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Rappresentante militare dell’Italia presso i Comitati militari della NATO e dell’UE, Bruxelles

Affronterò il tema dei Collateral Damages portando esperienze operative. All’inizio della preparazione di queste brevi note ho pensato di vedere in Internet quale fosse la percezione di questo concetto. Escludendo tutte le definizioni a contenuto osceno o di scarso valore intellettuale, devo dire di avere trovato spiegazioni piuttosto singolari quali:

- linguaggio militare per definire il massacro di civili effettuato attraverso l’impiego di armi che si sa essere imprecise;

- tu sei un collateral damage se sei coinvolto in una rissa fra due persone con cui non hai niente a che fare;

- esplosione inutile che causa la perdita di donne, bambini o edifici; - si ha quando un cecchino spara ad una persona senza sapere che ve

ne è un’altra dietro. Un solo proiettile per due uccisioni.

Credo sia quindi necessario avere una definizione meno artistica di questo concetto. Secondo la terminologia in uso presso le Forze Armate U.S., il termine si riferisce a “danni non intenzionali od accidentali provocati a personale non combattente o materiali di loro proprietà”.

Nella storia è sempre stato abbastanza difficile avere comportamenti che preservassero il personale dalle operazioni di combattimento. Basti pensare al fatto che sino a pochi secoli fa il sostentamento di un esercito, in assenza di strutture logistiche, si basava sul saccheggio dei territori attraversati. Le cronache sono poi piene dei racconti di città espugnate, seguite dall’eccidio di tutti i residenti e non fa eccezione l’occupazione di Gerusalemme da parte dei Crociati nel 1099. Anche in tempi recenti durante le due guerre mondiali l’argomento è stato oggetto di dibattito. Se, infatti, nel corso della prima guerra mondiale i danni alla popolazione civile sono stati limitati, nel corso della seconda i morti civili si sono contati a milioni ed in alcuni stati il loro numero ha largamente superato quello delle vittime in uniforme. Nel 1920 il Generale italiano Douhet scrisse un libro profetico Il dominio

dell’aria in cui tra le altre cose immaginava che in un futuro conflitto le

popolazioni civili potessero essere oggetto di attacchi dall’aria. Venne considerato quasi un terrorista e venne anche rinchiuso per alcuni mesi in fortezza. In realtà la sua visione si dimostrò anche troppo realistica alcuni anni dopo. Ma vi è un secondo fenomeno che ha caratterizzato in maniera significativa la seconda guerra mondiale e cioè la guerra partigiana.

Questa forma di lotta non è così recente, infatti il termine guerriglia fu coniato dagli spagnoli durante le guerre napoleoniche; però solo nel corso

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del secondo conflitto mondiale ha avuto una estensione su così larga scala, tanto da divenire un elemento importante nella strategia bellica dei due contendenti. Ancor di più nei conflitti successivi, sia in Asia che in Africa, la guerra di guerriglia è divenuta una forma di lotta largamente in uso e spesso ha portato alla sconfitta di eserciti regolari. Ovviamente la guerriglia porta a sfumare i contorni del mondo civile e militare rendendo sempre più difficile una loro differenziazione. Il guerrigliero vive all’interno della società da cui si distacca solo per le azioni armate. Ciò rende molto difficile, prima che il suo contrasto, la sua identificazione e la chiarificazione della sua rete di sostegno con tutti i dubbi di conseguenza. Ad esempio chi rifornisce di cibo un guerrigliero è da considerare combattente o no? Ciò ha portato alla formulazione nel primo Protocollo aggiuntivo del 1977 alla Convenzione di Ginevra del 1949, con varie chiarificazioni su chi potesse essere considerato legittimo combattente. I conflitti recenti hanno ulteriormente complicato la situazione portando a quelli che vengono chiamati hybrid o asymmetrical conflict. Parliamo di quei conflitti in cui l’avversario non fa riferimento ad una entità politica o statale ma ad un movimento religioso o ad una organizzazione sociale che non solo è difficilmente identificabile, ma che altrettanto difficilmente può essere chiamata a rispondere degli atti compiuti.

