Marzo 1593.
Sul confine ungaro-croato, linea che separava le terre sotto il comando della casata degli Asburgo da quelle che rispondevano invece al Sultano ottomano, la situazione di tensione che da anni ormai aveva investito quelle zone sembrava sul punto di esplodere. Scorrerie di confine, perpetrate tanto da una parte quanto dall’altra, avevano sempre costituito motivo di confronto tra le due potenze che, tuttavia, si erano impegnate con discreto successo per tutta la fine del XVI secolo a intraprendere una strada che non conducesse ad uno scontro bellico vero e proprio.
In quell’anno, però, la situazione precipitò: gli Ottomani avevano ormai esaurito la pazienza per quanto concerneva la questione degli Uscocchi.71 Arroccati a Segna in Croazia, «città di mare posta tra alte montagne e protetta da numerose isolette»72, questa popolazione praticava, sotto l’ala protettiva asburgica, la pirateria dalla metà del sedicesimo secolo. Per i sovrani del Sacro Romano Impero questi pirati rappresentavano un mezzo per «disturbare le buone relazioni esistenti tra Venezia e la Porta»73, con lo scopo d’indebolire la presa della Serenissima sull’Adriatico.
Per qualche tempo furono solamene le navi musulmane a dover fronteggiare le incursioni di questi corsari, ma, sul finire del Cinquecento, la situazione mutò portando gli Uscocchi a non fare più alcuna distinzione sulla loro preda, arrivando ad assaltare sia navi ottomane sia navi cristiane che veleggiavano lungo l’Adriatico.74
La mancata risoluzione da parte della casata asburgica della questione irritò tanto la Porta, quanto Venezia.
La sconfitta subita dalla Serenissima ad Agnadello nel 1509 aveva segnato un profondo punto di svolta nella politica “estera” della Repubblica veneziana. In un primo momento, fino al termine delle guerre d’Italia, la città lagunare si limitò a proteggere i suoi territori recuperati con fatica dopo Agnadello. Successivamente, a guerre terminate, si concentrò sul mantenere una politica il più possibile neutrale: a meno che non fosse stato strettamente necessario, Venezia tentò
71 Cfr. supra, p. 18.
72 MARIA PIA PEDANI, Venezia porta d’Oriente, Bologna, il Mulino, 2010, p. 69. 73 Ivi, p. 70.
di non prendere parte ai numerosi conflitti che continuarono a investire l’Europa in Età Moderna.75 All’alba della Lunga guerra turca, la promessa di neutralità veneziana era già stata infranta all’incirca un ventennio prima. Nel 1570 l’Impero ottomano aveva deciso che fosse giunto il momento adatto per sottrarre dalle mani veneziane l’isola di Cipro, località strategica sulla rotta pellegrina e commerciale che da Costantinopoli, capitale del regno turco, conduceva alla città egiziana di Alessandria e viceversa. Era intollerabile, quindi, che un’isola cristiana potesse diventare motivo di destabilizzazione e di pericolo per pellegrini e mercanti che decidevano di intraprendere quella strada per motivi religiosi, come l’annuale pellegrinaggio verso la Mecca, o per ragioni economiche. Erano sufficienti le attività piratesche di alcuni abitanti dell’isola di Malta per spingere gli Ottomani a voler eliminare qualsiasi altro potenziale problema.
