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V. Giudicare

1. Responsabilità

Notevole poteva essere la difficoltà per un militare nel dover giudicare altri militari quando lui stesso era stato educato all’obbedienza come principio assoluto. Gli ordini potevano essere discussi prima che diventassero tali, ma una volta promulgati ridiscuterli avrebbe per forza di cose portato a scontrarsi con la legittimazione che si dava all’autorità superiore che in quanto tale non poteva essere messa in discussione da un inferiore di grado.

Il procuratore militare generale Umberto Borsari aveva ben presente queste difficoltà quando il 19 maggio 1945 a guerra appena terminata scrisse all’allora Ministro della Guerra Alessandro Casati – che allora presiedeva anche la Commissione d’inchiesta per i criminali di guerra italiani – sulla questione dei criminali di guerra italiani richiesti dal Governo di Belgrado. Riguardo a eventuali ordini di morte nei confronti dei partigiani jugoslavi affermava:

«la responsabilità delle esecuzioni capitali sommarie non può ricadere che su coloro che hanno dato gli ordini di carattere generale e non su coloro che, quali militari e quindi legati da vincolo disciplinare indissolubile, tali ordini hanno eseguito»402.

Questa osservazione fatta dal responsabile della giustizia militare italiana poteva dare l’idea delle difficoltà a cui sarebbero andati incontro gli stessi magistrati militari italiani incaricati di perseguire i criminali di guerra tedeschi.

La soluzione proposta da Borsari fu caratterizzata da un forte pragmatismo:

«Criminali di guerra potrebbero così essere dichiarati un limitato numero di personalità del passato regime»403.

Una tale soluzione non era mossa esclusivamente da motivazioni politiche per salvare il grosso degli appartenenti alle forze armate che risultavano nelle liste d’accusa jugoslave, od organizzative vista la difficoltà nell’allestire numerosi processi quando ancora la ricostruzione risultava lunga e problematica. Parlare di “vincolo disciplinare indissolubile” dimostrava come anche il mondo militare italiano, compreso quello togato, trovasse nell’ordine superiore il punto cardine di quella autorità pubblica che sarà messa in discussione nei processi di Norimberga.

A questo si sommava anche una ragione pratica che lo stesso Borsari non nascose:

402

ASCD, Commissione d’inchiesta parlamentare sulle cause dell’occultamento di fascicolo relativi a crimini

nazifascisti, doc. 13/1, pp. 253-54.

403

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«Nella deprecata ipotesi poi che tale responsabilità dovesse essere estesa a tutti coloro che si sono attenuti agli ordini ricevuti, data la diffusione della ribellione jugoslava e la conseguente vastità delle operazioni da parte delle nostre truppe, ci si troverebbe dinanzi alla eventualità di dover – sia pur in linea astratta – considerare come criminali di guerra un gran parte delle truppe combattenti delle nostre forze armate di occupazione in Jugoslavia».

Una problematica questa alquanto seria di cui i rappresentanti della giustizia con le stellette erano ben consci. In un processo per omicidio o strage in un contesto di pace era abbastanza semplice focalizzarsi sull’accusato e chiedergli di rendere conto delle proprie azioni, ma in stato di guerra e con ordini di guerra contro i civili noti fin da subito sia agli italiani che agli alleati la questione era difficilmente inquadrabile in un normale procedimento penale anche se militare404. Al processo contro Kappler alcuni sottoposti del colonnello, tra cui il capitano Priebke e il maggiore Hass, vennero chiamati a deporre, ma nonostante risultasse chiaro dalle loro stesse disposizioni il ruolo attivo che avevano ricoperto nella strage non vennero incriminati.

Non era un caso che fino ad allora fossero stati ben pochi i procedimenti in cui dei militari erano finiti sotto processo per violazione dei “diritti delle genti”. Di guerre la storia moderna ne aveva già viste molte prima di quelle mondiali e queste erano state sempre segnate da violenze contro deboli e innocenti. Il fatto che quasi nessun militare fosse stato incriminato non era dovuto solo a ragioni politiche, ma anche alla violenta sismicità del terreno giuridico su cui ci si sarebbe mossi visto che troppo facile sembrava la possibilità di chiamare a rispondere i superiori e addirittura i vertici dello Stato e anche questo permise uno scarso sviluppo del diritto bellico inerente la repressione delle violenze verso i civili.

