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Realtà e irriduzione

Parte I: Per una semiotica del vago

2. Come pensare continuità e vaghezza

2.2 Realtà e irriduzione

Non deve essere stata una ragione da poco, anzi non può essere stata nep- pure una ragione, quella per cui certe razze umane hanno adorato la quer- cia, ma semplicemente il fatto che quelle razze e la quercia erano unite in una comunità di vita, e perciò si trovavano vicine non per scelta, ma per essere cresciute insieme, come il cane e la pulce. (Wittgenstein, 1967; tr. it., p. 35)

Et si nous supposions que les choses laissées à elles-mêmes ne manquent de rien ? Cet arbre, par exemple, nommé par d’autres Wellingtonnia ? Mais il étend aussi loin que lui-même sa force et ses évaluations. Il rem- plit son monde de ses dieux d’écorce et de ses démons de sève. S’il man- que de quelque chose, il y a peu de chances que ce soit de vous. […] Nie- rez-tous qu’il soit une force ? Non, car vous êtes mêlés aux arbres aussi 1oin que vous remontiez dans votre passé ou que vous étendiez vos re- gards. Vous vous êtes alliés à eux de mille et une façons au point que vous ne pourriez plus démêler vos corps, vos maisons, vos souvenirs, vos outils et vos mythes, de leurs noeuds, de leurs écorces et de leurs cernes. Vous hésitez parce que je fais parler cet arbre dressé. Mais votre langue est dé- jà toute feuillue et vous allez de la tombe à l’Opéra, au milieu des arbres et sur les planches. Si vous ne vouliez pas compter avec lui, il ne fallait pas vous attacher à lui depuis que vous êtes petits. Vous prétendez définir vous-même cette alliance ? Mais cette illusion est commune à tous les dominateurs, à tous les colonisateurs et aux idéalistes de tous poils et feuillages. (Latour, 1984 ; p. 247-248)

Cosa significa farsi carico di un’irriducibilità del reale alle determinazioni “attuali” degli esistenti? Se gli esistenti partecipano di un regime di continuità, il quale a sua volta è irriducibile nei termini delle loro determinazioni, è possibile descrivere qualcosa in quanto

altro da sé, cioè da uno “stesso” che ritorna, che si ripresenta spesso tramite il linguaggio e

la percezione? Si può rispondere forse positivamente se si parte dagli abiti, dalle determi- nazioni correnti e acquisite, per provare a negarle e vedere ciò che “rimane fuori”. Si può rispondere di no, se quello che rimane escluso viene poi univocamente determinato e dun- que così annesso alla specificazione della ‘cosa’.

Esistono infinite determinazioni non realizzate: esse fanno parte per l’appunto della continuità dell’interpretazione, di una sorta di “spessore” dell’alterità degli esistenti da sé

stessi, in quanto individui non completamente determinati, rispetto a come in un momento

dato vengono definiti. Inoltre il linguaggio può denominare, circoscrivere, determinare, ma può anche essere un indicatore che funziona come un “c’è dell’altro”, in modo da ribadire che le cose, gli individui, gli esistenti appunto continuano su un piano generale e plurale. Si tratterebbe allora di riuscire prima a ‘sentire’ e poi a restituire linguisticamente lo “spes- sore” della ‘cosa’, in modo da mostrare che ogni cosa non finisce lì… Cosa può farci am- mettere e dove può condurci questo tipo di punto di partenza, connesso con la teoria della continuità esaminata in § 1.2 e 1.3?

Una riflessione molto vicina a questi temi sembra essere stata presa in carico siste- maticamente da Latour nel suo saggio Irréductions (1984), fondativo di una “teoria della rete”, di cui si proponeva di gettare le basi filosofiche ed epistemologiche. In questa specie di “manifesto” Latour intendeva combattere decisamente qualunque tipo di riduzionismo che si incontra di frequente, quando si affronta lo studio dei rapporti tra scienza, società e tecnologia.

