSONE E LO SVILUPPO DELLE CULTURE

Nel documento Studi Bompiani (pagine 135-200)

Buongiorno!

Riprendiamo oggi le conversazioni che abbiamo intrapreso l’an-no scorso. Quello che vi proporrò adesso sarà la continuazione del discorso di allora, ma da una prospettiva un po’ diversa. Un anno fa abbiamo parlato della cultura del passato – innanzitutto di quella del Settecento e dell’inizio dell’Ottocento – e ci siamo sofferma-ti sulle cose, sugli oggetsofferma-ti che venivano usofferma-tilizzasofferma-ti all’epoca e sulle usanze essenziali; in altri termini le nozioni elementari che è indi-spensabile conoscere per comprendere la letteratura di quel perio-do, il comportamento della gente e, in defi nitiva, la storia stessa. Ma la letteratura e la storia non si esauriscono certo negli oggetti di uso quotidiano o nelle abitudini più semplici. Resta da esaminare un aspetto molto più importante e, al tempo stesso, molto più compli-cato: in che modo gli individui comunicano tra di loro nelle varie epoche? E come mai sono necessari gli uni agli altri?

Ovviamente si tratta di una questione immensa e non possiamo neppure illuderci di affrontarla da ogni punto di vista. Le persone per esempio interagiscono tra di loro non solo durante il processo di produzione industriale, ma anche nelle situazioni più svariate della vita quotidiana, politica o sociale. Ma consideriamo un altro aspet-to, più ristretto: in che modo gli individui parlano tra di loro? Come fanno a riconoscersi? In che modo si relazionano nella vita di tutti i giorni e perché mai questo tipo di comunicazione appare loro tanto necessaria? Quali sono i riti in cui si sedimenta questo genere di interazione? Tutto ciò è fondamentale per comprendere il passato, perché la psicologia delle persone non è mai la stessa. Gli individui

nelle varie epoche per certi versi si assomigliano e per altri no, ov-vero condividono quei tratti psicologici che sono essenziali per tutta l’umanità e, contemporaneamente, presentano degli elementi più specifi ci. Occorre tenerne presente, non solo per capire meglio la letteratura del passato, ma anche per costruire la nostra vita attuale.

Facciamo un esempio. Un elemento fondamentale della comu-nicazione umana consiste nelle forme linguistiche rituali che gli individui utilizzano per rivolgere la parola agli altri. Nella vita di tutti i giorni noi sentiamo la mancanza di queste forme, perché non sappiamo più come si fa. Incontrate sull’autobus un tipo che non conoscete: come vi rivolgete a lui? “Cittadino” è troppo uffi ciale (così parlano gli agenti della milizia) e “compagno”, per un tizio che non si è mai visto prima non va bene. Lo stesso, a quanto mi pare di capire, succede in estone: kodanik non si usa, seltsimees nemmeno e per dire härra in genere bisogna conoscere il cognome di quella persona1.

Tutte queste forme sono ormai perdute. In compenso capita di sentire appellativi raccapriccianti, come “donna” o “uomo”. Forme assolutamente orribili, che sono la prova della dissoluzione totale del nostro tessuto sociale. Perché l’appellativo “uomo” nei confronti di uno sconosciuto lo utilizzavano un tempo le donne che esercita-vano la professione più riprovevole; quelle perbene non l’hanno mai usata. Eppure adesso si sente dire dappertutto, e questo non è che un esempio.

Anche le relazioni sociali al livello più elementare fanno parte della cultura alta e della sua elaborazione; sotto quest’angolatura è fondamentale saper guardare al passato, soprattutto in un’epoca di grandi trasformazioni come la nostra, in cui tutto cambia in fretta e spesso ci ritroviamo senza gli strumenti necessari per comprenderci l’un l’altro. E a che punto la comprensione reciproca sia importante non starò nemmeno a dirlo.

Dunque cominciamo a parlare dei vari appellativi, a partire da quelli in voga nei secoli XVIII e XIX. All’epoca, sia in Russia che nell’Europa occidentale, si trattava di forme fi sse, altamente

dardizzate. E sebbene differissero di paese in paese, una persona non aveva mai il dubbio su come rivolgersi a un estraneo. In par-te era la conseguenza del ferreo ordine sociale che si era venuto a creare nel corso dei secoli e che rendeva esteriormente più semplici i rapporti tra le persone. Ma in parte era anche dovuto a una deter-minata chiarezza di ideali.

