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La riduzione dell’IRPEG del 50% e il regime fiscale del volontariato 1 La riduzione IRPEG

L’agevolazione generale di maggior estensione per il non profit, resta quella che prevede la riduzione a metà dell’IRPEG complessivamente dovuta, e numerosi sono gli enti del terzo settore che possono fruire del beneficio da essa accordato.

Tale articolo prevede che, per determinati soggetti, l’IRPEG calcolata secondo le normali regole proprie della natura di ciascuno (trattasi di enti non societari, categoria di cui gli enti non commerciali rappresentano una specificazione) venga poi ridotta della metà. Quindi, in teoria, anche la parte di imposta dovuta da un ente non commerciale in relazione ai redditi di una gestione commerciale fruisce del beneficio, qualora l’ente soggettivamente possa rientrare in una di queste ipotesi.

Non facile appare l’individuazione dei caratteri comuni nei soggetti elencati all’art. 6: ma non ci si allontana dal vero dicendo che il legislatore ha «scelto» un determinato novero di enti (nel cui ambito figurano enti pubblici, privati, aziende statali, enti anche «equiparati» alle società) sulla base della natura di pubblica utilità da essi presentata e dell’assenza chiara di scopi di lucro.

Ed è dunque nell’ambito di tale previsione che, già da ben prima del D. Lgs. 460, il «fine» perseguito dall’ente ottiene dal sistema tributario vigente una rilevanza generale precipua, di portata, tra l’altro, notevole; mentre esso è, come noto, e con l’eccezione delle Onlus, tendenzialmente ininfluente in ordine all’attribuzione della qualifica di «non commerciale».

I soggetti considerati sono i seguenti:

a) enti e istituti di assistenza sociale, società di mutuo soccorso, enti ospedalieri, enti di assistenza e beneficenza.

Per gli enti di previdenza, di assistenza e di beneficenza, sembra chiara la possibilità di fruire delle riduzione d’imposta da parte di tutti quelli che operano in tale ambito anche se in via del tutto privata (ad esempio, casse aziendali; organizzazioni strettamente locali che esercitino attività assistenziali nei quartieri popolari ecc.): si ricorda però che per questi soggetti in parola l’agevolazione è subordinata alla qualità di persona giuridica;

b) istituti di istruzione e istituti di studio e sperimentazione di interesse generale che non hanno fine di lucro, corpi scientifici, accademie, fondazioni e associazioni storiche, letterarie, scientifiche, di esperienze e ricerche aventi scopi esclusivamente culturali.

L’esclusività dello «scopo culturale» dovrebbe costituire il requisito comune di tutti gli enti qui citati, insieme all’assenza di fini di lucro; ne consegue che un ente senza scopi di lucro ma privo di fini solo culturali (ma tutto può qualificarsi, volendo, culturale, dallo sport, alla politica, al turismo ecc.) non potrebbe rientrare in tale gruppo l’ipotesi, comunque, è pressoché teorica. Anche in questo caso, l’agevolazione può essere concessa solo se l’ente è in possesso della qualità di «persona giuridica»;

c) enti il cui fine è equiparato per legge ai fini di beneficenza o di istruzione; e) istituti per le case popolari, comunque denominati, e loro consorzi.

9.2 Il regime fiscale agevolato delle organizzazioni di volontariato

Rappresenta un tema da trattare a parte il compendio di norme fiscali speciali riservate, dalla legge- quadro 266/1991, alle organizzazioni di volontariato.

Le discipline speciali, in linea di principio, non dovrebbero determinare una modifica di tipo generale della dinamica impositiva tipologico-soggettiva, bensì intervenire con norme particolari, ad applicazione soggettivamente delimitata, per introdurre eccezioni, solitamente favorevoli, nell’applicazione ordinaria (possibilmente ordinaria per gli enti non commerciali in genere), ovvero ad ampliare ed estendere agevolazioni che già il sistema comune prevede, magari formulate in

modo diverso.

Accade ciò alle organizzazioni di volontariato (non tutte, ma solo quelle iscritte nei registri della

legge 266/1991), le quali sono esenti dalle imposte sulle donazioni e sulle successioni, nonché da

bollo e registro per quanto attiene gli atti costitutivi, che altrimenti avrebbero scontato l’imposta fissa (almeno) nel caso dell’imposta di registro (dando ancora per scontato che almeno la qualifica di ente non commerciale non sarebbe sfuggita all’ente che oggi può qualificarsi organizzazione di volontariato).

I soggetti in parola, inoltre, sono soggettivamente esclusi da IVA (ma ne scontano l’incidenza all’atto degli acquisti), e non subiscono imposizione diretta sulle attività commerciali definite dalla legge citata “marginali”: l’art. 8, infatti, prevede che «i proventi derivati da attività commerciali e produttive marginali non costituiscono redditi imponibili ai fini dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche (IRPEG) e dell’imposta locale sui redditi (ILOR), qualora sia documentato il loro totale impiego per i fini istituzionali dell’organizzazione di volontariato». Nella sua formulazione iniziale, l’ultima parte della norma prevedeva che «Sulle domande di esenzione, previo accertamento della natura e dell’entità delle attività decide il Ministro delle finanze con proprio decreto, di concerto con il Ministro degli affari sociali».