Quanto detto sinora può solo servire a definire il quadro in cui ci muoviamo, ma è il caso di stabilire anche quali comportamenti responsabili siano da adottare in questo quadro. La presenza sempre più determinante dei cosiddetti conflitti asimmetrici, oltre ad esaltare le caratteristiche della guerriglia (difficile identificazione dell’avversario, situazioni che si materializzano all’improvviso, indeterminatezza delle aree di operazione) portano anche altre conseguenze. La prima è l’estrema dilatazione delle aree di operazione e la rarefazione delle unità sul terreno. Per fare un esempio, io ho partecipato alla missione NATO in Kossovo KFOR nel 2000, dove le forze di peace-keeping superavano le 50.000 unità. Nel 2004 ho comandato la missione Antica Babilonia in Iraq, ove per il controllo della Provincia di DI-QUAR, che per estensione e popolazione è uguale al Kossovo, con città come Nassirya che ha mezzo milione di abitanti, ho potuto contare su di una task force di 3500 uomini e donne. Ciò comporta che le comunicazioni diventano difficili e la struttura di comando diviene problematica. Il controllo minuto delle attività diventa impossibile e pertanto il livello di responsabilità nel dirigere le operazioni viene spinto verso il basso. In questo tipo di situazioni è molto frequente che un caporale od un capo team si trovi a prendere decisioni, senza la possibilità di una verifica dall’alto e queste decisioni vengono ad avere una importanza enorme. Ciò che è importante non è quindi dare ordini minuziosi che rischiano di essere inapplicabili nello scontro con la realtà, ma dare direttive generali concrete e chiare su gli obiettivi da raggiungere;

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nell’ambito di queste direttive i comandanti subordinati cercheranno la loro strada per ottenere l’effetto desiderato, basandosi sulla situazione reale ed assumendosi anche la responsabilità di quanto deciso.

Veniamo quindi all’elemento fondamentale di tutto questo ragionamento e cioè il fattore umano, perché dopo tutte le varie disquisizioni che possiamo fare, chi decide se deve sparare o no è un uomo con un’arma in mano. Sia che facciamo disquisizioni giuridiche, sia che tracciamo frecce sulle mappe per visualizzare manovre incredibili, dietro vi è sempre un soldato. Un soldato che non può vedere le nostre mappe e le frecce colorate, che non può partecipare ai dibattiti, ma che probabilmente si trova in una postazione infreddolito, con i piedi bagnati, affamato. Lui che è probabilmente oppresso da tutti questi problemi, alla fine dovrà decidere in pochi istanti se impiegare l’arma contro una ragazza che gli sorride ma che ha una cesta sospetta, contro un ospedale da cui arrivano raffiche di mitragliatrice, contro un’auto che procede a zig zag verso il posto di blocco, ma che potrebbe avere solo un autista ubriaco. Tra questi esempi ve ne è uno che mi è particolarmente vicino, in quanto a Nassirya ci spararono per giorni dall’ospedale. E i nostri soldati? In quel caso non hanno mai risposto al fuoco. Perché nella maggior parte dei casi il personale, se è ben addestrato, se ha fiducia nei superiori e conosce bene le direttive generali, è anche in grado di discernere le situazioni, senza alcuna conoscenza di norme giuridiche, ma con una grande dose di buon senso. Ciò non toglie, però, che qualsiasi ragionamento che noi facciamo non possa prescindere dal fatto che la sua applicazione sia devoluta ad un soldato, il quale mentre riceve proiettili ha in mente solamente il fatto che vorrebbe continuare a vivere! Cosa si può fare per questo? Fare in modo che quel soldato, che comunque ha una mente pensante, anche se tale facoltà è spesso sottoposta a stress in situazione di combattimento, riceva pochi ordini chiari e sicuramente applicabili. Ricordo che in alcune missioni gli ordini per l’impiego delle armi recitavano che «l’uso dell’armamento è consentito al solo fine di tutelare l’incolumità personale e solo dopo la chiara manifestazione di una volontà ostile». In questi conflitti di rado qualcuno manifesta la propria volontà. Quindi la possibilità di colpire involontariamente civili inermi esiste, ma può essere mitigata dall’addestramento, dall’organizzazione e dalla capacità di discernimento del personale. Questi elementi sono tutti collegati fra loro.