Ma parliamo innanzitutto delle tradizioni. Con l’introduzione della Tavola dei ranghi sotto Pietro il Grande, in Russia, oltre a tutto il resto, si instaurò anche un sistema preciso per rivolgersi agli altri. Ovviamente le persone che differivano per rango si rivolgeva-no la parola in modo diverso. Nel caso dei contadini, per esempio, in genere non si utilizzava il patronimico. Se lo si usava, si trattava comunque di una forma particolare, Filippov e non Filippovic. La terminazione -ic di per sé indicava che l’individuo in questione non era un contadino. È risaputo che, quando Pietro cominciò a inclu-dere nei registri i mercanti utilizzando il suffi sso in -ic, lo si consi-derò un grandissimo onore. Per questo i mercanti erano disposti ad affrontare grandi sacrifi ci fi nanziari e a prendere parte alle varie commissioni incaricate di attuare le riforme, anche se per precau-zione avrebbero preferito non farlo. Ma torniamo per un istante alla nobiltà. Come abbiamo detto l’anno scorso, quella russa era una nobiltà di servizio. Dopo la promulgazione dell’editto sulla libertà dei nobili, costoro potevano anche non prestar servizio, ma in tal caso fi nivano per esporsi a notevoli seccature. Un individuo che non aveva mai prestato servizio per lo Stato non aveva alcun rango e, di conseguenza, alla stazione di posta per esempio riceveva per ultimo i cavalli freschi. Se comprava o vendeva qualcosa, o compilava un documento qualsiasi, si fi rmava “minorenne”,2 anche se aveva set-tant’anni. Se invece aveva prestato servizio, almeno poteva scrivere “tenente della Guardia in congedo”, “capitano di Stato Maggiore in congedo”, oppure “consigliere di Stato in carica”. In pratica i nobili avevano quasi sempre un titolo e, a seconda di quale fosse, venivano apostrofati in maniera diversa. Come se non bastasse, gli appellativi utilizzati a voce differivano da quelli in uso nei documenti uffi ciali.

Vi farò un esempio. A metà del secolo scorso uscì un libriccino divertentissimo, scritto da un tal conte Tonskij e intitolato Come

diventare un gentiluomo3. L’autore vi enumerava tutti gli appellati-vi uffi ciali. Per dirvene una, sulla busta e nell’intestazione di una missiva indirizzata all’imperatore, bisognava scrivere “A Sua Maestà Imperiale il Sovrano Imperatore”. La lettera doveva cominciare con le parole “Augustissimo sovrano” o “Vostra Maestà Imperiale”, op-pure, se si interpellava un granduca, “Altezza”. E così via, a seconda dei titoli: “Vostra Alta Eccellenza” per le prime due classi, “Eccel-lenza” per la terza e la quarta.

Vi ricordo che nel Revisore di Gogol’ a un certo punto Chlesta-kov si vanta e, lasciandosi prendere la mano, dice: “Perfi no sulle buste mi scrivono: ‘Vostra Eccellenza.’”4 Spesso gli spettatori non capiscono il senso di questa battuta. Il fatto è che Chlestakov è un impiegato della quattordicesima classe, la più bassa (uno “stupido registratorucolo”, come lo chiama il suo servo Osip), perciò dovreb-be essere chiamato “Vostra Nobiltà”. E invece lui si spaccia per un funzionario di terza-quarta classe, “Vostra Eccellenza”.

Occorre aggiungere che, in parte, tali appellativi tenevano con-to non solo del rango, ma anche della cultura di una persona. Per esempio, il rettore di un’università veniva chiamato sempre “Vostra Eccellenza”, indipendentemente dalla classe alla quale apparteneva. Ma si trattava di un’eccezione, riservata ai rettori, ai ranghi superio-ri di istituzioni particolasuperio-ri (per esempio i procuratosuperio-ri), oppure per i cavalieri di ordini insigni, come quello di Sant’Andrea Apostolo. Per cui non importava quale rango avesse un cavaliere dell’ordine di Sant’Andrea Apostolo: a lui ci si rivolgeva sempre come a “Vostra Eccellenza”. E così via, secondo la Tavola dei ranghi. La quinta clas-se non comprendeva gradi militari. Nel Settecento esisteva il titolo di brigadiere, abolito poi da Caterina, che decise di mantenere la sola carica civile di consigliere di Stato, cui spettava l’appellativo di

3 B. N. Tonskij, Kak stat’ džentl’menom: s priloženiem duel’nogo kodeksa [Come diventare un gentiluomo. In appendice, il Codice d’onore del duellan-te], Sankt-Peterburg, 1912, seconda edizione.

