Primo tempo: il tempo della destrutturazione. La società costituita è sottoposta ad una disintegrazione assai rapida, nel corso della quale si sviluppa un fenomeno molto interessante: la distinta formazione d'una estrema sinistra e d'una ultra-sinistra.
In effetti, quando la crisi, nella sua iniziale sequenza, s'allarga e si dispiega in un movimento d'estensione e vigore crescenti, la corrente ri-voluzionaria prorompe secondo un'asse che corrisponde a ciò che si può chiamare l'estrema sinistra — una sorta d'ortodossia, di centralità rivo-luzionaria. Ma questa corrente è così impetuosa che non può rimanere unita. Essa si fraziona e permette la formazione d'una corrente d'ultra-sinistra, la cui natura è, all'origine, incerta. Sia che appaia in Francia co-me in Germania, in Olanda coco-me in Italia, essa è talvolta un semplice straripamento, una piena della centrale corrente ortodossa da cui sostan-zialmente non si differenzia; talaltra invece è una forza che cerca di so-stituirsi alla corrente centrale e di espellerla. Perché questa doppia vir-tualità dell'ultra-sinistra? Probabilmente perché essa è il luogo teorico in cui si mescolano le acque dei due grandi fiumi ideologici del xix se-colo rivoluzionario; il marxismo e l'anarchismo. Nella misura in cui l'ul-tra-sinistra ha accolto un apporto marxista, essa è solo un'articolazione dell'ortodossia centrale, nella misura in cui attinge alla corrente anarchica vuol essere invece un'alternativa al leninismo. Essa allora mette di prefe-renza l'accento sul soviettismo: vede nel Soviet il quadro istituzionale più propizio per il dispiegamento dell'iniziativa storica delle masse (con una buona dose d'illusioni, d'altra parte, sulla realtà sovietica del paese dei Soviet).
Come Lenin propone come criterio dell'apparizione di una crisi l'im-portanza che acquistano le masse trascinate nel movimento politico, così la cristallizzazione d'una ultra-sinistra potrebbe essere un buon criterio per valutare lo stadio di sviluppo a cui giunge in ogni paese la crisi sud-detta.
In questo contesto si comprende perché l'ultra-sinistra è caratterizza-ta, secondo i leninisti, da un doppio segno: un segno positivo, poiché essa rivela il grado di maturità della crisi; un segno negativo poiché essa è di per sé stessa un inizio di contestazione dell'egemonia ch'essi vogliono esercitare sull'insieme del movimento rivoluzionario. Come non interpre-tare quindi il riemergere negli anni '60 dell'ultra sinistra, se non come
un segno della fine del periodo semisecolare durante il quale il leninismo ha goduto d'una egemonia incontrastata? In breve, l'ultra-sinistra sa-rebbe l'indice posto all'inizio della sequenza — la svolta degli anni '20 — quando il leninismo non s'era ancora affatto affermato come teoria egemonica, e l'indice posto alla fine della sequenza stessa — la svolta de-gli anni '70 — , quando questa egemonia è rimessa in discussione.
Secondo tempo: il tempo della ristrutturazione, nel corso della quale si effettua nella pratica, in ciascun paese, una selezione che deve conclu-dersi con la vittoria di una delle quattro teorie rivoluzionarie in compe-tizione. Questo tempo di ristrutturazione e di selezione dottrinale spiega perché la crisi degli anni 1919-1920 appaia come una crisi chiusa ed una crisi aperta. Crisi chiusa nel senso che si trattò d'un evento determinato, storicamente datato e limitato, ma anche crisi aperta nel senso che i suoi duraturi effetti hanno trovato una loro acquisizione in seguito: il più importante è precisamente il fatto che il bolscevismo si sia imposto come teoria dominante del movimento rivoluzionario.
La crisi degli anni 1919-1920 non è dunque una crisi modello solo per ciò che ha prodotto nel breve termine, ma anche per i suoi effetti a lungo termine, in particolare la formazione d'un movimento rivoluziona-rio a dominante leninista.