Un commento dettagliato di questo saggio densissimo, scritto programmaticamente tramite una serie di asserzioni numerate e relativi scolii, dei quali si studiano mutui rimandi e implicazioni, esula dallo spazio e dalla finalità che mi voglio concedere in questa occa- sione. Tuttavia vorrei limitarmi a riprendere alcuni di questi “assiomi” e mostrare l’estrema assonanza con la cornice che stiamo delineando. Leggiamo innanzitutto che (Latour, 1984; p. 177, tr. it, p. 203):

1.1.1 Aucune chose n’est par elle-même, réductible ou irréductible à aucune autre.

Scolie : J’appelle cette phrase « principe d’irréductibilité » mais c’est un prince qui ne gou- verne pas, sans quoi il se contredirait. […]

1.1.3. C’est parce qu’une chose n’est pas, par elle-même, réductible ou irréductible à aucune autre, qu’il n’y a que des épreuves (de forces). En effet, ce qui n’est jamais ni réductible, ni irréductible, il faut bien l’épreuver, le rapporter, le mesurer constamment. […]

1.1.5. Est réel ce qui résiste dans l’épreuve. […]

1.1.5.1. Le réel n’est pas une chose parmi d’autres mais des gradients de résistance. […]

1.1.6. Toute forme est l’état d’une épreuve de forces que celles-ci déforment, transforment, informent ou performent. Stable, la forme n’apparaît plus comme un épreuve. (ivi, p. 178; tr. it. p. 204)

1.1.7. Qu’est-ce qu’une force ? Qui est-elle ? Que peut-elle ? […] Scolie : au lieu de force, nous

pouvons parler d’entéléchies ou, plus simplement, d’actants49.

1.1.9. Un actant ne gagne de la force qu’en s’associant à d’autres. Il parle donc en leur nom. […] (ib.; tr. it., p. 205)

L’atteggiamento antiessenzialista di Latour lo porta dunque a definire un principio fondamentale d’irriducibilità per cui nessuna cosa, di per sé, è riducibile o irriducibile ad alcun’altra (ivi, tr. it., p. 203). Irriducibile o riducibile sono allora aggettivi che designano stati più o meno finali (o stabili) di processi, sulla base dei quali le ‘cose’ vengono raffron- tate continuamente, secondo prove, misure e rapporti (ib., 1.1.3.). Questi processi allora indicano un “lavoro” da fare di volta in volta, il quale sconfessa la possibilità per le ‘cose’ di avere già in sé la proprietà di essere messe in relazione e ridotte a qualcosa d’altro, op- pure no. Questo significa per come lo abbiamo visto noi, che quando si prendano in consi- derazione degli esistenti, con la loro partecipazione al continuum, o la loro identità indefi-

nitamente multipla (§ 2.1), niente può essere definito, per il fatto stesso che esista, negli

esatti termini di qualcos’altro in una determinazione completa e finita. Solamente a patto di un lavoro sociale, cioè di prove, possono essere fissati dei criteri di identificazione, ricono- scimento, misura e rapporto, come avevamo già avuto modo di notare in § 1.3, a proposito del criterio pragmatico che stabilisce parametri d’identità individuale. Il fatto che 1.1.1, in quanto principio d’irriducibilità applicato (come un “principe” a cui venga chiesto di “go- vernare”; cfr. ib.) possa produrre contraddizioni, rafforza ancora di più il fatto che qui è in

49 Il traduttore italiano lascia cautamente «actants». Noi possiamo sostituirlo tranquillamente con il termine

italiano che conosciamo bene, dato che l’uso della terminologia semiotica è stato direttamente accreditato da Latour in diverse occasioni.

gioco una logica altra, rispetto a quella di esistenti “attuali”, completamente determinati (vedi § 1.2, tab. 1).