“Vostra Illustre Nobiltà”. E così via, fi no all’ottava classe si diceva “Vostra Alta Nobiltà” e poi “Vostra Nobiltà” e basta. In sostanza “Vostra Nobiltà” era l’appellativo che si utilizzava per rivolgere la parola a qualunque nobile, era considerato più che altro una forma di cortesia.

Oltre agli appellativi stabiliti in base alla Tavola dei ranghi, c’era-no anche quelli legati ai titoli c’era-nobiliari; a un conte o a un principe, per esempio, ci si rivolgeva come a “Vostra Vossignoria”. A tale pro-posito, bisogna ricordare ancora un’altra particolarità. Al termine della guerra del 1812 Michail Illarionovic Golenišev-Kutuzov, che divenne principe Kutuzov-Smolenskij, ricevette il titolo di “chiaris-simo Principe”. E da allora prese a chiamarsi così: “Vostra Chiarità”. Ma la cosa interessante è che esistevano anche degli epiteti a sé per gli appartenenti al clero. Per esempio, per un arcivescovo o un metropolita si usava “Vostra Alta Santità”, per un vescovo o un ar-chimandrita “Vostra Santità”, mentre a un arciprete ci si rivolgeva dicendo “Santo Padre” e a un prete semplicemente “Padre”.

Tali appellativi avevano le loro forme equivalenti anche nelle va-rie lingue europee. Quelli basati sui titoli nobiliari furono utilizza-ti in Francia fi no alla Rivoluzione del 1789 e poi aboliutilizza-ti, nel resto d’Europa invece rimasero in uso.

Da qui derivano tra l’altro tutta una serie di particolarità. Vi farò un esempio. In un suo articolo molto interessante, il linguista un-gherese Ferenc Papp (che insegna a Dresda e a Budapest) affronta la questione della traduzione nel cinema. E afferma a ragione che tradurre la lingua parlata è semplice, non comporta grandi diffi col-tà, mentre per una resa adeguata delle forme consuetudinarie (per esempio quelle con cui gli individui si rivolgono l’un l’altro) sono necessarie conoscenze specifi che. Papp riporta il caso della proie-zione a Dresda del fi lm sovietico tratto da Anna Karenina, che fu preceduta da una serie di conferenze aperte al pubblico. Il romanzo di Tolstoj rientrava nei programmi scolastici, per cui gli spettatori avrebbero dovuto essere preparati. A un certo punto il marito di Anna Aleksej Karenin arriva e chiede al portiere dov’è sua moglie, che nel frattempo è già diventata l’amante di Vronskij. Il portiere risponde “è impegnata con Sergej Alekseevic”, riferendosi al fi glio di

Anna, il piccolo Serëža. Ilarità in sala, perché il pubblico non è tenu-to a ricordarsi (e infatti non si ricorda) come si chiama Vronskij, o il marito di Anna, oppure suo fi glio, tanto più che in Ungheria i nomi di battesimo svolgono una funzione alquanto diversa, non per niente seguono il cognome, non lo precedono. Lo spettatore che conosce gli appellativi russi e sa che la combinazione nome-patronimico in-dica la forma di cortesia, ipotizza che a un bambino non ci si possa rivolgere così. E pertanto si immagina una scena di adulterio: Anna si sollazza con Vronskij e intanto arriva suo marito. Il pubblico intra-vede un doppio senso nella scena in questione solo perché l’appel-lativo riferito al fi glio di Anna non è stato reso in maniera adeguata. Ma, in realtà, quel che più conta viene dopo. Ferenc Papp, che dal canto suo è un brillante linguista e in generale un individuo interes-sante, abituato a pensare in una prospettiva semiotica e fi ne cono-scitore delle usanze e della cultura di vari popoli, propone una sua traduzione: “Anna è impegnata con sua Signoria, il giovane signore.” In Ungheria quest’appellativo probabilmente sarebbe considerato normale, perché sua Signoria (un epiteto che in Russia è riservato ai principi) a un orecchio ungherese (così come per esempio anche a uno georgiano) suona come una forma di cortesia e non è affatto in-dispensabile essere un principe per esser chiamato così, basta essere nobile. In Russia invece ci si atteneva ai titoli con grande scrupolo-sità, e non bisogna dimenticare che Karenin non era nobile. Anna sì, da bambina era una principessina (suo fratello Stiva Oblonskij è principe) e anche gli Šcerbackij, la famiglia di Kitty, appartiene tutta all’alta nobiltà moscovita. Karenin invece è un funzionario di Pietroburgo di basse origini che si è fatto strada da solo. Il suo pro-totipo è quello di Pobedonoscev. Di per sé Karenin è un borghese e infatti la sua fi gura non è affatto quella di un aristocratico. La sua schiena lunga-lunga, i suoi baffoni sono tutte caratteristiche “demo-cratiche” (per così dire), straordinariamente importanti per Tolstoj. E chiamare suo fi glio “sua Signoria” in russo sarebbe impensabile.

