Veniamo ora ad uno dei problemi centrali nell'interpretazione del pensiero di Origene: come intendere la resurrezione del corpo? La prospettiva di altre vite e di un cambiamento dell'essere umano in un modo di vita superiore e migliore non è mai assente dal pensiero di Origene ed è abbastanza chiaro che in molti casi questa prospettiva è concepita in senso corporeo, come cioè una nuova vita nel corpo. Il vero problema sorge quando ci occupiamo della fine ultima, la cosiddetta «apocatastasi», cioè la restituzione di tutte le creature al loro stato originario. Bisogna pensare che anche questa vedrà le creature vivere nel corpo o dovremmo piuttosto dire che esse sono incorporee? Stando a quanto visto finora, tutta una serie di ragionamenti e di testi sembrerebbero propendere senza dubbio per una apocatastasi incorporea. Tuttavia quest'esito – pur non essendo assente – è tutt'altro che scontato nel De Principiis, un testo in cui la presentazione di ulteriori elementi, fin qui non presi in considerazione, costringe a mettere in crisi l'idea dell'apocatastasi incorporea. Dopo aver esaminato i resoconti della risurrezione nell'opera, ci concentreremo sui testi che sembrerebbero escludere la possibilità di una vita incorporea per le creature razionali, cercando di comprendere le ragioni di questa esclusione e di valutare la portata e il significato di questi testi. Infine presenteremo una possibile conciliazione fra i testi del De
Principiis e quelli di altre opere che indicano una apocatastasi incorporea.
§1. Risurrezione nel De Principiis. Prima di occuparsi direttamente della risurrezione
teorizzata da Origene, bisogna comprendere in che cosa Origene si sentisse vincolato alla tradizione e all'insegnamento della Chiesa; che cosa, in altre parole, appariva nella sua percezione dogmaticamente stabilito, cosa invece ancora incerto. Fortunatamente Origene si era occupato di questo tema nella prefazione al De Principiis, che ci è arrivata nella
traduzione rufiniana:
Dopodiché, già [è stabilito dalla predicazione apostolica] che l'anima ha una vita e una sussistenza propria e che, uscita da questo mondo, sarà giudicata secondo i propri meriti; e godrà dell'eredità della vita eterna e della beatitudine, se è questo che le sue azioni le hanno guadagnato, oppure sarà consegnata al fuoco eterno e ai supplizi, se la colpa dei suoi delitti l'avrà destinata a tal fine; e poi anche che vi sarà un tempo della resurrezione dei morti, quando questo corpo, che adesso è seminato nella corruzione, risorgerà nell'incorruttibilità, e che è seminato nella vergogna risorgerà nella gloria. [1Cor 15:42-3] […] Inoltre c'è anche questo nella predicazione della Chiesa: questo mondo è stato creato ed è iniziato da un certo momento e deve essere dissolto, a causa della sua stessa corruttibilità. Cosa però ci sia stato prima di questo mondo, o cosa ci possa essere dopo, questo ancora non è chiaro ai più, perché nessun pronunciamento chiaro a tal proposito è contenuto nella predicazione della Chiesa. (PA Praef. 5.7)81
Il testo presentato unisce due paragrafi della prefazione, il 5 e il 7: i dogmi riguardanti l'anima e la resurrezione sono quindi separati da quelli che riguardano la fine del mondo. In tal modo, Origene individua l'immortalità dell'anima, il giudizio, i premi e le punizioni, la resurrezione del corpo come un nucleo dogmatico, la fine del mondo e ciò che lo precede e lo segue come un altro. Già in questo modo di presentare i punti del dogma riscontriamo una anomalia: ci aspetteremmo infatti che resurrezione, giudizio, premi e punizioni afferiscano al momento della fine del mondo. Ponendo tutti questi elementi come realtà mondane, Origene ne riduce la portata, dato che la fine del mondo permette di metterle in discussione e potenzialmente anche di superarle. Se per esempio il giudizio e l'assegnazione dei premi e punizioni conseguenti precedono la fine del mondo, lo stato delle creature successivo al giudizio potrebbe non essere permanente e di conseguenza nemmeno il giudizio sarebbe definitivo, perché la fine del mondo potrebbe comportare la fine della distinzione fra dannati e salvati che il giudizio aveva istituito. Similmente per quanto riguarda la resurrezione del corpo, la sua collocazione all'interno – e non al limite estremo – della storia del mondo lascia campo libero al suo superamento dopo la fine del mondo. Il campo d'altronde è tanto più libero in quanto lo statuto pre- e post-mondano delle creature non è stato fissato dalla Chiesa, per cui Origene può esplorare diverse
81 Post haec iam quod animam substantiam vitamque habens propriam, cum ex hoc mundo discesserit, pro
suis meritis dispensabitur, sive vitae aeternae ac beatitudinis hereditate potitura, si hoc ei sua gesta praestiterint, sive igni aeterno ac suppliciis mancipanda, si in hoc eam scelerum culpa detorserit; sed et quia erit tempus resurrectionis mortuorum, cum corpus hoc, quod nunc in corruptione seminatur, surget
in incorruptione, et quod seminatur in ignominia surget in gloria. […] Est praeterea et illud in
ecclesiastica praedicatione, quod mundus iste factus sit et a certo tempore coeperit et sit pro ipsa sui corruptione solvendus. Quid tamen ante hunc mundum fuerit, aut quid post mundum erit, iam non pro manifesto multis innotuit. Non enim evidens de his in ecclesiastica praedicatione sermo profertur.