Come sappiamo questa è la logica della realtà secondo Peirce: il rimando è confer- mato dalle affermazioni successive di Latour. Infatti, le qualificazioni del reale come “ciò che resiste nella prova” (ib., 1.1.5.), che non è una cosa, ma si dà solo tramite “gradienti di resistenza” (ivi, tr. it., p. 204, 1.1.5.1.), ben si sposa a ciò che abbiamo provato a riprendere sopra, nei termini di una nozione del continuum definita dalla teoria delle catastrofi (§ 1.2). Tanto più che l’idea di forme come risultato di prove di forze (ib., 1.1.6.) che si stabi- lizzano e arrivano a definire degli “stati” o delle ‘cose’, oppure di attante come entelechia (ib., 1.1.7.), ben si prestano a un’intepretazione morfogenetica50 che è strettamente impa- rentata con la semiotica.

Grazie alla riflessione di Petitot (2004), sappiamo infatti che esiste una “genealogia morfologica” dello strutturalismo, che ne definisce un “altro itinerario” (ivi, pp. 69-70), rispetto al percorso formalista e logicista, di tipo “discretizzante”51. Questo tipo di percorso

consente di aggirare un certo tipo di idealismo “degli approcci formalisti al senso”, che ha portato storicamente lo strutturalismo, tra l’altro, a una visione dualista tra materia e forma e a una concezione del senso totalmente “disincarnata” (ivi, pp. 134-135; tr. mia). Dall’altra parte invece un pensiero morfologico (ivi, p. 115), per come si è sviluppato da Leibniz e Kant, attraverso Goethe, fino ad arrivare a D’Arcy Thompson, che Petitot dimo- stra essere fonte ispiratrice di Lèvi-Strauss (ivi, p. 69), è capace di legare a sé, sia il pensie- ro di Peirce (vedi Fabbrichesi Leo, 2005), sia di portare a riflettere su un’altra nozione di

struttura, alla quale gli studi dello stesso Petitot e di Thom si sono dedicati.

Da questo punto di vista Petitot nota come (ivi, p. 123):

dans sa tentative de comprendre l’énigme de la diversification e de la complexification croissante des êtres organisés, Peirce a réactivé à sa façon la problématique aristotélicienne des éntelechies organisa-

50 Si veda ad esempio Thom, 2006; tr. it., p. 33: “affinché un essere, un oggetto — qualunque sia la sua na-

tura — possa accedere all’esistenza, essere riconosciuto esistente […] occorre che sia dotato di un minimo di stabilità su scala umana. […] Osserviamo allora che ogni essere può venire considerato come una certa for- ma, un accidente locale su uno spazio substrato E […]. La stabilità di ogni essere è quindi, in quest’ottica, la stabilità di una forma spaziale, di cui si cercherà un’interpretazione dinamica”. Leggiamo più avanti nel sag- gio che stiamo commentando (Latour, 1984; tr. it., p. 205): “Grazie al gioco degli attanti, certe cose ritornano ma non sono più le stesse. Si delinea una forma, come una piega”. L’idea di piega, già commentata in § 1.2, è fondamentale nella teoria delle catastrofi, così come nella teoria del continuum, che accomuna Leibniz e Peirce (vedi Fabbrichesi Leo, 2005).

51 D’altra parte un’eco di questo fatto può essere trovato proprio in Semantica strutturale di Greimas (1966),

laddove nel descrivere un certo carattere dei modelli attanziali definito come “energetismo” (énergétisme), egli osserva come: “l’attante non è solo la denominazione di un contenuto assiologico, ma anche una base classematica che l’istituisce come possibilità di processo. Dal suo statuto modale gli deriva il carattere di forza di inerzia, che lo contrappone alla funzione definita come un dinamismo descritto” (ivi; tr. it., p. 253).

trices. Il a réinterprété les éntelechies et leur finalité interne comme des signes naturels auto-

interprétants.

