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6. Discussione

6.1 Risultati emersi dalla ricerca sul campo e letteratura

Personalmente, prima di partire per Trento per andare ad effettuare le diverse interviste ad infermieri ed UFE, non credevo di riuscire a raccogliere così tanto materiale né tantomeno di scoprire che questo risulta strettamente inerente e corrispondente a ciò che avevo già trovato in letteratura. La maggior parte delle tematiche emerse nelle interviste infatti, corrispondono a ciò che viene descritto in letteratura, confermando appieno e dimostrando il dato teorico.

Per quanto concerne il disturbo psichico che nella parte teorica ho deciso di illustrare attraverso una psicosi in particolare, ossia la schizofrenia, posso affermare di aver riscontrato diverse corrispondenze con la ricerca sul campo. Sebbene nelle mie interviste non ho mai fatto riferimento al disturbo schizofrenico, in qualche modo sono emerse varie caratteristiche e dati che mi hanno permesso di confermare quanto rilevato in letteratura. Quello che maggiormente è emerso nei racconti, sia da parte degli infermieri che da parte degli UFE, riguarda la sfera personale e familiare dei pazienti.

Sui libri di testo infatti, viene spiegato come il disturbo psichico rende la persona in qualche modo incapace di gestire la propria vita autonomamente, con soprattutto le numerose ripercussioni che la malattia causa, sia personali che sociali e anche legate ai caregivers. La persona con disturbo psichico infatti, sovente perde tutto ciò che è la propria autonomia, la speranza, l’interesse nei confronti di attività sociali, relazionali, lavorative e mostra difficoltà anche nel rapporto con i propri familiari e/o amici. Questo aspetto è emerso all’interno delle interviste soprattutto grazie agli UFE. Alcuni di loro infatti, hanno anche raccontato quello che è stato il loro periodo di malattia, descrivendo le loro sensazioni e i loro comportamenti. In particolare, hanno raccontato la difficoltà nell’accettare la malattia e nell’accettare l’aiuto da parte di altri, di come ci si sente “svogliati” e senza alcun interesse, anche nell’affrontare la malattia stessa. Si è anche parlato del fatto che inizialmente gli utenti, quando arrivano al CSM di Trento, hanno paura e sono poco fiduciosi nei confronti di tutto e tutti. Poi, soprattutto nei periodi più difficili, hanno raccontato della difficoltà, in particolare da parte degli infermieri, nell’entrare in relazione con queste persone. Un altro aspetto corrispondente a quanto trovato in letteratura riguarda le ripercussioni della malattia sui caregivers, particolarmente i familiari. Sempre grazie ad una delle interviste effettuate ad un UFE, attraverso il racconto della sua esperienza di malattia, narra la difficoltà da parte dei propri familiari nel cercare di aiutarlo e sottolinea il senso di impotenza che queste persone provano quando si trovano di fronte ad un parente che rifiuta ogni genere di aiuto. In quasi tutte le interviste inoltre, si è trattato il tema delle problematicità che la malattia causa a livello familiare e soprattutto del fatto che, inevitabilmente, qualsiasi disturbo colpisce non solo la persona interessata ma anche coloro che le stanno affianco, confermando così quanto descritto in letteratura.