possibilità in merito. Già dalla presentazione del dato dogmatico, vediamo che Origene apre alla possibilità (che in questo testo è ancora soltanto una possibilità) di un superamento della corporeità e di una interpretazione tutto sommato riduttiva della risurrezione del corpo, vista come soltanto una tappa, un momento nella storia del mondo, potenzialmente nient'affatto definitivo.
La resurrezione e la fine del mondo vengono trattate cinque volte nel De Principiis. Una di queste (PA IV, 4, 8) è parte della ricapitolazione che chiude l'opera e rimanda esplicitamente ai brani precedenti. Le altre quattro trattazioni sono disposte specularmente, nel senso che trattano di volta in volta i temi della risurrezione e della fine con interesse prima più speculativo, poi più soteriologico o economico82. La distinzione fatta può aiutare
a capire qualcosa del brano collocandolo nel contesto più ampio della trattazione, ma non va intesa troppo rigidamente perché nella ripetizione dell'argomento temi e ragionamenti inevitabilmente si sovrappongono. Questo dunque è il sommario delle discussioni nel De
Principiis:
Fine Resurrezione
Teologico I, 6, 1-4 II, 2, 1-2. 3, 2-3.7
Economico III, 6 II, 10-1
La prima discussione (PA I, 6, 1-4) è collocata nel primo ciclo di trattati quando, dopo aver discusso del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, Origene prende in considerazione le creature razionali in ottica generale. A tal proposito viene ribadita la mancanza di appigli certi nel dogma cristiano in merito alla fine del mondo, così da giustificare l'ardire speculativo di ciò che seguirà, invocando al contempo la benevolenza del lettore. La trattazione prosegue dicendo che la fine giungerà solo quando tutti i peccati di tutte le creature saranno stati espiati per mezzo di pene; conseguentemente, la sottomissione finale a Cristo e per mezzo di Cristo a Dio, che – spiega Origene – altro non è che la salvezza, è una prospettiva universale, sicché la fine vedrà le creature tutte convergere in un unico stato. Nei paragrafi successivi Origene elabora il tema dell'unità e uguaglianza finale (e perciò anche iniziale) delle creature razionali e della sopravvenuta diversità in gradi, dovuta al moto di allontanamento da Dio. In questo contesto si pone la questione della
salvezza universale, se cioè sia possibile che anche le potenze attualmente ostili a Dio un giorno possano essere sottomesse e convertite al bene. Un'ipotesi di soluzione del problema che salvaguardi la libertà e al contempo l'ugugaglianza delle creature e la bontà di Dio è indicata nella dilatazione del tempo per mezzo di molti mondi. È qui che si pone la questione della corporeità o meno:
Poiché dunque Paolo dice che ci sono cose visibili e temporali e altre invece oltre queste che sono invisibili e eterne [2Cor 4:18], indaghiamo in che modo ciò che si vede è temporale: se perché dopo questo mondo non sarà più per tutti i tempi e i secoli, attraverso i quali quella dispersione e divisione di un unico principio è restituita ad un unico ed identico fine, o perché solo la forma di queste cose visibili passa, mentre la loro sostanza non si corrompe del tutto. E Paolo sembra confermare proprio la seconda possibilità, dato che dice: passerà
la forma di questo mondo [1Cor 7:31]. Ma anche Davide, quando dice: i cieli periranno, ma tu resterai, ed ogni cosa come un vestito invecchierà, e come una veste li cambierai, e saranno cambiati come un vestito [Ps 101:27], sembra
dimostrare le stesse cose. Se infatti i cieli muteranno, allora non perirà ciò che è mutato; e se passa la forma di questo mondo, non si dimostra affatto l'annichilimento e la rovina della sostanza materiale, piuttosto avviene una certa mutazione di qualità e una trasformazione della condizione. Anche Isaia, quando profetizza che ci sarà un cielo nuovo e una terra nuova [Is 65:17], suggerisce senza dubbio un'interpretazione simile. E dunque il rinnovamento del cielo e della terra, e la trasformazione della condizione di questo mondo, e la mutazione dei cieli saranno preparati senza dubbio per coloro che, viaggiando per quella via che abbiamo già esposto, tendono a quel fine di beatitudine, al quale si dice che persino gli stessi nemici siano sottomessi, nel quale fine si dice che Dio sarà tutto e in tutti.