Ora, non si sta sostendendo l’ascrizione a Latour di un pensiero morfologico partico- larmente sviluppato. Tuttavia è a mio avviso molto significativo il fatto che, allorché si po- ne come obiettivo quello di una fondazione filosofica della sociologia che eviti essenziali- smo e riduzionismo, egli ricorra doppiamente alla semiotica. Infatti, il suo riferimento e- splicito alla questione delle entelechie/attanti, a una loro visione dinamica in termini di for- ze e al fatto della loro mediazione reciproca di tipo interpretativo (come vedremo tra poco), se non altro lega Latour a doppio filo a questa disciplina, sia dal coté post-strutturalista e generativo (il cui rimando è gia noto e da lui stesso accreditato), ribadito qui secondo una particolare angolatura, sia nuovamente secondo la prospettiva della teoria di Peirce.

Si badi bene che il ricorso agli attanti permette inoltre a Latour di evitare una ridu- zione di partenza delle forze in termini di “soggetto, testo, oggetto, energia o cosa”, in un modo che troverà un investimento metodologico preciso (si veda § 4.1 e 9.2). Manca qui invece l’idea peirceana e pragmatista del reale come tendenza futura, parimenti compreso nell’idea di abito che abbiamo proposto in § 1.2: per notare questo tipo di assonanza ab- biamo bisogno di presentare una seconda serie di assiomi, in cui si vede finalmente dispie- gata tutta la portata “interpretativa” della proposta di Latour (ivi, pp. 180-191; tr. it., pp. 206-214).

1.1.14. Rien n’est jamais de soi ordonné ou désordonné, unique ou multiple, homogène ou hétérogène, fluide ou inerte, humain ou inhumain, utile ou inutile… Jamais de soi mais toujours d’autres52. […]

(ivi, p. 180; tr. it., p. 206)

1.2.1. Aucune chose n’est pas par elle-même égale ou différente d’aucune autre chose. Autrement dit, il n’y a pas d’équivalences, il n’y a que des traductions. […] S’il y a des identités, c’est qu’on les a construites à grand frais. S’il y a des équivalences, c’est qu’elles sont fabriqués de bric et de broc […].

Scolie : j’appelle ce principe, « principe de relativité ». D’un actant à l’autre, on ne peut faire mieux que de traduire l’un dans l’autre […]. (ivi, p. 188; tr. it., pp. 207-208)

1.2.7.2. Le principe de réalité, c’est les autres.

Scolie : nul ne peut différencier l’interprétation du réel de ce réel lui-même, puisque « le » réel sont ces différences ou ces gradients de résistance. […] (ivi, pp. 185-186; tr. it., p. 213)

52 Quest’ultima frase è tradotta brillantemente in italiano con: “mai di per sé ma sempre in relazione ad altri”

(ivi, tr. it., p. 206). Nel francese è interessante notare come venga mantenuta una certa sfumatura di genitivo, per cui le proprietà individuali di un esistente vengono collegate ad una attribuzione d’altri, in maniera molto simile a quanto proponevamo in § 1.3 (punto 2).

1.2.9. Est-ce une force dont on parle ? Est-ce une force qui parle ? Est-ce un acteur qu’un autre fait parler ? Est-ce une interprétation ou la chose même ? Est-ce un texte ou un monde ? Nous ne pou- vons le savoir puisque c’est là-dessus que nous nous battons et que chacun s’en fait tout un monde.

Scolie : […] Il est admis, depuis longtemps, que les rapports d’un texte à l’autre sont toujours d’interprétation. Pourquoi ne pas accepter qu’il en soit ainsi entre les dits textes et les dites choses et sourtout, entre les dites choses elles-mêmes ? (ivi, p. 186; tr. it., pp. 213-214)

1.2.12. Rien n’est de soi connaissable ou inconnaissable, dicible ou indicible, proche ou lointain. Tout est interprété. Quoi de plus simple ? Interprété d’une force à l’autre, et pour un temps plus ou moins long […]. (ivi, p. 187; tr. it., p. 214)

1.3.7. Puisque rien n’est de soi commensurable ou incommensurable […], l’action appartient à qui dé- finit les appareils de mesure permettant de fabriquer des équivalences et de faire en sorte qu’un actant soit le même qu’un autre.