Restando in tema di disturbo psichico, un’altra importante corrispondenza tra quanto emerso nelle interviste e la letteratura riguarda gli approcci terapeutici e il trattamento. Nella realtà psichiatrica trentina infatti, l’approccio terapeutico utilizzato per la presa in carico degli utenti è essenzialmente quello biopsicosociale. Tanto è vero che tutto il loro lavoro è basato sulla cooperazione tra molteplici figure professionali (medici, infermieri, educatori, UFE, ecc.) e non (familiari, amici, popolazione, volontari, ecc.). L’aspetto però che, a mio parere, risulta particolarmente interessante riguarda il trattamento farmacologico. In una delle interviste fatta ad un UFE, egli stesso confessa di promuovere il tema della “demedicalizzazione” e della limitazione nell’uso dei farmaci. Questa tematica, presente anche nel quadro teorico, rappresenta un pensiero innovativo. Solo negli ultimi anni infatti, diversi professionisti hanno iniziato a mettere in dubbio la validità dei farmaci antipsicotici mediante importanti studi, come ad esempio quelli effettuati nel 2013 da Wunderink e collaboratori e da Harrow e Jobe. Anche il nuovo metodo ideato da Yaakko Seikkula, “Open Dialogue Approach” (“Dialogo aperto”), dimostra la poca affidabilità ed efficacia dei farmaci antipsicotici. Si tratta infatti di un trattamento basato sul dialogo, sulla famiglia e sulla rete sociale che ha avuto notevole successo nella regione finlandese e non solo (Seikkula, 2014). L’UFE interessato, a mio parere molto preparato e all’avanguardia rispetto temi di attualità riguardanti le cure in ambito psichiatrico, ha affermato la sua convinzione sul fatto che quando i pazienti riducono l’utilizzo dei farmaci iniziano a stare meglio, a sentirsi più in forze, ad essere in grado di fare cose interessanti ed utili e molti di loro addirittura riprendono la propria attività lavorativa.

Un altro aspetto notevole emerso in una delle interviste degli UFE, fa riferimento al tema letterario riguardante il counselling. L’utente familiare esperto infatti ha descritto uno dei principi che lo compongono, ovvero la capacità di proporre una narrazione differente all’esperienza vissuta, dandogli un’altra possibilità di essere riletta.

Il fatto di prendere il problema in mano ed analizzarlo e dire: “forse non è così grande”, spesso aiuta le persone ad avere una visione differente anche delle esperienze che faranno in futuro. Il counselling, considerato come un processo di cambiamento comportamentale in cui avviene una riformulazione di alcune aree problematiche dell’agire individuale, è basato su diversi aspetti fondamentali. (Biaggio, 2006) Uno di questi riguarda proprio la capacità di stimolare l’utente, mediante una valutazione condivisa della sua esperienza passata, ad apprendere nuovi schemi comportamentali che lo aiuteranno per le future esperienze. Si tratta quindi di sostenere la persona nel ri- apprendere in maniera attiva dalla propria esperienza vissuta. (Biaggio, 2006) A confermare ulteriormente quanto detto, secondo il modello inerente il counselling cognitivo relazionale, le persone si approcciano e si gestiscono nella vita tramite la costruzione di letture, rappresentazioni e narrative che vengono condivise e rafforzate nella relazione con gli altri. (Rezzonico & Meier, 2010) Tanto è vero che, quando una persona si trova confrontata con un ostacolo, si costruisce innanzitutto una rappresentazione della propria situazione, che verrà poi utilizzata per affrontare quello stesso evento. (Rezzonico & Meier, 2010) Grazie al counselling è quindi possibile cercare di aiutare la persona, attraverso la rilettura del problema, a dare una nuova rappresentazione, una nuova narrazione alla propria esperienza in modo da riuscire, nel tempo, a raggiungere degli obiettivi e superare degli ostacoli che in passato consideravano insormontabili. (Rezzonico & Meier, 2010)