Un rappresentante dell’Impero ottomano si presentò a Venezia e gettò il guanto di sfida alla Serenissima, che decise di accettare anziché optare per una soluzione che sul lungo termine sarebbe state forse più proficua, ovvero vendere l’isola al Turco. Cipro, con la sua roccaforte Famagosta, capitolò piuttosto rapidamente sotto i colpi degli Ottomani; la difesa di Marcantonio Bragadin fu disperata e la sua morte, dopo la resa suggellata con un salvacondotto che venne disatteso, fu teatrale e drammatica.76 Contemporaneamente al passaggio di Cipro in mano ottomana, il pontefice Pio V (1566-1587) riuscì a far coalizzare Spagna, Venezia e Stato Pontificio per aiutare la Serenissima. Le forze cristiane e musulmane si incontrarono, il 7 ottobre 1571, presso le isole Curzolari e qui, durante la battaglia di Lepanto, i cristiani inflissero una pesante sconfitta agli ottomani. Nonostante la vittoria, però, Venezia ne uscì pesantemente indebolita e, aspetto forse più importante di tutti, perse l’isola di Cipro. Aveva combattuto una guerra reputata necessaria ma rivelatasi inutile.77
La minaccia degli Uscocchi rischiava di provocare nuovi contrasti con gli Ottomani che accusavano tanto gli Asburgo quanto Venezia di essere incapaci nella gestione del problema. Il ricordo della battaglia di Lepanto, probabilmente ancora vivido nella mente di Venezia e dei veneziani, di sicuro non spingeva a voler intraprendere un nuovo scontro contro il Turco. La situazione che andava profilandosi lungo il confine asburgico-ottomano, non era sicuramente motivo di tranquillità per la Serenissima.
75 Cfr. FREDERIC C.LANE, Storia di Venezia, Torino, Giulio Einaudi editore, 1978, pp. 284-288;
76 Sulla vicenda di Marcantonio Bragadin cfr. M.P.PEDANI, Venezia porta d’Oriente, cit., p. 66; ALVISE ZORZI, La repubblica del leone. Storia di Venezia, Milano, Rusconi,1979, pp. 347-351.
77 Cfr. M.P.PEDANI, Venezia porta d’Oriente, cit., pp. 66-67; A.ZORZI, La repubblica del Leone, cit., pp. 343-356;
Attraverso la voce di Paolo Paruta78, che dal 1592 era inviato come ambasciatore presso la corte pontificia, e dei suoi successori, il Senato veneziano cercherà continuamente di smuovere il pontefice sulla questione dei pirati di Segna, chiedendo che con la sua autorità intercedesse presso l’imperatore asburgico affinché tale situazione venisse risolta. Era inaccettabile per Venezia che questi pirati «in grosso numero di più di ottocento, sotto l’insegna dell’istesso capitano di Segna»79 continuassero ad infastidire un nemico come l’Impero ottomano. Gli Uscocchi, secondo la Serenissima, mostravano un atteggiamento che avrebbe potuto rivelarsi rovinoso non solo per loro, ma anche verso «altri ancora, che erano fuori d’ogni colpa». 80 Questi appelli caddero continuamente nel vuoto fino al 1615 quando, dopo undici anni dalla conclusione della guerra in Ungheria, era scoppiata la guerra di Gradisca tra Venezia e gli Asburgo. Essa rappresentava l’atto finale per costringere la casata imperiale «ad allontanare i loro pericolosi sudditi dalla costa e a confinarli all’interno del paese».81
Il danno, tuttavia, era già stato fatto. Nonostante ciò, però, la guerra vera e propria faticava a prendere il via. Le trattative per una tregua vennero intavolate e discusse per diversi mesi. La situazione antecedente lo scoppio del conflitto appare confusa dai dispacci che da Praga il segretario Giacomo Vendramin, a nome dell’ambasciatore Giovanni Dolfin che risultava essere indisposto, inviava a Venezia. Nel marzo 1593 si trova allegata, al dispaccio inviato dal segretario veneziano, la trascrizione di una lettera di Sinan pascià dove vengono esplicitate le richieste ottomane per giungere a una tregua: un tributo, chiamato presente, del valore di due anni e la liberazione di alcuni beghi che presumibilmente rappresentavano degli ostaggi ottomani prestigiosi in mano asburgica.82
Il clima che accompagna la richiesta del presente non era né disteso, né calmo. Contrariamente, durante l’attesa gli assalti ottomani continuarono, tanto che giunse notizia, poco meno di un mese dopo dalle condizioni richieste da Sinan, di cento persone fatte prigioniere dai Turchi nei pressi di Zagabria.83 Inoltre, all’inizio di maggio, circolava la nuova che il pascià di Bosnia, Hassan, fosse alla testa di «18.000 uomini» e che fosse pronto a riversarsi su Segna e su
78 Cenni biografici sul Paruta si possono trovare in PAOLO PARUTA, Relazione di Roma, in Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato durante il secolo decimosesto, Volume X, Serie II, Tomo IV, edite dal CAV.ALBÈRI
EUGENIO, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 1857, pp. 357-358.