Come vedete, ci troviamo al centro di un universo molto interes-sante, dove perfi no il semplice utilizzo del pronome è signifi cativo. Perché è evidente che nelle varie lingue e in società diverse “voi” e “tu” vogliono dire cose differenti. Quando Vronskij e Anna sono

già innamorati, ma non ancora vicini fi sicamente, il loro amore che sta maturando non ha ancora trovato un’espressione defi nitiva nelle parole, tant’è vero che non riescono o quasi a parlare in russo, per-ché il “voi” russo è troppo distante, troppo freddo, mentre il “tu” è troppo pericoloso, troppo vicino. E così parlano in francese, lingua in cui il vous, neutrale, non indica lontananza (tant’è vero che anche nella preghiera ci si può rivolgere a Dio con il voi) e non è neppure freddo, mentre il tu all’epoca di Tolstoj era già un pronome fi n trop-po intimo. Adesso, tra l’altro, non è più così.

Ho già menzionato il fatto che, con la Rivoluzione francese furo-no aboliti i titoli furo-nobiliari e in effetti, nella vita quotidiana di allo-ra, i cambiamenti intervenuti nell’utilizzo dei pronomi rifl ettevano un’idea nuova di società. L’ideale cui ispirarsi divenne l’antica Roma. Ciascun repubblicano avrebbe voluto essere un antico romano. I re-pubblicani francesi cambiarono nome, trasformandosi in Gracchi, Catoni e Bruti e passando al “tu”, perché in latino, all’epoca dell’an-tica Roma, era questa l’unica forma per rivolgersi agli altri. Eccovi un aneddoto. Quando uno dei membri dell’Assemblea nazionale si rivolse a Mirabeau dandogli del tu, Marat protestò, fornendo una argomentazione molto interessante: Mirabeau non era affatto un re-pubblicano, o un antico romano, faceva solo fi nta. In realtà, era un marchese che amava la bella vita, non era un cittadino così esempla-re da meritarsi il tu, bisognava dargli del voi.

Prima della Rivoluzione in Francia si era venuta a creare una cul-tura di cortesia squisita. E la persona più cortese di tutte era consi-derata il re. Luigi XIV non avrebbe mai conversato con una signora senza togliersi il cappello, fosse pure una sguattera o una mungitrice. La gentilezza del re era l’apice della sua grandezza. Ma la raffi nata cortesia dell’aristocrazia francese – che non escludeva affatto la bar-barie dei costumi, al contrario, spesso le due cose andavano di pari passo – fu rigettata a favore della sincerità. Non a caso, ancor prima della Rivoluzione, Rousseau aveva scritto che la gentilezza serve a mentir meglio e che la schiettezza non richiede forme ricercate.

Di conseguenza, all’inizio del XIX secolo esistevano vari modi alternativi per rivolgersi gli uni agli altri. E non solo in Francia. Abbiamo letto tutti Il minorenne di Fonvizin e ricordiamo