L’ordine superiore funzionò da scudo anche nei confronti dell’autorità statale che indirettamente vide bloccare sul nascere la possibilità che i grandi capi rispondessero delle azioni dei loro sottoposti perché se doveva rispondere solo chi aveva impartito l’ordine criminoso si sarebbe giunti nella maggior parte dei casi fino ai vertici militari e politici. Ipotesi questa che non veniva neanche presa in considerazione. Così l’impunità giuridica rappresentò nella consuetudine della guerra un porto sicuro per le alte sfere del potere. Inoltre giudicare solo i vertici quando gli esecutori materiali delle violenze sarebbero stati lasciati in pace avrebbe comportato notevoli dubbi logici e morali.

Ma giudicare i sottoposti per aver eseguito degli ordini era allo stesso tempo molto discutibile per i canoni culturali dell’epoca. Giudicare dei soldati, per di più stranieri, poneva questioni pratiche e di principio come quella dell’autorità nel suo complesso e quindi delle responsabilità

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Il cosiddetto “sistema di ordini draconiani” emessi dallo stesso Kesselring riguarda principalmente l’ordine del 17 giugno e del 1° luglio 1944. Mitigati, sulla carta, da quello del 21 agosto successivo dopo le rimostranze di Mussolini. Il 9 luglio 1945 l’ufficiale dello spionaggio inglese V. A. Isham definì la linea di condotta militare tedesca verso la popolazione civile italiana «una sistematica politica di sterminio, di saccheggi, di pirateria e di terrorismo». Riportato in Michel Battini e Paolo Pezzino, Guerra ai civili, op. cit., p. 197.

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della macchina statale a cui i militari rispondevano. Sempre che di responsabilità si potesse parlare nei suoi confronti.

Visto che la guerra non era un crimine a priori né per il diritto internazionale né per quello dei vari Stati, era possibile trovare nel diritto stesso lo strumento migliore per giudicare quelli che venivano ritenuti degli eccessi della guerra?

Al termine della seconda guerra mondiale molti leader e attivisti politici si dichiararono contrari all’idea di applicare la giustizia legale ai capi nazisti. Il governo britannico propose di stendere un elenco di cinquanta o cento persone da fucilare appena catturati. Stalin, tra il serio e il faceto, propose di moltiplicare quella cifra per mille provocando le rimostranza dello stesso Churchill visto che la proposta includeva bene o male tutti gli ufficiali tedeschi rimasti in vita. Il Segretario del Tesoro degli Stati Uniti Henry Morgenthau si dichiarò favorevole a varie esecuzioni sommarie. In Francia due alti magistrati che avevano preso parte alla resistenza proposero di reintrodurre una pena risalente al periodo del Terrore giacobino che consisteva nel dichiarare fuorilegge alcuni individui e come tali assassinabili da chiunque con garanzia dell’impunità.

Tutte queste proposte rimasero lettera morta e gli alleati decisero di procedere per vie giudiziarie a partire dal primo processo di Norimberga che venne spettacolarizzato anche a fini propagandistici per sanzionare la legittimità della guerra intrapresa contro la Germania nazista e i suoi alleati. Nel complesso i tribunali militari statunitensi condannarono 1814 criminali di guerra tedeschi di cui 450 alla pena di morte. Quelli inglesi 1085 di cui 240 alla pena capitale. I francesi 2107 per 104 condanne a morte405. Tuttavia circa la metà delle pene capitali vennero commutate, comprese quelle nei confronti di numerosi ufficiali delle forze armate tedesche.

Ma a parte questi casi senza precedenti l’unico tentativo, per di più fallito, di usare la giustizia come strumento punitivo per i crimini contro gli usi e costumi della guerra furono i processi di Lipsia dopo la prima guerra mondiale e anche in questo caso a carico dei vinti.

Antoine Garapon ha affermato che «la pretesa di reprimere un crimine contro l’umanità esige di affrancarsi dalla barriera insormontabile che riveste la sovranità dello Stato per poter mettere sotto causa coloro che agiscono in suo nome»406. Questa proposizione poteva valere anche per i crimini di guerra nazifascisti che tuttavia la giustizia militare fece fatica a elaborare in quanto tali o almeno a trovare un metodo sicuro e coerente per la loro sanzione.