Se qualcuno crede che in quel momento finale la natura materiale – cioè corporea – debba perire completamente, sfugge proprio in ogni modo alla mia comprensione in che modo possano così tante sostanze sussistere e vivere senza corpi, quando è prerogativa solo della natura di Dio, cioè del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, il fatto che si ritenga esistere senza sostanza materiale e privo di qualsiasi legame con un corpo aggiunto. Un altro forse dirà che in quel fine ogni sostanza corporea sarà così pura e raffinata, da potersi concepire al modo dell'etere e di una purezza e trasparenza quasi celeste. Come staranno le cose, lo sa meglio solo Dio, e quanti sono suoi amici grazie a Cristo e allo Spirito Santo. (PA I, 6, 4)83
83 Quoniam sane visibilia quaedam dicit esse Paulus et temporalia, alia vero praeter haec invisibilia et aeterna, quaerimus quomodo haec quae videntur temporalia sint: utrumne pro eo quod nihil omnino post
hoc erunt in omnibus illis futuris spatiis ac saeculis, quibus dispersio illa unius principii atque divisio ad unum et eundem finem ac similitudinem reparatur, an pro eo quod habitus quidem eoqum quae videntur transeat, non tamen etiam substantia eorum omnimodis corrumpatur. Et Paulus quidem videtur id quod posterius diximus confirmare, cum dicit: Transiet enim habitus huius mundi. Sed et David cum dicit:
Caeli peribunt, tu autem permanebis, et omnes sicut vestimentum veterescetn et sicut amictum mutabis eos, sicut vestimentum mutabuntur, eadem videtur ostendere. Si enim mutabuntur caeli, utique non perit
quod mutatur; et si habitus huius mundi transit, non omnimodis exterminatio vel perditio substantiae materialis ostenditur, sed inmutatio quaedam fit qualitatis atque habitus transformatio. Esaias quoque cum per prophetiam dicit quia erit caelum novum et terra nova, similem sine dubio suggerit intellectum. Innovatio namque caeli et terrae et transmutatio habitus huius mundi et inmutatio caelorum his sine dubio praeparabitur, qui per illam viam, quam supram ostendimus iter agentes ad illum finem beatitudinis tendunt, cui etiam ipsi inimici subiciendi dicuntur, in quo fine omnia et in omnibus esse dicitur deus. In hoc fine si qui materialem naturam, id est corpoream, penitus interituram putet, nullo
Nel primo paragrafo, Origene si chiede se la fine di un mondo comporti un annullamento della materia corporea. Gli viene in soccorso il modello cosmologico greco che descrive il mondo con la metafora dell'artigiano come una materia informata da qualità e forme, che ben si accorda ad alcuni brani biblici a tema escatologico che si esprimono in termini di mutamento della forma delle cose presenti. Il fatto che questa mutazione futura è descritta come una mutazione in meglio per «coloro che tendono alla beatitudine» non deve far pensare né che si parli della fine, né che si parli soltanto di coloro che hanno ben meritato, perché, ferma restando la libertà delle creature, il mondo futuro sarà sempre migliore del mondo presente e questo, in un certo senso, vale per tutti. Questo ottimismo nel progresso delle creature è motivato dall'inconsistenza ontologica del male, che come tale deve sparire, e dalla fede nell'efficacia della Provvidenza divina che opera educando, purgando, conducendo ciascuna delle creature nel modo più appropriato84. In quest'ottica
tutte le creature – anche quelle momentaneamente ostili – sono incamminate sulla via della beatitudine finale. Il secondo paragrafo sposta il problema dell'eliminazione della materia dalla storia del mondo differenziato al momento del recupero finale dell'unità iniziale. Qui – come indicato nella prefazione – il dogma ecclesiastico e la Scrittura stessa non offrono indicazioni esplicite, perciò la conclusione di Origene mette in chiaro il carattere comunque provvisorio della discussione. Nondimeno qualcosa sul tema può essere detto: le due ipotesi di una totale scomparsa della materia o della sua trasmutazione in una materia pura ed eterea sono sempre attribuite a terze persone. Riguardo la prima ipotesi viene espressa perplessità in merito alla possibilità di una quantità di creature (tot et tantae) di sussistere senza corpo. S'intende come unicamente incorporeo soltanto Dio. Il testo non riporta obiezioni alla seconda ipotesi, sebbene la sua proposta sia molto cauta (alius