Scolie : il n’y a pas des différences et des identités […], mais des actes des différenciation et d’identification. Le même et l’autre ne sont que les conséquences des épreuves de force […]. (ivi, p.

189; tr. it., p. 216)

1.4.2. Quand une force se gagne ainsi le concours d’autres entéléchies, tout en se gardant le privilège de définir cette association, elle(s) forme(nt) comme un réseau. (ivi, p. 191; tr. it., p. 219)

Allora capiamo innanzitutto che Latour sta sostenendo un principio relazionale, in cui si negano le qualificazioni delle cose per sé stesse, imponendo sempre un confronto, un rapporto con altre entità, in modo che una qualsiasi determinazione emerga sempre in mo- do relativo (1.1.14.). Di questa relatività egli ne fa addirittura un principio (1.2.1.), che lo porta a focalizzare una costruzione processuale dell’identità, equivalenza e diversità di una ‘cosa’. Di conseguenza iniziamo a comprendere un po’ meglio in che cosa consistono quel- le prove di forze di cui si parlava sopra (1.1.3.), con le quali le cose possono essere rappor- tate, ricondotte nei termini l’una dell’altra, oppure al contrario lasciate “irridotte”, come non completamente compatibili. Si tratta di traduzione (ivi, tr. it., p. 207, 1.2.1): è solo in base a questa operazione che due cose possono essere rapportate nella costruzione di equi- valenze e identità. Ne deriva che questa equivalenza, o identità, non sarà mai perfetta (ed è proprio questo che sostiene il principio d’irriducibilità), ma esisterà sempre uno scarto, un resto non completamente riducibile.

Ora, ciò è esattamente il risultato a cui Peirce era arrivato nella sua logica della rela- zione, rappresentato “iconicamente” con lo sviluppo della parte gamma dei grafi esisten- ziali. Un rapporto di determinazione reciproca tra due relativi è solo parzialmente determi-

nato, perché l’essenza di ogni relativo/segno è sempre quella del rinvio ad altro. Quindi una relazione in cui due “poli” vengono confrontati e messi in rapporto, non solo deve ammettere una mediazione dell’uno nei termini dell’altro (traduzione), ma inevitabilmente rimanderà ad un’ulteriore specificazione, in modo indefinito e illimitato (ci si ricordi in § 2.1 quello che succedeva alla linea d’identità/teridentità). Commenta infatti Fabbrichesi Leo (1992; p. 95):

[…] il rapporto duale tra I e J è stabilito come l, come una certa relazione che lo riconosce e lo deter- mina, tracciandone la mediazione e il luogo comune d’incontro.

Capiamo allora che ciò che Latour definisce come “traduzione”, non è altro che questo tipo di rapporto particolare di mediazione tra relativi, in cui un limite l stabilisce un luogo co- mune d’incontro e al tempo stesso di transizione tra le due posizioni poste in rapporto (vedi § 1.2).

Latour poi ribadisce questa visione processuale della realtà in cui l’identità delle cose è il prodotto di “atti di differenziazione e identificazione” (Latour, 1984; tr. it., p. 216, 1.3.7.). Ancora una volta per parlare di questo “approdo” finale, risultato di prove di forze, egli utilizza gli attanti, come posizioni relative che vengono messe in rapporto da questi processi di “misura”, di valutazione di equivalenza. Allora anche tra due attanti sarà un processo di mediazione, visto come “traduzione dell’uno nell’altro” (ivi, p. 208, 1.2.1.), che permetterà di definirne l’identità, mai in modo sostanziale, ma unicamente nei termini della relazione. Alla fine egli asserisce che un principio di realtà è proprio definito da que- sto confronto con l’alterità, espressa con il rimando, la relazione e la mediazione (“il prin- cipio di realtà sono gli altri”; ivi, p. 213, 1.2.7.2.). Ancora una volta troviamo una forte as- sonanza con Peirce, se pensiamo al fatto che nella sua teoria “ogni termine è reale solo nel- la connessione con altri” (Fabbrichesi Leo, 1992; p. 71).