Tale questione del breve e del lungo periodo è stata appassionata-mente discussa nel movimento comunista internazionale, poiché da essa poteva dedursi il tipo di partito che era più proficuo creare in ciascuno dei paesi in cui il comunismo non era ancora al potere. Se, in effetti, la crisi rivoluzionaria aperta dalla guerra doveva finalmente risolversi nel breve periodo in modo rivoluzionario, v'era la necessità d'un partito che avesse, immediatamente, una struttura bolscevica. Se, al contrario, la csi aperta doveva provvisoriamente chiudercsi senza avere per sbocco la ri-voluzione, ma invece la restaurazione, se di conseguenza occorreva mirare alla costruzione d'un partito che fosse in grado d'attendere sino all'aper-tura d'una nuova crisi, sino, insomma, alla prossima congiunall'aper-tura favore-vole, era possibile concedersi delle dilazioni: non che il partito a cui oc-correva giungere fosse sostanzialmente diverso dal partito bolscevico classico, ma si disponeva di qualche margine nel costruirlo. È questa in-certezza centrale tra le due plausibili eventualità del breve e del lungo periodo che dà un senso alla portata reale delle famose 21 condizioni. È avvenuto che le 21 condizioni siano state definite precisamente nel momento specifico in cui non si poteva non essere incerti se l'esito della crisi sarebbe stato a breve od a lungo termine.
La fine della guerra civile in Russia nel febbraio 1920 introduce solo una pausa di breve durata. Dopo la primavera, scoppia la guerra
russo-polacca e per un istante si può credere che essa possa comunicare la fiam-mata rivoluzionaria alla Germania. Aspettativa che si colloca precisamen-te nel mese di luglio, negli sprecisamen-tessi giorni in cui al II Congresso dell'Inprecisamen-ter- dell'Inter-nazionale Comunista sono discusse le 21 condizioni destinate a definire le caratteristiche dei partiti di tipo bolscevico, chiamati ad agire in si-tuazioni rivoluzionarie nel breve periodo. Ma il 15 agosto 1920 l'Armata Rossa è bloccata nella sua marcia verso Varsavia: la crisi va progressiva-mente concludendosi e muore la speranza d'una prossima rivoluzione mondiale.
I I . L E V A R I A B I L I REGIONALI.
1. La scelta del criterio.
Nel quadro della crisi degli anni 1919-1920, vista come una parentesi aperta e chiusa nel corso degli stessi anni, bisogna stabilire una tipologia delle esperienze regionali in funzione della virulenza delle convulsioni che ogni paese ha conosciuto? Compilare ad esempio una lista d'onore sulla base d'una serie gerarchica corrispondente alla scalata delle forme di violenza: agitazioni, manifestazioni di strada, scioperi, moti, colpi di Stato, Comuni, ecc... a cui si fece in effetti ricorso qua e là negli anni 1919-1920?
In verità, una tale variabile non è forse molto utile. Lo è senza dub-bio per lo storico, in quanto gli permette di ritrovare il sapore dell'aned-dotico e del pittoresco e più ancora di esplorare le ricchezze della me-moria collettiva. Infatti queste peripezie, nella misura in cui sono inten-samente vissute, si cristallizzano in una cultura, in una tradizione che favorisce a volte essa stessa i risvegli e le insorgenze ulteriori.
Ma il criterio centrale per operare la differenziazione delle varianti regionali mi pare che sia prima di tutto quello del carattere specificata-mente creatore della crisi, verificato o no a seconda dell'emergenza d'un fenomeno inedito e stabile, il fenomeno comunista, cioè l'innesto nella società politica di una realtà radicalmente nuova ed originale, un partito comunista.
2. L'emergenza del fenomeno comunista.
Su questo punto si possono fare quattro osservazioni:
2.1. La crisi è un momento privilegiato dell'innovazione storica. Nella circostanza, essa ha provocato la nascita della maggior parte dei partiti comunisti europei: non v'è dubbio che il partito comunista spa-gnolo può verosimilmente essere collegato a un'altra crisi — quella de-gli anni trenta.
2.2. Quest'emergenza del fenomeno comunista nel 1920 ha assunto la forma d'un innesto, d'un transfert, dell'adozione, dell'acclimatazione,
della naturalizzazione, in una serie di società nazionali d'un fenomeno ad esse estraneo: il bolscevismo.
2.3. Se l'innesto, cioè il prelevamento d'un modello esotico e lo sforzo fatto per adattarlo ad un altro contesto diverso dal suo originario, è un procedimento classico d'innovazione storica, non è men vero che esso raramente riesce: in un gran numero di casi il rigetto è quasi istan-taneo.