fortasse). Essendo espressa un'obiezione alla prima ipotesi e nessuna alla seconda, il testo
sembrerebbe orientarci decisamente verso la corporeità eterea nella fine. Questo orientamento però va molto limitato: primo, perché il testo comunque non chiude la questione ma la lascia esplicitamente aperta; secondo, perché la seconda ipotesi non è comunque convintamente fatta propria; terzo, perché l'obiezione alla prima ipotesi è
omnino genere intellectui meo occurrere potest, quomodo tot et tantae substantiae vitam agere ac subsistere sine corporibus possint, cum solius dei, id est patris et filii ac spiritus sancti naturae id proprium sit, ut sine materiali substantia et absque ulla corporae adiectionis societate intellegatur existere. Alius fortasse dicet quoniam in illo fine omnis substantia corporalis ita pura erit atque purgata, ut aetheris in modum et caelestis cuiusdam puritatis ac sinceritatis possit intellegi. Certius tamen qualiter se habitura sit res, scit solus deus, et si qui eius per Christum et spiritum sanctum amici sunt.
espressa in maniera abbastanza soggettiva (nullo omnino genere intellectui meo occurrere
potest), restando aperta la possibilità di un'accettazione dell'ipotesi nel caso si spiegasse in
che modo possano le creature sussistere senza corpo, possibilità ancora più plausibile, in quanto il veto contro l'incorporeità creaturale rimane privo di motivazioni, scritturistiche e razionali. Infine, bisogna tenere in conto la mediazione rufiniana in questo brano: senza voler assumere veri e propri tagli netti o interpolazioni del tutto inventate dal traduttore, procedimento che per l'impossibilità di falsificare le ipotesi facilmente trascende nell'arbitrio e nel circolo ermeneutico, si può comunque pensare a degli accomodamenti più sottili del testo da parte di Rufino (cf. A §1, n. 2)85. Il testo potrebbe essere stato un
poco accorciato, in considerazione delle frequenti ripetizioni lungo l'opera di questa problematica, oppure i toni e le sfumature delle espressioni potrebbero essere stati leggermente modificati per offrire un'interpretazione dell'alternativa già orientata al lettore: per esempio la negazione della prima ipotesi (nullo omnino genere) potrebbe essere stata rafforzata, mentre la seconda ipotesi potrebbe aver perso qualcosa dei motivi che spingevano Origene a non adottarla attribuendola ad un «altro» (alius). Il riassunto di questo paragrafo offerto da Girolamo nell'Epistola ad Avito è in effetti più equilibrato86: le
due opinioni vengono presentate stringatamente senza la benché minima ombra di una preferenza per l'una o l'altra. Considerato anche il contesto del brano, con il prevalente interesse verso l'unità e la differenziazione delle creature razionali nell'ottica della conciliazione fra bontà e giustizia divina e libertà creaturale, è possibile che il tema fosse soltanto presentato in maniera neutra, lasciando ai paragrafi successivi un'esposizione più approfondita87. Peraltro, subito dopo questo paragrafo, Origene tratta alcune caratteristiche
delle creature razionali a partire dalle Scritture, trovandovi una base per affermare che esse sono per propria natura incorporee: ora, tale affermazione non è inconciliabile con l'affermazione della necessità che le creature siano sempre accompagnate da un corpo, però
85 In generale, la critica è passata nel corso del '900, da una valutazione molto critica della traduzione di Rufino ad una sempre più simpatetica: cf. Crouzel 1987; Behr 2017, pp. xxii-xxiii. Sulle traduzioni di Girolamo e Rufino cf. Bardy 1940; Studer 1968; Winkelmann 1970; mentre per Rufino più in particolare, cf. Koppe 1937; Murphy 1945 e gli studi della Lo Cicero, fra i quali segnaliamo Lo Cicero 2008.