Infine, Latour fornisce un’indicazione più generale di come intendere la messa in connessione tra entità dell’esperienza, considerate come forze o come attanti, attraverso prove: il riferimento diretto è all’interpretazione. Addirittura, sembra esserci una forte eco con i saggi anticartesiani di Peirce, quando afferma che “niente è di per sé conoscibile o inconoscibile, dicibile o indicibile” e “tutto è interpretato” (Latour, 1984; tr. it., p. 214, 1.2.12.). Non stupisce nemmeno che egli parli “provocatoriamente” di interpretazioni tra “cose”, o tra forze, oppure che affermi che non è possibile differenziare il reale stesso dall’interpretazione (ivi, p. 213, 1.2.7.2.), se pensiamo ancora alla teoria peirceana. In essa,

per prima cosa, secondo la dottrina sinechista, vi è una fondamentale (Fabbrichesi Leo, 1992; 128)

continuità tra eventi fisici e psichici, tra uomo e natura, tra enti tradizionalmente considerati di oppo- sto genere53. La ‘stoffa’ del mondo è la stessa, sia per quanto riguarda gli esseri viventi che quelli i-

norganici, per gli eventi mentali come per quelli naturali, dice Peirce. Continuità non significa infatti che relazione – relazione continua e indissolubile tra gli apparsi su questa terra, e tra la terra e i suoi abitanti.

Allora, bisogna pensare anche che per Peirce (Fabbrichesi Leo, 2005; p. 60):

l’unica legge che davvero vige nel campo dell’esistente è quella della continuità per cui appena dicia- mo materia, diciamo discorso sulla materia, e quando diciamo discorso, diciamo la materia sulla quale si discorre. Il sinechismo distrugge dunque due pilastri del pensiero metafisico: il sostanzialismo e il dualismo che ne consegue.

Intesa come forma di relazione, la continuità dunque non comporta mai “sub-stantia, ma sempre […] segno affidato al rinvio, proiettato oltre” (ivi, p. 45). Dunque non avremo mai propriamente “fatti, res, ma gradualità infinitesimali, passaggi al limite” (ivi, p. 59). Questo è proprio ciò da cui prende le mosse Latour, la negazione di sostanze in favore di prove di forze che si qualificano a vicenda tramite mediazioni reciproche, definendo gra- dienti di resistenza con cui il reale si identifica (Latour, 1984; pp. 185-186, 1.2.7.2.). Se questi sono però anche processi d’interpretazione “da una forza all’altra” (ivi, tr. it., p. 214, 1.2.12.) e se alla fine il reale non si differenzia dalla produzione di queste interpretazioni (1.2.7.2.), allora possiamo finalmente valutare se si debba anche ammettere nella teoria filosofica di Latour l’orizzonte del reale come tendenza futura, che sappiamo ben caratte- rizzare la semiosi e il continuum di Peirce.

Sappiamo infatti che la dottrina del pragmaticismo peirceano valorizza massimamen- te il “rinvio al futuro” (Fabbrichesi Leo, 2005; p. 46), che lega il significato di un concetto “all’intera serie possibile e condizionale delle risoluzioni ad agire che sono disposto a met- tere in opera per manifestare la mia comprensione di quel concetto” (ivi, p. 47). Allora non si sta parlando tanto di verifiche empiriche attuali, quanto piuttosto di “concepibili e condi- zionali possibilità legate all’impiego di un certo concetto” (ib.). Di conseguenza alla fine

53 Cfr. Latour, 1984, p. 218; tr. it., p. 249, 3.1.4: “les entéléchies ne peuvent être partagées en « animées » et

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