2.4. Il tempo chiuso della crisi, in specie gli anni 1919-1920, non è sufficiente per autorizzare un pronostico definitivo in merito alla possi-bilità di successo dell'operazione d'innesto. L'innesto può certo interve-nire solo al momento e nel quadro della crisi, ma la crisi — come tale — si trova conchiusa ancor prima che si possa prevedere a colpo sicuro se l'innesto potrà prodursi. La seguenza a cui corrisponde un innesto com-piuto è dunque una lunga procedura. L'avvenimento traumatico, interve-nuto puntualmente al momento della crisi, deve prolungarsi nel tempo, svilupparsi secondo la sua logica interna, una logica che per lungo tempo rischia d'essere a sua volta interrotta e spezzata da un secondo e nuovo avvenimento traumatico. L'Italia ne ha fatto esperienza negli anni 1922-1923, quando questo secondo avvenimento — l'ascesa del fascismo — non è riuscito interamente a svellere ed a sradicare il fragile arbusto del comunismo italiano, poiché l'albero s'è ripreso ed è rigermogliato nel 1945. Invece in Germania, o almeno nella sua parte occidentale, il se-condo avvenimento traumatico — l'hitlerismo — ha distrutto ed annien-tato l'innesto che, peraltro, pareva avesse avuto relativamente buon esito nel 1920.
Tale fenomeno d'innesto deve dunque essere studiato sia come avve-nimento puntuale (di qui l'interesse dell'analisi e della ricostruzione del
transfert, della brusca acclimatazione e naturalizzazione della varietà
stra-niera), sia come lungo processo il cui successo non è assicurato che dopo un tempo considerevole di esperimentazione e di coltura.
3. La ricettività differenziale al comunismo.
Sembra sia interessante studiare la crisi degli anni 1919-1920 soprat-tutto sotto questa angolazione: perché i differenti paesi d'Europa hanno manifestato una ineguale ricettività a questo fenomeno esterno, quale era all'inizio il comunismo? In verità nessun fattore appare da sé solo capace di spiegare perché l'innesto ha attecchito in un luogo e non in un altro. Ma questi fattori da combinare, quali sono, e come combinarli?
Non ho la presunzione di risolvere una simile questione: vorrei sol-tanto cercare d'evidenziare quali sono le direzioni in cui si potrebbe la-vorare.
Sei fattori mi sembrano degni d'essere esaminati; quello economico, quello sociale, quello religioso, quello politico, quello storico e quello culturale. Nessuno di essi, astrattamente presentato, ci sorprende. Tutta-via il modo con cui qualcuno di essi potrebbe intervenire nel nostro caso non è affatto scontato.
Per esempio, il fattore economico: è la maturità o è il ritardo econo-mico che costituisce un fattore favorevole alla riuscita dell'innesto? Le opinioni divergono. I marxisti di stretta osservanza tendono, beninteso, a considerare che solo la maturità economica dovrebbe naturalmente fa-vorire il passaggio del capitalismo al socialismo. Ma ciò è meno certo se s'esamina la concreta realtà storica: ci si può domandare se la conversio-ne al comunismo non è stata, dagli anni venti, la ricerca d'una via poli-tica capace di operare un corto circuito nel ritardo economico. Questa non fu certo la spiegazione data da Lenin a quell'epoca, ma è esattamente il contesto in cui la rivoluzione culturale cinese ha prodotto il maoismo come variante indipendente ed originale all'interno della matrice leninista. Il fattore sociale non è certo più scontato dal punto di vista della scelta operativa da compiersi per utilizzarlo ai fini della ricerca: in li-nea di massima, beninteso, il tasso di popolazione operaia dovrebbe costituire un indice soddisfacente delle possibilità d'esplosione d'una rivoluzione proletaria. Ma si sa fin troppo bene che i partiti comu-nisti non sono necessariamente meglio radicati nei paesi ad alta concen-trazione operaia. Tutt'altro: basti pensare al Belgio, a quell'epoca il paese d'Europa in cui la forza numerica della classe operaia era, proporzional-mente alla popolazione, la più grande. Bisogna allora prendere in consi-derazione il fatto che le rivoluzioni comuniste, come s'è detto, furono in-nanzitutto delle rivoluzioni contadine? In realtà, il leninismo è essen-zialmente un « politicismo »: le rivoluzioni ed i partiti di tipo leninista hanno in grande considerazione la componente sociale, ma essa è intesa ed affrontata come componente ambigua, nella misura in cui non si deb-bono confondere due concetti distinti: il concetto di partito della classe operaia ed il concetto di partito operaio. Per avventura, accidente, o caso supplementare, essi possono essere anche dei partiti operai, caratteristica
che favorisce il loro radicamento ma non la loro formazione in quanto partiti comunisti.