86 Corporales quoque substantias penitus dilapsuras; aut certe in fine omnium hoc esse futura corpora,
quod nunc est aether et caelum, et si quod aliud corpus sincerius et purius intellegi potest (Hier. Ep. 124,
4).
87 In maniera simile nella ricapitolazione dell'opera, a PA IV, 4, 8, Origene riprende l'argomento, connotandolo ancora in favore di una impossibilità della creatura di vivere senza corpo e al contempo aprendo cautamente all'alternativa opposta, purché si trovino degli argomenti a suo favore. Il paragrafo si conclude con il rimando al corpo del trattato, dove il tema è sviluppato più ampiamente: come a PA I, 6, 4 l'argomento è solo introdotto, così a PA IV, 4, 8 è solo ripreso brevemente.
è chiaro che pone una forte ipoteca sulla motivazione di quest'idea. In altre parole, accettare che le creature razionali siano per propria natura incorporee pur non vivendo senza un corpo non fa difficoltà, ma solleva la domanda del perché si debba postulare che non possano vivere senza un corpo88.
Molto più lunga e articolata è la discussione di questo tema dal punto di vista cosmologico nel seguito del primo ciclo di trattati; peraltro, la valutazione di queste pagine è complicata, oltre che dai consueti legittimi sospetti sulla traduzione rufiniana, anche da un certo disordine dell'esposizione, che alterna in maniera poco perspicua la discussione del fine ultimo con quella della molteplicità dei mondi e della loro eventuale uguaglianza (due temi già accostati a PA I, 6, 4). In questo caso la ricostruzione del testo di Rius- Camps, sebbene non verificabile, si rivela utile per lo meno in sede di comprensione e commento89. Lo studioso catalano riteneva che Origene stesso avesse interpolato i
paragrafi II, 1, 4-2, 2 e II, 3, 2-3 all'interno di una discussione sulla molteplicità dei mondi per chiarificare il proprio pensiero a fronte di ipotetiche critiche sollevate dalla prima edizione dei trattati. L'ipotesi è affascinante quanto avventurosa, tuttavia la divisione del testo è acuta e rende più chiaro il tutto. Leggendo insieme II, 1, 4-2, 2 e II, 3, 2-3, con l'aggiunta di II, 3, 4-5 subito dopo II, 1, 1-3 e II, 3, 1 si ottiene una esposizione nettamente più chiara. Origene descrive prima la sua concezione del mondo come un sistema di diversi piani abitati dalle creature razionali, ivi poste sulla base dei loro meriti etici e suscettibili di cambiare stato. Per chiarire in che modo possano darsi questi cambi di stato, Origene introduce l'idea di una molteplicità di mondi prima e dopo quello attuale, dopodiché chiarisce che questa dottrina non corrisponde a quella dell'eterno ritorno degli stoici: quelli credevano nella necessità di tutto lo svolgimento storico fin nei suoi minimi dettagli e pertanto nel suo infinito ripetersi, mentre Origene postula la molteplicità dei mondi proprio per concedere al libero arbitrio uno spazio di indeterminatezza in cui esplicarsi.
È su questo sfondo che si inserisce la necessità di chiarire in che modo tutto ciò sia ammissibile e che cosa potrebbe accadere dopo la fine di tutti i mondi. La soluzione ad
88 Il concetto di una predicazione non sostanziale – non afferente cioè alla natura o definizione del soggetto – eppure non divisibile dal soggetto e, in termini metafisici, di una proprietà non essenziale ma sempre