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Restauro e seconda guerra mondiale

Nel documento IL CASTELLO AL TRIVIUM (pagine 60-68)

1936-1945

che l’“apparizione” di Michelozzo aveva contestato e così facendo, con loro stupore, scoprirono infatti che le merlature originarie furono arbitrariamente ampliate qua e là per creare e annettere poderi e case.

Non appena compiute le due suddette imprese, si avviarono a pieno regime i restauri dell’edificio principale del castello. La cosa più incredibile è che nessun architetto o decoratore fu impiegato. Enrico fece lui stesso il lavoro architettonico e Marjorie fece la decorazione interna. Enrico fu aiutato dal Sig. Ernesto Brizzi, ingegnere strutturista di professione, e Marjorie dal pittore Ulrico Bellioni, la cui specialità erano i muri colorati. Secondo le istruzioni di mia madre, tutte le stanze furono dipinte in colori diversi secondo il gusto inglese predominante dell’epoca.

Questi sforzi complessivi portarono sistemazioni per 20 persone con un totale di 10 camere doppie e singole, oltre a camere per uno staff di quattro persone. Furono anche installati dodici bagni che, per quei tempi, erano un numero spropositato. Questo sorprese molto i parenti inglesi!

Marjorie, distesa supina su un’alta impalcatura, dipinse 85 cassettoni in una stanza d’angolo del castello. Ogni cassettone aveva un dipinto di una diversa composizione floreale. Tutti i fiori raffigurati si trovano nel giardino del castello in diversi periodi dell’anno. Anche il soffitto del bagno adiacente fu disegnato da Marjorie e il tema qui è il trifoglio, cardo e rosa (troppo presto per il porro gallese!) per la gioia degli ospiti britannici. Ovviamente, questo è unico per un soffitto di un castello mediceo.

Furono inoltre previste dieci potenziali sale da pranzo esterne e interne per una capienza totale di 400 ospiti. La disposizione dei posti variava da 5 a 150.

Fino al 1943 gli Scaretti trascorsero le loro estati al castello. Ebbero prima una bella bambina con gli occhi azzurri e le trecce bionde e poi un ragazzino grassoccio con gli occhi azzurri e le ciocche nere. Ovviamente i bambini non nacquero così. Gli ornamenti teratologici del viso iniziarono più tardi. Quando il bambino nacque a Londra (era grassoccio di nascita) fu puntualmente inviato un telegramma per annunciare l’evento. Furono accesi falò in tutta la proprietà e i merli furono accesi con le torce. Nella radura antistante la cappella attigua al Trivium si svolsero molte danze al suono della fisarmonica.

Molto feudale! Se non altro, era in linea con le tradizioni storiche della Toscana.

Mentre tutto questo accadeva, il cane Spaniel nero di 12 anni di Enrico di nome Binky, intuendo (come spesso fanno i cani) che gli affetti del suo padrone

erano ormai andati a farsi benedire, si ammalò, morì e fu sepolto vicino al cancello, con una piccola placca di marmo. Il suo ritratto a pastello ora è appeso appena sopra il livello del pavimento, in quell’angolo del cortile vicino all’ingresso laterale dove è appeso anche un gong cinese da pranzo e dove fu posta la sua cuccia per dormire in modo tale che, con un’aria corrente sempre così gentile, se il caldo estivo fosse diventato troppo opprimente, avrebbe potuto fare il suo sonnellino pomeridiano. A proposito di questo ritratto:

nel 1967 mentre il ragazzo grassoccio, ora trentenne e magro (più o meno) dormiva nel castello, due ladri sfortunati e incompetenti furono arrestati a un miglio di distanza mentre cercavano di entrare in un altro edificio della tenuta. Poi si scoprì che quella notte avevano prima tentato senza successo di abbattere la pesante porta laterale di quercia, rinforzata in acciaio, vicino al ritratto di Binky. Lo stabilirono i Carabinieri, visto che i ladri dimenticarono distrattamente un piede di porco per terra accanto alla porta. Interrogati sul perché avessero desistito da un’impresa così improbabile, risposero che, avendo sentito un cane abbaiare e ringhiare dall’altra parte della porta, se ne andarono via in tutta fretta. Dapprima, ipotizzarono che l’edificio fosse totalmente disabitato. In effetti non era disabitato ma di certo non c’erano cani nel castello in quel momento!