Il fattore religioso: si è molto discusso sul fatto che i più forti par-titi comunisti dell'Europa occidentale si trovino in paesi cattolici come la Francia e l'Italia. Ma che dire del Belgio, dell'Austria e della
nia cattolica? Ciò non induce, certo, a rifiutare il parallelismo che si può proporre tra i problemi dell'organizzazione, della burocrazia, dell'orto-dossia, della centralità cattolica ecc., ed i corrispondenti problemi comu-nisti. Sono parallelismi suggestivi: ma ci permettono di decidere in modo perentorio che è il fattore religioso quello che ha determinato — in ul-tima analisi — il successo o meno del bolscevismo in questo o quel paese d'Europa?
Si può ancora pensare a fattori certo più complessi e più raffinati: come il fattore storico ed il fattore culturale. Se si considera che vi sono state nella storia europea di questi ultimi secoli tre grandi sequenze che hanno proposto la conversione ad un modello di vaste ambizioni e l'adozione e l'assimilazione di questo: la Riforma, l'Illuminismo, ed il Comunismo, perché non ammettere che il fatto d'aver vissuto — e vissuto in una specifica concreta maniera — o di non aver vissuto — poi-ché la mancanza, il vuoto può essere importante quanto il pieno — que-sti tre momenti può contribuire a spiegare il rifiuto o meno del fenomeno comunista? Infine, e sarò infinitamente più prudente e riservata per quanto riguarda il modo in cui bisogna proporre quest'ultimo fattore: non è forse legittimo riflettere su un fattore culturale, per spiegare il quale vorrei fare appello ad un concetto d'origine estetica, ma che travalica di gran lunga il campo dell'estetica e che si potrebbe naturalizzare nel cam-po della cam-politica: il concetto (e la spaccatura) di classico e di barocco? Il comunismo non potrebbe forse essere un fenomeno meglio adattatosi al-l'Europa classica che alal-l'Europa barocca: non è forse meno la divisione tra Europa protestante ed Europa cattolica quanto piuttosto quella tra Europa classica ed Europa barocca che delinea la pertinente frontiera da un lato della quale il comunismo fu adottato e dall'altro della quale ri-gettato?
E tutto è singolarmente complicato dal fatto che il comunismo ha po-tuto ulteriormente installarsi al potere in molti altri luoghi in cui non era il prodotto d'una interna iniziativa.
Queste sono le questioni un po' astratte, un po' teoriche che io vo-levo proporre alla vostra riflessione: forse in esse v'è un approccio che permette di rinnovare la nostra informazione e d'andare più a fondo nello studio d'un problema così globale e complesso quale il comunista nel xx secolo.
RIVOLUZIONE E CONSERVAZIONE NELLA CRISI DEL 1919-1920
1. Il tema che mi è stato assegnato è quello della « crisi rivoluziona-ria » negli anni 1919-1920.
Si tratta di un tema complesso; e non mi sembra qui il caso di affron-tarlo richiamando una serie di fatti nelle loro linee generali assai noti, e che comunque non riuscirebbe neppure possibile richiamare in modo sistematico. Quel che piuttosto interessa fare è riproporre alcuni elementi di interpretazione, certo senza pretendere di arrivare ad una interpreta-zione soddisfacente intorno ad un periodo storico che suscitò le più aspre polemiche quando le vicende si svolsero e che ancor oggi presenta pro-blemi più che mai aperti.
La questione centrale può essere espressa nei seguenti termini: in che senso la crisi del 1919-1920 fu una crisi « rivoluzionaria »? Il che rimanda necessariamente ad un'altra questione: quali sono le condizioni e i fattori costitutivi di una crisi rivoluzionaria? E infine: la crisi di que-gli anni può essere in ultima analisi definita « rivoluzionaria » dal mo-mento che essa si concluse in tutta l'Europa occidentale con la disfatta
del progetto rivoluzionario?