Per un uomo che vestiva l’uniforme, ancora di più che per il civile, lo Stato era un punto di riferimento intoccabile che in caso contrario poteva umiliare chi lo rappresentava nella veste di suo difensore. E colpire lo Stato anche indirettamente attraverso la persona del militare che lo

405

Jon Elster, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche, Il Mulino, Bologna 2008, p. 84.

406

Antoine Garapon, Crimini che non si possono né punire né perdonare. L’emergere di una giustizia internazionale, Il Mulino, Bologna 2004, p. 37.

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rappresentava nel massimo della sua potenza poteva incrinare irrimediabilmente una cultura ormai secolare e all’atto pratico indiscussa fino a quel momento.

Per Hegel il vincolo che univa lo Stato ai cittadini era permanente e inderogabile tanto che lo Stato poteva pretendere dal cittadino il sacrificio più prezioso, la vita. Lo Stato per Hegel, come sottolineò lo stesso Bobbio, traeva la sua legittimità e quindi il diritto di comandare e di essere ubbidito, o dal mero fatto di rappresentare in una determinata situazione storica lo spirito del popolo oppure di essersi incarnato nell’uomo del destino. Il Führerprinzip nazista e l’idea che molti italiani si erano fatti di Mussolini poteva in un certo qual modo aderire a quest’ultimo punto.

Bobbio ricordò come Hegel, in Lineamenti di filosofia del diritto (1821), esprimesse la convinzione che lo Stato «ha la sua esistenza, cioè il suo diritto, immediatamente in un’esistenza non astratta ma concreta, […] e soltanto quest’esistenza concreta, non una delle molte proposizioni generali, ritenute per precetti morali, può essere principio del suo agire e del suo comportamento». Questo significava che «il principio dell’azione dello Stato deve essere ricercato nella sua stessa necessità di esistere, di un’esistenza che è la condizione stessa dell’esistenza degli individui. Prova ne sia che il tribunale che giudica le azioni dello Stato non è né quello esterno istituito dallo stesso Stato per giudicare le azioni dei sudditi né quello che ciascun individuo erige al proprio interno per risponderne di fronte alla propria coscienza o a Dio, ma è il tribunale della storia universale, i cui soggetti non sono gli individui ma appunto gli Stati»407.

Per questo lo Stato aveva il diritto di muovere guerra come e quando lo ritenesse più opportuno. Nel discorso inaugurale per l’anno 1915 tenuto all’Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano, il professore di diritto Giulio Cesare Buzzati sottolineò come:

«gli Stati vogliono rimanere liberi di ricorrere alle armi sempre quando lo credano necessario, anche semplicemente utile ai loro interessi di qualsiasi natura: essi non si sentono vincolati a non muover guerra, non intendono esserlo: di più non lo possono, non lo devono, se non vogliono sacrificare l’autonomia, l’esistenza, tutto il loro avvenire nei secoli ad una eterna immobilità di tomba»408.

E proprio per questo nessuno poteva sovrastarlo:

«L’esistenza di un massimo reggitore della società degli Stati sarebbe per ciascuno di essi soggezione sempre, sovente schiavitù, vorrebbe dire mancare la ragione prima della esistenza nazionale, propter ritam vitae perdere caussam»409.

407

Norberto Bobbio, Stato, governo, società. Frammenti di un dizionario politico, Einaudi, Torino 1985, p. 76.

408

Giulio Cesare Buzzati, Il diritto e la guerra, F.lli Fusi, Pavia 1915, p. 42.

409

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Il fatto che lo Stato godesse della massima libertà di manovra lo rendeva sostanzialmente intoccabile anche se una sua responsabilità si poteva rilevare almeno da un punto di vista civile in quanto obbligato spesso a risarcimenti materiali e territoriali. Ma non certamente da un punto di vista penale, e processare un militare che aveva agito in suo nome eseguendo degli ordini avrebbe comportato il rischio di violare quello che pareva essere un vero e proprio tabù..