Resta però aperto un altro problema e cioè: fino a che punto posso pianificare operazioni che comportino un danno a civili? Ritengo che sia molto difficile dare una risposta razionale a questo quesito e penso che la risposta risieda essenzialmente sul piano etico e morale e cioè fino a che punto ritengo di poter rinunciare alla mia umanità per conseguire un fine.

Nell’esperienza storica le grandi distruzioni non hanno mai portato a grandi vantaggi tattici. Ricordo che la distruzione dell’Abbazia di

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Montecassino da parte dei bombardieri alleati la trasformò in un imprendibile centro di resistenza presidiato dai paracadutisti tedeschi. Ciò premesso, le valutazioni sul “redditizio” o meno sul “vantaggioso” o meno risalgono tutte a quel complesso di scelte che fanno parte delle funzioni di un Comandante e sino ad ora, per quanti manuali siano stati scritti, non credo ve ne sia uno atto a salvaguardare un comandante dal complesso delle sue scelte e responsabilità. Per offrirvi un fatto concreto: il giorno della prima battaglia dei ponti a Nassirja, sulla sponda nord del terzo ponte ci siamo trovati insorti che spingevano davanti a sé donne e bambini come scudi umani. Abbiamo quindi deciso di non procedere alla conquista della spalla nord, che al momento non aveva un valore così rilevante. Giusto, sbagliato? Ogni Comandante è solo nelle valutazioni di cui risponde. Credo sia impossibile codificare un comportamento per ogni situazione. Come ho detto le valutazioni non sono solo militari, ma soprattutto di natura etica e morale.

A conclusione di queste brevi note vorrei fare un cenno alla percezione che si ha dei collateral damages e cioè alla funzione dei Media. Come si può vedere, già Eschilo, cinque secoli prima di Cristo, aveva intuito come sia difficile stabilire quale sia la verità in guerra e lui oltre ad essere un grande drammaturgo aveva partecipato alle guerre contro i Persiani. In effetti le “stragi di civili” o i “danni immotivati” sono spesso percepiti con modalità legate al modo ed al tempismo con cui una notizia viene diffusa. Nella mia esperienza in Iraq ho constatato come noi non fossimo adeguati in questo, in quanto avevamo sottostimato la capacità avversaria di gestire le informazioni. Ad ogni scontro, infatti, vi era una troupe degli insorti che filmava alcune scene e dopo poco tempo metteva queste immagini su Internet con i loro commenti sulla vicenda, ovviamente senza contraddittorio o valutazioni sgradite.

Poiché non tutti gli organi di informazione hanno la possibilità di avere reporter sul luogo degli scontri, una notizia riportata su Internet diviene subito fonte di informazione e nessun organo informativo vuole essere secondo nel diffondere una notizia. Noi non avevamo valutato correttamente questa possibilità e ci siamo sempre trovati ad inseguire il flusso informativo. Avevamo dalla nostra parte il fatto che diversi rappresentanti dei “media” nazionali erano presso di noi e, quindi, anche se in ritardo potevamo dare la nostra versione dei fatti. Anche questo però non era sufficiente, in quanto rimestare una notizia già vecchia non crea la stessa impressione che comunicare un fatto nuovo. Durante gli scontri siamo ad esempio stati accusati di avere sparato alcune granate di mortaio sul mercato di Nassirja provocando molti feriti. Ho quindi solo potuto dimostrare che non avevo mai schierato i miei mortai e le distanze erano comunque tali da non consentirmi di raggiungere il mercato. I feriti andavano quindi imputati ai nostri avversari – forse per una esplosione

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accidentale. La spiegazione però, per quanto inconfutabile, non creò lo stesso effetto dell’annuncio iniziale dei ferimenti al mercato. Nel giudicare i danni collaterali penso sia quindi essenziale non essere presi dall’emotività degli annunci iniziali e basarsi su dati certi che vengano, se possibile, da un’indagine indipendente. Quando si hanno scontri con forze non regolari, che non portano uniformi o insegne e sono quindi difficili da identificare, i caduti tendono ad essere sempre passanti casuali o vittime innocenti e le abitazioni utilizzate come centri di fuoco sono, purtroppo, case civili senza valore bellico.

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The use of explosive weapons

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