Per quanto riguarda invece il tema del recovery, ho potuto notare ugualmente numerose corrispondenze fra ricerca sul campo e letteratura, alcune delle quali mi hanno sorpresa in quanto non me le sarei aspettate. Inizialmente, infatti, temevo che il concetto “recovery” non fosse così conosciuto da parte degli intervistati (tanto è vero che nelle interviste ho deciso di non inserirlo in termini espliciti). Invece per tutti loro rappresenta un concetto guida nella presa in carico degli utenti ed addirittura è una tematica trattata settimanalmente durante le attività che vengono proposte ai pazienti all’interno del reparto dell’ospedale S. Chiara. Sia il processo di recovery in sé, riguardante gli utenti, che l’assistenza orientata al recovery sono emersi in tutte le interviste da entrambe le figure. Sia UFE che infermieri infatti, nel loro lavoro di presa a carico degli utenti, integrano quelli che sono gli elementi trattati in letteratura riguardo l’assistenza basata sul recovery. A questo proposito ho potuto notare con molta ammirazione quanto gli UFE siano all’avanguardia. In letteratura, infatti, vengono sottolineati degli aspetti, come ad esempio: l’offrire una pianificazione individualizzata, diventare una guida del recovery o ancora identificare ed affrontare le barriere al recovery, ecc. che ho osservato maggiormente nelle interviste effettuate agli utenti familiari esperti. Il fatto di abbattere stigma e pregiudizi, di cercare di eliminare negli utenti la paura di non guarire, il favorire la speranza, la fiducia, l’autostima e ancora il riuscire ad instaurare con il paziente una relazione, l’essere un esempio da seguire, ecc. sono tutti rilevati in letteratura che grazie agli UFE hanno avuto un riscontro e mostrano dei risultati anche nella pratica. Mi sono quindi resa conto che spesso sono queste figure che permettono al paziente di intraprendere un proprio percorso di recovery e di proseguirlo nel tempo in maniera positiva. Chiaramente la maggior parte di questi aspetti li ho ritrovati anche all’interno delle interviste effettuate agli infermieri, in quanto il lavoro in collaborazione con gli UFE e il loro ruolo sono basati essenzialmente su questa teoria di assistenza orientata al recovery.

Infine, grazie allo svolgimento delle interviste basate sul tema inerente gli UFE stessi e la collaborazione con la figura degli infermieri, sono riuscita ad ampliare ulteriormente il bagaglio avuto mediante la consultazione dalla letteratura.

Sono infatti riuscita a comprendere diversi aspetti caratteristici degli UFE, come ad esempio le motivazioni principali che spingono le persone a voler intraprendere l’incarico come UFE, il loro punto di vista rispetto al lavoro che svolgono e rispetto al sistema psichiatrico trentino in generale, le loro percezioni rispetto alla loro integrazione nell’équipe e soprattutto tutto ciò che riguarda la collaborazione con le altre figure professionali (medici, infermieri) e non (familiari e utenti). È risultato chiaro, grazie alle interviste, che il punto di forza di queste persone è la loro esperienza di malattia e il fatto di essere riusciti a trovare una propria strategia per gestire il malessere e condurre quindi una vita “normale”. Agli occhi degli utenti e dei loro familiari, gli UFE sono dei veri e propri esempi di successo e di recovery e questo talvolta genera e spesso aumenta il loro il sentimento di speranza, fondamentale in qualsiasi percorso di cura. Non solo: ho potuto anche notare come gli utenti familiari esperti siano riconosciuti anche dai professionisti stessi, che in primis stimano e ritengono che si tratta di una figura preziosa che non fa altro che aggiungere valore al lavoro. Ciò che ho trovato molto interessante inoltre è il fatto che una delle “critiche” mosse da parte degli infermieri nei confronti degli UFE risulta a sua volta in letteratura ed è il percorso “integrativo” per diventare UFE. De Stefani in proposito spiega come il tema riguardante la formazione di queste figure suscita spesso discussioni tra gli operatori. Egli però, sottolinea e ricorda che per poter svolgere questo ruolo non sono necessarie formazioni particolari, se non l’aver “superato” e metabolizzato il proprio disagio. In una delle interviste agli infermieri inoltre, uno di loro riprende il pensiero espresso da De Stefani, affermando che all’UFE, per poter svolgere questo compito, vengono poste numerose domande inerenti il proprio percorso di maturazione individuale, percezione di sé, conoscenza di sé, conoscenza delle emozioni, ecc. mentre all’operatore tutto ciò non viene richiesto. Questo per dimostrare che pure queste persone, con una modalità differente, affrontano un percorso altrettanto complesso e selettivo. Per cui, una volta che vengono scelti, significa che realmente sono stati reputati, da parte di professionisti, abili a vestire i panni di UFE.

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