perfetta-mente che Starodum a un certo punto dice che sotto Pietro nessuno dava agli altri del voi, perché nessuno pensava di poter contare per più persone; allora la gente non era egoista e tutti si rivolgevano agli altri con il tu. Quest’ideale di semplicità e di brusca schiettez-za coesisteva per così dire in parallelo con quello di una cortesia ricercata. Al contempo, le forme uffi ciali previste dalla Tavola dei ranghi parevano non bastare mai. Permettetemi di leggervi un bre-ve brano, assai curioso, tratto dalle memorie del lessicologo Maka-rov, che rievoca la sua infanzia, risalente all’inizio del XIX secolo. Viveva in una piccola cittadina, Soligalic. In quella località – scrive Makarov – il possidente nobile più ricco era chiamato “imperatore di Soligalic” e riceveva i suoi ospiti secondo un rituale strettamen-te codifi cato. Leggo strettamen-testualmenstrettamen-te: “Costui si rivolgeva agli altri in tre modi diversi. Ai nobili che possedevano non meno di duecento anime, tendeva la mano, pronunciando con voce soavissima: ‘Come state, rispettabilissimo Martem’jan Prokof’evic?’ Ai nobili che pos-sedevano tra le ottanta e le duecento anime faceva solo un lieve inchino e diceva con voce soave, ma non soavissima: ‘State bene, mio rispettabilissimo Ivan Ivanovic?’”

Prestate attenzione a un particolare, la differenza sembra insi-gnifi cante, eppure c’è. Ai nobili più ricchi che considera pari a sé, l’“imperatore di Soligalic” dice “rispettabilissimo”, a quelli che re-puta inferiori, invece, “mio rispettabilissimo”. Noi ormai non no-tiamo più la differenza, ma vi assicuro che era molto importante. E così chi salutava con voce “soavissima” era “rispettabilissimo”, chi con voce soltanto “soave”, “mio rispettabilissimo”.

Con tutti gli altri, che avevano meno di ottant’anime, si limitava a dire in tono amabile e con un cenno del capo: “Salve, mio gentilis-simo...”, tra l’altro omettendo nome e patronimico. “Gentilissimo” senza il nome e il patronimico suonava pressoché offensivo. Così ci si rivolgeva ai servi: “Senti un po’, gentilissimo...”.

“Ma, in tutti e tre i casi, un tenero sorriso gli restava stampato in volto.”5 Anche questo è signifi cativo. Vi ricordate, nella Dama di

pic-5 N. Makarov, Moi semidesjatiletnie vospominanija [Le mie memorie di settant’anni di vita], Sankt-Peterburg, 1881, parte prima, pp. 23-24.

che Cekalinskij presiede una società di ricchi giocatori. Cekalinskij

è una fi gura un po’ equivoca, un aristocratico, ma al contempo an-che un baro. A casa sua ci si gioca tutto, si perdono somme enormi, eppure Cekalinskij (e Puškin non manca di sottolinearlo) sorride invariabilmente, perché è così che gli hanno insegnato. E anche questo è un tratto importante.

Si può convenire con Rousseau che in tutto ciò v’era molta ipo-crisia. Ma nel contempo queste forme facilitavano la comunicazione tra le persone. Gli individui appartenenti a classi diverse sapevano come rivolgersi l’un l’altro ed erano consapevoli delle sfumature più sottili. E saper cogliere le sfumature è fondamentale per compren-dere bene l’interlocutore. Perché alle volte capitava che persone provenienti da ambienti sociali diversi si incrociassero senza essere al corrente di tali convenzioni, e allora non riconoscevano l’offesa dal complimento, e alcuni di loro, particolarmente permalosi, se la prendevano a sproposito, mentre altri non se l’avevano a male neppure se li trattavano con aperto disprezzo. La padronanza delle forme prestabilite per rivolgersi agli altri è come una specie di lubri-fi cante che mantiene oliato il meccanismo e agevola notevolmente i rapporti tra le persone.

Abbiamo già ricordato la Rivoluzione francese e gli antichi roma-ni. È interessante vedere come le norme prefi ssate che regolano la comunicazione si orientino sempre su un determinato esempio sto-rico. Così, per esempio, quando in Italia nel Rinascimento si venne a creare un nuovo ambiente culturale e gli intellettuali iniziarono a pretendere forme nuove per comunicare, furono evocate le ombre dei fi losofi antichi. Scaturì quell’ideale che vediamo rappresentato nel celebre affresco di Raffaello La scuola di Atene, ovvero l’ideale di un dialogo tra fi losofi , tra saggi. Nel rivolgere la parola a voce o per lettera si trasse ispirazione da Cicerone oppure dai fi losofi romani, da Seneca. Esattamente come gli uomini della Rivoluzione francese si immagineranno antichi romani, quelli del Rinascimento si caleranno nei panni dei fi losofi greci.

Tra l’altro, i rituali comunicativi della Rivoluzione francese in-fl uenzeranno notevolmente i comportamenti negli anni successivi

Nel documento Studi Bompiani (pagine 135-200)

Documenti correlati