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Usare il metodo del ragionamento filosofico presumo sia il canale con il quale mi sento in grado di entrare in relazione con il mondo e con la tematica affrontata. Raccolgo informazioni per poter collegare materiale anche concettualmente distante. Ho usato un metodo ad imbuto nel quale far confluire, dopo un’analisi della letteratura, le esperienze dello stage e le successive interviste, già filtrate da una base teorica fondata. Questo processo mi ha permesso di identificare gli elementi fondamentali del sapere sull’argomento. Così ho voluto far emergere queste posizioni in tensione, dove l’educatore si vede coinvolto in un processo che ha, come base, una sfida enorme: come far comprendere qualcosa che a livello dell’individuo (con DSA) è ontologicamente incomprensibile?

Mi sembra di poter affermare che, coerentemente con l’indirizzo bio-psico-sociale proposto dal modello SUPSI, la figura dell’educatore può essere vista sotto forma di una metafora, quella del ponte che unisce due luoghi altrimenti non direttamente accessibili. Una struttura nella macro struttura che mette in collegamento, in comunicazione, che crea uno spazio di scambio e di movimento. Come la metafora della palestra, anche quella del ponte permette di capire che il ruolo dell’educatore è quello di collegare, in questo caso una realtà protetta con la realtà di vita sociale contemporanea, per far diventare possibile un insegnamento di abilità che potrebbero (o vorrebbero) poi essere generalizzate negli ambiti di vita quotidiana. Il contributo che il lavoro dei colleghi di Casa Arion apporta al panorama ticinese, mi piace appunto immaginarlo come un ponte verso una metodologia sempre più efficace con persone neuro-diverse. Quello che ho potuto cogliere è che l’équipe cerca anche di trasmettere, di generalizzare, questo modello di presa a carico. Perché attraverso le osservazioni sul campo si vedono risultati nella sfera del benessere personale ed è altamente gratificante, per l’educatore, fornire una vita dignitosa a queste persone. Inoltre, con l’applicazione di determinate strategie, il lavoro educativo risulta forse meno faticoso, più incline a lasciare campo alla scoperta delle diversità, piuttosto che farne materia fondante di rigidi codici di condotta. Come afferma Davis J. Lennard167 nel suo saggio “Normalità, potere

e cultura”:

[×××] per ampliare la definizione di disabilità facendola incontrare con concetti come

Neurodiversità, debolezza e capaci [×××] il problema non è più tanto quello di separare il normale dall’anormale, [×××] ma quello di descrivere, dettagliare, teorizzare e occupare la teoria della disabilità. Lungo queste linee l’intersezionalità, che è la posizione soggettiva che ne deriva dal possedere identità multiple, rende complessa la rubricazione generale della disabilità stessa”168.

L’ambito della disabilità, mi ha portato a ragionare ancora ed in maniera più mirata attorno a questa relazione. Come ben visto, nei libri di Medeghini, è forte la critica alla visione positivistica biomedica della disabilità, e la radice di questo dibattito la troviamo proprio nell’uso di determinate parole, che si caricano di significati differenti a seconda delle epoche

167 Vedi Medeghini, R. (2015), op. Cit., pag. da 41 a 61. 168 Medeghini, R. (2015), op. Cit., pag. 60

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e dei contesti. Apice del dibattito resta, a mio giudizio, il lavoro intellettuale legato all’analisi dell’antinomia normalità – anormalità.

Che cosa differenzia le due categorie? Quali sono i parametri definiti per creare questa distinzione? Per rispondere, mi concedo la ripresa di una domanda che mi sono posto all’inizio della mia ricerca. Dove deve poggiare lo sguardo per avere una visione funzionale (per me e per l’utenza): sulle differenze, o su quello che accomuna?

Durante il percorso scolastico, un tema affrontato trasversalmente, è stato quello dell’empatia. Durante la formazione abbiamo avuto modo di approfondire questa parola, cogliendone le sue diverse sfumature. Mi ha colpito particolarmente un intervento di un ospite durante il modulo di “Nuovi Territori”169, quando ha proposto di accantonare per un

attimo il termine empatia e di ragionare sulla parola exotopia.

“Nell’exotopia, invece, la ricerca inizia quando, avendo cercato di mettersi nelle scarpe dell’altro, ci si accorge che non gli vanno bene. Ma per accorgersi di questo bisogna «esporsi», mettersi in discussione, non ci si può avvalere né di questionari, né di interviste rigidamente strutturate. Bisogna, cioè, attivare un atteggiamento riflessivo rispetto alla propria epistemologia professionale ed al proprio sapere implicito che determina potentemente le pratiche di cura”170.

Ragionare con le lenti indirizzate verso le differenze, verso le mancanze, verso ciò che bisogna correggere, ci situa all’interno di questa grande fascia biomedica. Quando la macro finalità dell’intervento educativo mira all’inclusione, dove il termine differenza non viene utilizzato con lo stesso significato come a livello medicale. In questo caso, i parametri biomedici costruiscono attorno alle differenze, attorno alla diversità dalla normalità creando categorie dove inserire persone che aderiscono a determinati parametri, definite quindi a loro volta, anormali.

Personalmente, questa tematica mi ha sempre colpito ed interessato. D'altronde anche la SUPSI ha fornito le basi per proseguire questi ragionamenti: un esempio su tutti, la proiezione del film “La Città dei Matti171” e tutto il seguente dibattito formativo sulle antinomie

della professione di educatore sociale.

Come conclusione finale mi sento di dire che il focus dell’intervento educativo volto alla mediazione culturale (qualsiasi essa sia) non può fondare le sue radici sulle distinzioni e sulle differenze, ma dovrebbe possedere uno sguardo che abbraccia ed accoglie, nell’atteggiamento profondo e personale di “non giudizio”. Proprio il tema della neurodiversità mi ha permesso di aprire questo spazio ideativo e di ascolto (metaforicamente parlando), perché attraverso la rivalutazione delle differenze, si è creata una comunità (virtuale e non) che porta sostegno alle persone appartenenti, attraverso varie forme di riconoscimento sociale. Questa emersione dei bisogni specifici di una fascia di popolazione può portare grandi benefici al lavoro educativo, perché siamo in possesso di molte più informazioni

169 Estratto da: Croce, M., “Nuovi territori dell’intervento sociale”, Manno, SUPSI DEASS, 2016.

170 Depalmas, C. Ferro Allodola, V. “L’inganno” dell’empatia in ambito sanitario. Dall’empatia all’exotopia:

dicotomia del senso attraverso l’uso riflessivo dei film”. Tutor vol.13, N.3, 2013. Pag. 23

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riguardo al funzionamento dell’autismo. Quindi si possono pre-parare gli spazi, si possono

pre-parare le metodologie e ci si può pre-parare nell’incontro, per andare al di là dei

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