Se c’era chi, addirittura nell’Ottocento, come Heffter o Bluntschli riteneva che le violazioni del diritto internazionale fossero in primo luogo quelle riguardanti i diritti degli uomini e delle nazioni410 e per questo la condotta in tal senso di uno Stato costituiva un pericolo generale411, la conduzione delle guerre europee dimostrava come questi diritti non fossero tutelati dal diritto internazionale. Per questo Anzilotti già all’inizio del Novecento ricordava come:

«il diritto internazionale non vieta le persecuzioni religiose, né gli atti del più efferato dispotismo, né l’oppressione d’intere popolazioni, né l’introduzione della schiavitù: tutti questi son fatti irrilevanti dal punto di vista del diritto internazionale»412.

Il diritto interno, espressione della sovranità statale attraverso l’atto legislativo, a cui dovevano far riferimento i tribunali militari risultava per lo più deficitario su questioni riguardanti atti rientranti in un contesto internazionale quale la guerra e i metodi di lotta impiegati dagli eserciti. Esso poteva forse trovare una sponda in quello internazionale ma mai si poteva, almeno formalmente, utilizzare categorie giuridiche extra nazionali. E il diritto internazionale dell’epoca era strutturato in modo che lo Stato non potesse veder violata giuridicamente la sua podestà di prendere decisioni inerenti la guerra da parte di qualsiasi soggetto esterno. Lo Stato rendeva conto solo a se stesso, ossia alla volontà dei suoi cittadini in quanto comunità.

La violenza verso i civili che a torto o a ragione venivano ritenuti conniventi con i partigiani rientrava nel fenomeno guerra. La violenza infatti non poteva diventare guerra «se non in quanto ne sia fatto uso da un gruppo sociale, il quale, contrapponendosi ad un altro, affermi di fronte a questo una propria personalità ed operi con la coscienza di esercitare un’azione legittima»413.

Erano dunque i partigiani e chi li appoggiava ad aver violato per primo le leggi di guerra andando incontro al reato di lesa maestà nei confronti di uno Stato. C’era così il serio rischio che per la prima

410

August Wilhelm Heffter, Das europäische Völkerrecht der Gegenwart, E. H. Schroeder, Berlino 1861, qui tuttavia si fa riferimento all‘8ᵃ edizione curata da Geffken, Berlino 1888, p. 104.

411

Johann Caspar Bluntschli, Le droit International codifié, Guillaumin, Parigi 1870, pp. 471-72. 412

Dionisio Anzilotti, Teoria generale della responsabilità dello Stato nel diritto internazionale, op. cit., p.94, nota 1. Anche se non negava comunque che tali fatti potessero provocare talora un conflitto d’interessi fra gli Stati così grave da rendere necessario un intervento per farli cessare.

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volta nella sua storia la giustizia militare italiana potesse trovarsi nell’imbarazzante situazione di dover chieder conto a uno Stato delle sue decisioni materializzatesi attraverso l’operato dei suoi sudditi in uniforme. Il codice penale militare non poteva dare le necessarie garanzie per un processo giusto, e facile era la possibilità di scivolare su un piano internazionale durante il dibattimento che poteva forse portare verso un vicolo cieco a favore dell’imputato.

Pensare che in un processo per crimini di guerra si potesse o si dovesse fare valutazioni penali limitandosi con disinvoltura all’uso esclusivo del diritto interno significa non comprenderne la complessità e i numerosi risvolti che a quel tempo ne potevano scaturire e di questo pare che gli stessi giudici che condannarono Kappler e Reder ne fossero ben coscienti per come analizzarono certe questioni e sulle osservazioni fatte, soprattutto dal parte Collegio bolognese, sulla natura dell’ultima guerra segnata dalla presenza guerriglia partigiana e quindi non valutabile con i canoni che potevano essere desunti dal primo conflitto mondiale. Il crimine era opera di un militare in una situazione di guerra internazionale e le azioni commesse, seppur riprovevoli, erano tutt’altro che non riferibili allo stato di guerra.

I processi contro numerosi ufficiali dell’esercito tedesco nei vari processi di Norimberga e nei procedimenti penali dei vari Paesi europei che riuscirono a incriminarli dovettero confrontarsi con il diritto bellico internazionale perché il comportamento degli imputati durante la guerra era condizionato, almeno teoricamente, ai codici del proprio Paese d’appartenenza e agli usi e ai costumi di guerra sanzionati nelle convenzioni internazionali. Già era difficile per un militare aderire alle proprie regole codificate in zona di guerra mentre doveva rispettare gli ordini a cui era sottoposto e per questo assai pretestuoso poteva sembrare la pretesa che il militare straniero dovesse rispondere per violazioni del codice penale militare del Paese nemico.