La pergola

PRIGIONIERI FUGGITIVI

Anche fino ai primi anni di guerra bisognava cambiarsi per cenare al castello.

Questa cerimonia era preceduta, tempo permettendo, da una passeggiata in giardino al tramonto. Di solito ad accompagnarci in queste languide e pseudo-bucoliche escursioni serali c’era una femmina di spaniel che aveva preso il posto di Binky e si faceva chiamare Blue-Bee. Fortunatamente, per semplificare le cose, era chiamata “B-B” poiché non era né blu né un’ape, aveva un mantello bianco e nero e, ça va sans dire, era un cane.

B-B ci accompagnava sempre nelle nostre passeggiate, saltellando gioiosamente dentro e fuori dalle aiuole, inseguendo lucertole, scarafaggi e cavallette. Il corollario delle lucciole di giugno serviva a completare la magia dell’intero scenario. Essendo un tipo sentimentale, ricorderò sempre i riflessi dei raggi di un sole al tramonto sul lungo abito da sera blu scuro iridescente di mia madre, seguiti dalla formazione di sfumature rosso fuoco degli Appennini e dall’intensità crescente del canto dei grilli. Com’è come sdolcinatezza?!

Si legge con totale incredulità come una favola magica e incredibile, soprattutto considerando che nel 1943 una guerra a tutti gli effetti stava infuriando in tutta Europa. Ma queste apparenze farsesche furono, in parte, sostenute da qualcosa di molto più serio e potenzialmente mortale: un supporto logistico attivo che mia madre stava fornendo per un flusso costante di prigionieri di guerra alleati sfuggiti ai campi di concentramento durante l’armistizio di quell’anno che trovavano rifugio nei boschi che circondavano il castello. L’area era, infatti, strategicamente posizionata sulla direttrice per Fiesole e per l’Italia meridionale. Marjorie faceva sempre la vaga, evanescente e garbata artista inglese: ogni volta che i tedeschi arrivavano a portata d’orecchio sentivano il suo fluente e fortemente esagerato accento inglese-tedesco, parlare delle meravigliose bellezze paesaggistiche della Baviera!

Questa era la facciata: forniva attivamente cibo, vestiti civili, mappe, tè, spago ecc. a sudafricani, scozzesi, inglesi, americani ed irlandese in viaggio verso il sud. A dimostrazione di come davvero battesse il cuore dell’Italia, va sottolineato che, di tutte le decine di persone che lavoravano e vivevano nella tenuta, nessuno fece mai la spia sulle attività di mia madre. Anzi, proprio per spirito umanitario, si unirono tutti individualmente per aiutare i fuggitivi.

LASCIANDO IL CASTELLO

Entro ottobre di quell’anno, tuttavia, la situazione stava andando un po’ fuori controllo, quindi mia madre decise di portare mia sorella e me, rispettivamente di otto e sei anni, a Roma per unirci a Dadù (Enrico) prima che gli eserciti alleati spostandosi verso nord, tagliassero il paese in due.

Prima di andarsene, Marjorie fece in modo che le Suore della Carità del convento locale si trasferissero nel castello per farlo sembrare un ospizio per bambini. Questa decisione apparentemente astuta, che scopriremo in seguito, ritardò di sei mesi la presa in consegna del castello da parte dei tedeschi.

Nel maggio del 1944, l’Alto Comando sbattè, senza troppe cerimonie, le cinque suore e venti ragazze orfane fuori dal castello e le mandarono in cappella, che divenne quindi il dormitorio per l’intero gruppo ... e forse non solo. Furono sistemate delle brandine lungo le pareti della cappella, mentre suor Giuseppina, la madre superiora, si trasferì nella sagrestia, nella speranza potesse fornire maggiore privacy. Le sue aspettative furono di breve durata: il

‘sottofattore’, che viveva nella costante paura di essere deportato in Germania per lavorare allo sforzo bellico (era un uomo di 48 anni corposo), lasciò sua moglie e un bambino nella loro casa nella tenuta e si mise in salvo sotto il letto di Suor Giuseppina! Nello, il giardiniere, invece, si ritagliò un piccolo e piuttosto accogliente spazio letto all’interno dell’altare.