79 RINALDO FULIN, FEDERICO STEFANI, La legazione di Roma di Paolo Paruta, 1592-1595, Venezia, Stabilimento
tipografico dei fratelli Visentini, 1887, Tomo I, p. 18.
80 Ibidem.
81 M.P.PEDANI, Venezia porta d’Oriente, cit., p. 70.
82 Cfr. ASVe, Senato, Dispacci, Dispacci degli ambasciatori e residenti, Germania, b. 20, in particolare il foglio 28,
30 marzo 1593.
Carlostadt.84
Nel frattempo, il presente, accompagnato da un legato nominato Popel, prese la via di Vienna solamente nel luglio dello stesso anno a mesi di distanza dalla richiesta del primo visir ottomano85, ma, soprattutto, un mese dopo la rotta turca che era costata la vita ad Hassan pascià, a 7 beghi e ad un nipote del sultano stesso. E, per quanta valenza simbolica potesse avere cantare il Te Deum a seguito di questa effimera vittoria imperiale, il ritardo nell’invio del presente non aveva sicuramente giovato alla situazione corrente, resa ancora più delicata dalla sconfitta turca e dalla morte di un’importante personalità come quella di Hassan pascià.86
Inoltre, la strada che il presente doveva percorrere fino alla Porta, non si sarebbe rivelata rapida e nemmeno semplice. L’imperatore asburgico voleva avere delle certezze sulla tregua da stipulare. La sua decisione fu quindi quella di spedire il legato prima a Vienna, «dove si crede che [il presente] s’habbia a fermar molti giorni»87, e poi a Komar, fortezza vicina al confine, dove sarebbe rimato in attesa di nuovi ordini varati sulla certezza che Costantinopoli avrebbe accettato l’accordo. L’imperatore asburgico era dell’idea che bastasse dimostrare di aver fatto incamminare il presente per avere il riscontro positivo sulla tregua da parte della Porta.88
Nulla di più lontano dalla realtà. Alcuni giorni dopo l’invio del presente, il 3 agosto, si ebbe notizia di una lettera del pascià di Buda, il quale risultava sorpreso del fatto che il tributo non procedesse verso Costantinopoli.89 A distanza di una settimana, giunsero poi anche annunci dalla stessa capitale ottomana che riferivano di malumori e sentimenti di vendetta che serpeggiavano nella città, alimentati in particolare dalla sorella del sultano, nonché madre di Hassan pascià.90 Tale clima aveva fatto precipitare la situazione nella capitale turca: un dispaccio del 17 agosto riferisce a Venezia che l’ambasciatore asburgico a Costantinopoli era stato imprigionato, che si era dichiarata l’impresa per l’Ungheria e che Sinan pascià era stato nominato generale di suddetta impresa. Nonostante questo, nella corte asburgica circolava una voce differente: questa mossa ottomana veniva vista solo come un atto di “terrorismo psicologico” volto a far procedere più velocemente il presente verso Costantinopoli.91
La situazione, nonostante gli ultimi risvolti, rimase ancora per qualche tempo indefinita.
84 Cfr. ivi, f. 53, 11 maggio 1593. 85 Cfr. ivi, f. 94, 20 luglio 1593. 86 Cfr. ivi, f. 84, 6 luglio 1593. 87 Cfr. ivi, f. 94, 20 luglio 1593. 88 Cfr. ibidem.