Così nei processi per crimini di guerra diritto interno e diritto internazionale non potevano essere separati con facilità, pena un giudizio riduttivo e parziale come quello del processo per la strage di Marzabotto nei confronti del maggiore Walter Reder dove si evitò ogni riferimento a eventuali responsabilità della resistenza e soprattutto del Governo italiano che la sosteneva. Se così era, allora sarebbe bastato il codice penale civile per valutare l’azione criminosa. Quello militare avrebbe funzionato esclusivamente da riferimento per la valutazione della pena da infliggere. Ma il codice militare a differenza di quello civile poteva volgere con facilità lo sguardo al diritto internazionale visto che le sue normative vi ritrovavano spesso la loro origine e giudicare un militare straniero per quanto fatto in guerra significava giudicare l’operato di un soggetto su cui lo Stato d’appartenenza delle vittime e dei giudici non aveva podestà e per di più riferibile a un momento storico dove il rapporto era esclusivamente un rapporto internazionale quale era la guerra fra Stati.

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Il diritto internazionale nella dottrina classica non riconosceva che gli Stati come quello interno si poteva confrontare solo con gli individui. Ma visto che il diritto interno si differenziava tra ordinario e militare con quest’ultimo che si ritrovava in una posizione non del tutto chiara, anche il diritto internazionale non risultava un corpo ben definito. Forte era infatti l’elemento consuetudinario. La questione delle necessità degli Stati, come se fossero degli individui, fece sì che il diritto internazionale andasse incontro quasi esclusivamente ai loro interessi. I freni che erano posti all’attività degli Stati e quindi ai suoi uomini, derivavano dal pericolo esclusivo di rappresaglie. Non c’erano fondamenti morali all’atto pratico, ma solo pragmatici come il mancato utilizzo dei gas venefici nella seconda guerra mondiale aveva dimostrato. Per questo fino al secondo dopoguerra non esistette mai un diritto internazionale penale.

Il danno recato ad un privato, qualunque ne fosse la natura e l’entità, non costituiva mai di per sé una violazione del diritto internazionale, perché lo Stato non aveva doveri internazionali verso gli individui, ma sempre e soltanto verso altri Stati414. Era questa l’unica sua possibile responsabilità a cui era costretto a rispondere.

Irresponsabilità sostanzialmente ribadita anche dopo la seconda guerra mondiale da Balladore Pallieri riguardo all’utilizzo di combattenti non legittimi perché da parte dello Stato rimaneva la sua «illimitata libertà di compiere o far compiere operazioni belliche da chiunque gli torni utile»415. Questa loro sostanziale immunità giuridica era dimostrata dal fatto stesso che i propri militari potevano prendere degli ostaggi per mantenere l’ordine nei territori occupati andando contro il principio giuridico dell’irresponsabilità per atti compiuti da altri soggetti. Si riteneva che la generale ostilità della popolazione, la conseguente frequenza con cui azioni nocive all’occupante venivano commesse e la difficoltà di scoprire il colpevole quando la popolazione era piuttosto incline a nasconderlo che non a consegnarlo, rendeva «molte volte necessarie per la sicurezza medesima dell’esercito queste misure contrastanti ai comuni concetti giuridici»416.

Per Alberico Gentili l’unica responsabilità dello Stato riguardo alle colpe delle persone private era la loro repressione417. Secondo Dioniso Anzilotti il diretto internazionale non creava pretese giuridiche individuali, ma soltanto l’obbligo dello Stato di attribuire o riconoscere all’individuo certi diritti, cosicché la base formale di questi diritti individuali, comunque garantiti da norme giuridiche internazionali, era sempre in una norma del diritto interno418.

414

Dionisio Anzilotti, Teoria generale della responsabilità dello Stato nel diritto internazionale, Lumachi, Firenze 1902, parte prima, Il problema della responsabilità di diritto internazionale, p. 131.

415

Giorgio Balladore Pallieri, Trattato di diritto internazionale. Diritto bellico, 2ᵃ ed., vol. VI, Cedam, Padova 1954, p.

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