I tedeschi non solo si trasferirono, ma iniziarono anche a caricare dei camion di mobili del castello da inviare in Germania. Quando la notizia arrivò alle suore, due di loro si precipitarono all’Alto Comando tedesco per fare una protesta formale, accusandoli in

modo molto determinato di aver rubato proprietà della Chiesa al servizio di orfani poveri. All’una del mattino, pochi giorni dopo, il rombo dei camion risvegliò la piccola comunità terrorizzata del nostro villaggio. E adesso?! Incredibilmente e con sorpresa di tutti, le obiezioni della suora ebbero effetto; i camion che avevano rimosso i mobili erano tornati

con l’intero carico. La cappella del Trebbio

VIAGGIO A ROMA

Torniamo all’ottobre 1943: mia madre, mia sorella ed io impiegammo sei giorni a viaggiare da Firenze a Roma. Per prima cosa andammo a Firenze per prendere il treno. Una volta saliti sul treno, arrivammo a Chiusi, la prima delle numerose soste, perché i ponti erano stati fatti saltare in aria. Da lì, salimmo su un autobus per Orvieto, dove Marjorie usò astutamente il suo

“anglo-tedesco” per guadagnare la simpatia di un soldato tedesco che vide sconsolato nel tentare di lavare un’auto del personale Mercedes-Benz con l’acqua sporca che ristagnava in una fontana laterale della strada. Si rivelò essere l’autista di un colonnello di artiglieria tedesca e un sopravvissuto del fronte russo. Durante il loro viaggio, attraverso la Germania per raggiungere Cassino nell’Italia meridionale, avevano assistito alla devastazione del loro paese. In cambio di un passaggio a Roma, Marjorie promise al guidatore un sovrano britannico d’oro (che la sua madrina le regalò nello Yorkshire al suo battesimo nel 1903). Il soldato lo riferì al suo comandante, che sentì di non poter privare il conducente di una ricompensa così eccezionale, sapendo bene quanto poteva essere importante per alleviare i bisogni primari di casa della famiglia del soldato. E così fu raggiunto un accordo. Procedemmo in macchina verso sud in ‘questa anomala maniera’ e arrivammo a casa nostra con vista su Piazza Navona alle 3:00. Enrico fu svegliato e scese in strada con la sua veste di seta rossa sopra il pigiama e commentò in inglese: “Marjorie, è questa l’ora di tornare a casa?” Quindi, nel suo abbozzato tedesco, invitò il colonnello a prendere una tisana di cicoria, la versione italiana del caffè in tempo di guerra. Grazie a Dio l’ufficiale rifiutò perché, a nostra insaputa, durante la nostra assenza Dadù aveva nascosto in soffitta due esponenti di fede ebraica, indirizzati a lui, in aiuto, dal Governatore della Banca d’Italia, dove vi sarebbero rimasti per molti mesi. Si erano sistemati a dormire nell’attico e potevano usufruire della comoda via di fuga attraverso il lucernario nel soffitto della mansarda sui tetti degli edifici attigui. Quel lucernario, negli anni, fu utilizzato in modi diversi!

Non tornammo al castello per 18 mesi: non fino all’aprile del 1945.

La famiglia Scaretti nel 1937

Piazza Navona nel 1944- la freccia indica la casa Scaretti

Quindi, come ho detto prima, tornammo puntualmente al castello nella pri-mavera del 1945 e rimanemmo molto sorpresi nel vedere come la proprietà avesse subito danni relativamente piccoli. Eravamo consapevoli che l’edificio fosse in grave pericolo, ma solo dopo molti anni scoprimmo che, se non fos-se stato per circostanze incredibilmente fortuite che racconterò in fos-seguito, la maggior parte del castello sarebbe stata rasa al suolo.

Furono recuperati i gioielli di mia madre, che furono incastonati ad arte nei merli esterni da un muratore. Si era già tristemente rassegnata alla sua perdi-ta. I miei genitori avevano pensato che questo fatto, in qualche modo, potesse essere anche una sorta di assicurazione per le persone che erano a conoscenza del nascondiglio poiché, se qualcuno, durante la guerra, si fosse davvero mes-so nei guai, avrebbe potuto provare, in qualche modo, a scambiare le

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