89 Cfr. ASVe, Senato, Dispacci, Dispacci degli ambasciatori e residenti, Germania, b. 20, f. 105, 3 agosto 1593. 90 Cfr. ivi, f. 114, 10 agosto 1593.
L’Impero ottomano aveva dichiarato guerra ma sembrò che lo spettro della tregua aleggiasse ancora nell’aria, tanto che, una settimana dopo, il pascià di Buda arrivò persino a concedere un passaporto al legato che accompagnava il tributo, affinché potesse transitare attraverso le terre ottomane.92 L’imperatore, dal canto suo, continuò a temporeggiare in attesa di una risposta soddisfacente da Costantinopoli. Si temeva che gli Ottomani non avessero intenzione di rispettare la tregua nemmeno nel momento in cui il tributo fosse giunto a destinazione. E non fu una paura isolata alla corte asburgica: anche a Roma, Paruta riporta il dibattito della congregazione di
Germania. In particolare, coloro che erano schierati a favore dell’imperatore chiedevano a gran
voce che non venissero accettati i termini richiesti dalla Porta «principalmente perché non s’assicurava che, spogliata [Sua Maestà] che fusse di questi denari, i quali manco si trovava tutti pronti, di non dovere ritrovarsi poi alla stessa condizione e negli stessi pericoli, non venendole osservati i patti».93
L’allungamento dei tempi da parte dell’imperatore asburgico costò lo scoppio vero e proprio del conflitto, sebbene le operazioni strettamente belliche fossero già iniziate mesi, se non anni, addietro. Nel giro di una settimana, agli inizi di settembre, il pascià di Buda, che poco meno di un mese prima aveva fornito un lasciapassare al portatore del presente, ritirò il suo aiuto e fece rinchiudere un tale Francesco Giercovitz, inviato imperiale per rassicurare gli Ottomani riguardo l’avanzamento del tributo.94
Proprio mentre i primi movimenti bellici “ufficiali” avevano inizio, il segretario Vendramin e l’ambasciatore Dolfin vennero sostituti da Tommaso Contarini95 che rimase in carica fino ai primi mesi del 1596. Al termine del suo incarico, Contarini, secondo una pratica diffusa a Venezia, aveva prodotto una relazione suddividendola in capitoli riguardanti determinati argomenti: i vari stati dell’impero asburgico e le loro qualità, le entrate e le spese, la persona dell’imperatore Rodolfo, l’esercito, la sua composizione e i suoi capitani principali, i comizi e le diete e, soprattutto, un prospetto tecnico e personale sulla guerra che si stava combattendo in quegli anni in Ungheria. Il resoconto, descritto da un punto di vista “esterno” alla guerra, venne prodotto durante il terzo anno di conflitti: nonostante ciò, quanto scritto potrebbe risultare applicabile anche ad alcuni eventi successivi l’inizio dell’autunno del 1596, periodo in cui sembra essere stata presentata
92 Cfr. ivi, f. 129, 24 agosto 1593.
93 R.FULIN, F.STEFANI, La legazione di Roma di Paolo Paruta, cit., p. 166.
94 Cfr. ASVe, Senato, Dispacci, Dispacci degli ambasciatori e residenti, Germania, b. 20, f. 139, 7 settembre 1593 e
f. 143, 14 settembre 1593.
95 Un breve riferimento bibliografico sulla persona lo si può trovare in TOMMASO CONTARINI, Relazione di Germania,
in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, Volume III, Germania (1557-1654), LUIGI FIRPO (a cura di), Bottega d’Erasmo, Torino, 1968, p. 572.
dall’ambasciatore la relazione al Governo della Serenissima.
Tommaso Contarini non riuscì a vedere la conclusione della guerra, poiché la morte lo colse a Roma il 4 febbraio 1604, due anni prima della stipulazione della pace di Zsitvatorok.96