Successivamente con Circ. n. 3/11/152 del 25 febbraio 1992, l’Amministrazione finanziaria, spingendosi ben al di là di semplici compiti illustrativi, si pronunciò molto diffusamente sia sul concetto di attività marginale sia – con dovizia di particolare – sulla procedura del decreto interministeriale, istituendo una vera e propria regolamentazione particolareggiata alquanto ambiziosa, per le reali potenzialità operative erariali (es. si ipotizzavano istruttorie preventive degli uffici, mirate anche sull’entità, con susseguente acquisizione del diritto all’agevolazione fino al venir meno dei suoi presupposti anche quantitativi: fatto ancor più difficilmente monitorabile in un soggetto ammesso alla «non imponibilità» e fruente di un’esclusione IVA su base soggettiva: v. art. 8, comma 2). Fortunatamente a questo sistema si è, nel 1995, sostituito un Decreto del Ministero delle finanze che definisce in via generale le casistiche di marginalità.

Esse sono le seguenti:

1) attività di vendita occasionali o iniziative occasionali di solidarietà, svolte in occasione di celebrazioni o ricorrenze o in concomitanza a campagne di sensibilizzazione pubblica verso i fini istituzionali dell’ente di volontariato.

E’ una fattispecie comune, dove la marginalità va ravvisata nell’episodicità: anche altri risultati economici dovrebbero rientrarvi.

Deve inoltre evidenziarsi come in tali occasioni gli «scambi» non danno luogo a vendite, bensì a contribuzioni il cui oggetto ceduto (es. l’azalea) è una testimonianza dell’offerta e non una controprestazione.

Sintomi di ciò sono la non assoluta «fissità» dei prezzi delle cose, il carattere non professionale dell’evento, la provenienza (spesso liberale, a sua volta) dei beni in vendita;

2) attività di vendita di beni acquisiti da terzi a titolo gratuito a fini di sovvenzione, a condizione che la vendita sia curata direttamente dall’organizzazione senza alcun intermediario.

E’ una fattispecie molto comune all’estero, dove si incontrano spesso negozi di «riciclaggio» commerciale di regalie di privati. Le vetrine dei negozi, in questi casi, sono spesso teatro espositivo di campagne, di iniziative benefiche, e la stessa esposizione dei beni donati (la cui origine privata è dichiara con cartelli visibili) è fonte di incentivazione verso nuovi eroganti. Il fenomeno dà luogo ad una monetizzazione di liberalità, ed è impensabile un suo accostamento all'intermediazione tipica del commercio: non si tratta di vero e proprio «commercio»;

3) cessioni di beni prodotti dagli assistiti e dai volontari, semprechè la vendita dei prodotti sia curata direttamente dall’organizzazione senza alcun intermediario.

La marginalità, in questo caso, sta nella strumentalità istituzionale del fenomeno rispetto ai fini sociali: in altre parole, il contenuto «produttivistico» è quasi involontario costituendo in realtà l’esito di una terapia, di un addestramento riabilitativo in cui al centro sta il bisogno dell’uomo e

alla periferia (appunto: ai margini) una forma di «economicità» involontaria;

4) attività di somministrazione di alimenti e bevande in occasione di raduni, manifestazioni, celebrazioni e simili a carattere occasionale.

Perché questa fattispecie si realizzi è necessario che i prezzi dei servizi risultino inferiori sensibilmente (es. si potrebbero fissare limiti di almeno un terzo) a quelli minimi vigenti della somministrazione, identificati in base alle tariffe amministrative dei locali enti preposti ai relativi controlli.

In questi luoghi ci sono volontari che assicurano un pasto e una bevanda calda a poco prezzo: il fine sociale è qui immediato e la «marginalità», rispetto al valore perseguito, evidente;

5) attività di prestazione di servizi rese in conformità alle finalità istituzionali, non riconducibili nell’ambito applicativo dell’art. 111, comma 3, del T.U.I.R., verso pagamento di corrispettivi specifici che non eccedono del 50 per cento i costi di diretta imputazione.

E’ una fattispecie specifica ed esattamente delineata, che si dovrebbe applicare ai soli enti associativi.

Da ultimo, ancora, va ribadito che dal 1998 opera il principio per cui l’organizzazione di questo tipo è assiomaticamente soggetta al regime delle Onlus, senza che peraltro sia stato abrogato il farraginoso art. 8 della Legge 266/1991, a causa di una opzionalità introdotta all’ultima ora nella delega. Ancora vigente quest’ultimo, le complicazioni non mancheranno, tenendo presente che tutto lascia pensare che l’opzione (regolata al comma 8 dell’art. 10) riguardi non l’intero regime bensì le singole disposizioni. Così potrà darsi il caso dell’ente di volontariato che manterrà il regime d’esclusione IRPEG fondato sul carattere marginale delle sue attività commerciali, salvo far valere la sua configurazione di Onlus ai fini dell’imposta di registro o della qualità abilitante delle detrazioni fiscali per i donatori.