Domandiamoci ancora: perché gli anni 1919-1920, che hanno visto maturare, nel corso delle acute lotte politiche e sociali che li occuparono, germi potenti di controrivoluzione, vengono definiti, e non solo nella memoria, nella pubblicistica e nella storiografia comuniste, come gli anni della « crisi rivoluzionaria »?
La risposta a quest'ultimo interrogativo è semplice: si è giunti a par-lare di crisi rivoluzionaria in quanto la lotta di classe scoppiata nell'Eu-ropa occidentale dopo la fine della guerra mondiale venne in gran parte considerata quale uno sviluppo della rivoluzione russa del 1917. I bol-scevichi russi e i socialisti rivoluzionari dell'Europa occidentale da un
lato, le forze contrarie alla rivoluzione sociale dall'altro, considerarono la crisi sociale in relazione al problema del successo o dell'insuccesso del-la « estensione » deldel-la rivoluzione daldel-la Russia al resto dell'Europa e del mondo. Sicché dire crisi « rivoluzionaria » significava dire che veniva posta sul tappeto la questione del congiungimento dell'Occidente europeo (lasciamo da parte il resto del mondo) alla rivoluzione russa. I bolscevi-chi e i rivoluzionari occidentali che ad essi si collegavano parlarono poi di crisi rivoluzionaria in un significato ancor più ristretto: essi erano in-fatti convinti che la crisi sociale in cui si dibatteva l'Europa rendesse sia
possibile sia persino inevitabile la rivoluzione, considerata come l'unica
soluzione per far fronte alla catastrofe in cui il capitalismo imperialistico con la guerra mondiale aveva gettato la società. A loro avviso la volontà rivoluzionaria delle avanguardie del proletariato e la pesante crisi che aveva investito il tessuto sociale si saldavano nel conferire alla crisi una natura rivoluzionaria.
E i comunisti continuarono a ritenere, anche dopo la sconfitta della rivoluzione, che la crisi fosse stata « rivoluzionaria », nella convinzione che quel che era « possibile » non diventò « reale » per la mancata salda-tura dell'elemento « oggettivo » con un elemento « soggettivo » adegua-to, e cioè, in termini politici, anzitutto per il sabotaggio e il « tradimen-to » messi in opera dai vertici della socialdemocrazia, massimi responsa-bili quindi della ripresa capitalistica e dell'isolamento della rivoluzione russa.
Detto questo, diventa indispensabile soffermarci sulle condizioni di una « crisi rivoluzionaria ». E credo che l'approccio più fecondo sia di farlo partendo dall'analisi delle condizioni stabilite da Lenin, colui che diresse la strategia dell'ondata rivoluzionaria. Una analisi complessa, quanto mai concreta. Quali conclusioni si possono tirare applicando que-sta analisi alle condizioni dell'Europa occidentale durante la crisi del 1919-1920?
2. È ben noto come Lenin fosse convinto che la crisi aperta dalla guerra si sarebbe conclusa con la vittoria della rivoluzione non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti. È significativo che egli citasse, a più riprese, una affermazione di Engels del 1887 secondo la quale una guerra europea o mondiale avrebbe con le sue devastazioni creato una situa-zione tale che solo il socialismo avrebbe potuto risolvere ima crisi di « sistema ». Prendiamo uno di questi riferimenti a Engels del giugno 1918: «Mi viene in mente [...] come avesse ragione uno dei grandi fondatori del socialismo scientifico, Engels, quando nel 1887 scriveva che una guerra europea avrebbe non solo fatto volar via le corone, come
egli diceva, da dozzine di teste coronate e che nessuno le avrebbe potuto raccogliere, ma che questa guerra avrebbe portato con sé un inaudito ri-torno alla barbarie, un imbarbarimento e un arretramento di tutta l'Eu-ropa, perché insieme avrebbe portato con sé o il dominio della classe operaia o la creazione di condizioni che avrebbero reso questo dominio indispensabile » l.
Il fondamento strutturale della crisi capitalistica Lenin l'aveva chia-ramente indicato ne L'imperialismo come fase suprema del capitalismo,
dov'egli aveva contrapposto il bisogno di sviluppo armonico delle forze produttive alla guerra mondiale e al saccheggio delle risorse ad opera del