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I L RITRATTO DI O MERO

Nel documento Le parole del racconto dopo Boccaccio (pagine 35-47)

La scritta «Homero poeta sovrano» vergata in caratteri maiuscoli epigra- fici nel margine superiore di c. 267v, ultima carta del codice, esplicita l’identità del mezzobusto maschile di impianto monumentale «declinato in forme […] che ricordano i ritratti degli imperatori nelle monete ro- mane»,80 raffigurato con grande maestria subito sotto. Un’altra scritta ver- gata nel margine inferiore, simmetrica alla prima, ma in caratteri greci, magicamente restituita dalla perizia paleografica di Stefano Martinelli Tempesta e Marco Petoletti, svela l’identità dell’autore del disegno: «se volta in alfabeto latino, la scritta si presenta nella forma “Ioannes de Cer- taldo p[inx]it”».81 Lo stato di conservazione degli elementi che compon- gono questo vero e proprio sistema di parole e immagine è identico: come è stato osservato, ciò «suggerisce chiaramente che l’insieme dei tre elementi sia stato realizzato in contemporanea» oltre che «da un’unica mano».82 Si può aggiungere che la presenza della scritta in caratteri greci impone una datazione a partire dall’estate 1360, coerente con la datazione su base paleografica della scritta in volgare, per la quale Marco Cursi ha proposto «una datazione posteriore alla fine degli anni ’50».83

79 Per quanto riguarda il ritratto, si è discusso dell’attribuzione a Boccaccio, a causa della qualità eccezionale del disegno, che ha spinto Pasut 2015, ad esempio, a riferire l’opera piuttosto a un artista professionista, come Giovanni da Milano. La firma in ca- ratteri greci mi pare chiuda il dibattito in modo definitivo, anche se, nella prospettiva qui assunta, il nome dell’esecutore materiale del disegno non è dato essenziale.

80 Martinelli–Petoletti 2013: 406. 81 Ibi: 401.

82 Bertelli–Cursi 2014a: 175 e Berté–Cursi 2015: 260-61.

83 In BertelliCursi 2014a: 172, con ricco corredo documentario. Bertelli 2015: 176 suggerisce una diversa datazione («circa un ventennio prima» delle Esposizioni: ergo at- torno a metà anni Cinquanta), che contrasta però con la presenza in questa carta della firma in caratteri greci e l’asserita contemporaneità delle due scritte e del disegno, oltre

Quanto si è fin qui visto conforta a credere che solo durante o dopo il suo personale “attraversamento” delle opere di Omero, e la sua attenta lettura degli autografi di Leonzio, Boccaccio abbia recuperato il verso dantesco per costruire, in chiusura non di un codice qualsiasi, ma proprio del “suo” Dante Toledano – la prima silloge delle opere dell’Alighieri da lui composta e, a quest’altezza cronologica, verisimilmente ancora l’unica –un sistema grafico visivo in grado di esprimere in estrema sintesi quelli che sono per lui, nei primissimi anni Sessanta, gli acquisti piú significativi sul piano culturale e ideologico: l’Omero ricondotto in Occidente grazie a lui; il greco, sconosciuto anche a Petrarca; e ancora e sempre, Dante.

La sede prescelta per «manifestare il proprio legame con Omero di- segnandone il busto»84 è tutt’altro che neutra per chi, si è visto, a lungo aveva rifiutato di far proprio il giudizio espresso da Dante sul poeta greco. Il raffinato sistema di parole e immagine apposto in chiusura della silloge dantesca vale in qualche modo come una definitiva resa al giudizio dell’Alighieri e un indiretto, implicito riconoscimento della grandezza di lui,85 ma anche, al tempo stesso, come un’autocelebrazione, non troppo diversa da quella affidata, apertis verbis, alla pagina della Genealogia in cui, si è visto, appassionatamente il Certaldese rivendica il ruolo da lui svolto per il ritorno di Omero e della cultura greca in occidente. Importante in tal senso è la scelta di firmare quel ritratto usando quei caratteri greci che, in questi medesimi anni, gli consentivano di nutrire con le parole stesse di Omero l’impresa piú alta del suo laboratorio intellettuale: i quindici libri del suo trattato mitologico.

Un’ultima osservazione. Se la decrittazione della firma conferma, mi pare, l’autorialità del progetto qui realizzato, imponendo di «spostare il nome di Boccaccio dalla costellazione anodina degli amateurs […] al cata- logo ufficiale dei grandi disegnatori del Trecento» vista l’altissima qualità

a non essere pianamente conciliabile, vista la posizione occupata dal ritratto all’interno del Dante Toledano, con la datazione da lui avanzata per il medesimo codice: «fine del sesto o inizi del settimo decennio» del XIV secolo (Bertelli 2013: 266).

84 Fumagalli 2013a: 258.

85 Seppur certo questa dimensione sia presente, pare difficile sottoscrivere l’idea che l’assieme vada letto come una celebrazione di «Dante nuovo poeta sovrano», come si suggerisce in Berté–Cursi 2015: 262. Per una diversa interpretazione vd. le conside- razioni che seguono.

dell’opera,86 restano i dubbi già espressi in piú sedi a proposito della vera identità di colui che è qui ritratto.

Diverse ragioni rendono infatti problematico assumere come ritratto dell’antico poeta greco l’«aulico»87 mezzobusto coronato d’alloro qui rap- presentato di profilo: d’immediata evidenza il fatto che il rappresentato non è vecchio, cieco, stempiato e con piú o meno folta barba come vuole l’iconografia tradizionale88 e come lo stesso Boccaccio si preoccuperà di ricordare nelle sue Esposizioni.89 Impossibile ricondurre il dato a una pre- sunta incompetenza di Boccaccio se la firma in caratteri greci impone di credere che l’assieme sia stato ideato e realizzato da Boccaccio solo dopo essere entrato in contatto con Leonzio e avere acquisito sotto la sua guida una certa abilità nella gestione dell’alfabeto greco. D’altra parte il volto del rappresentato ha «tratti fisionomici affatto regolari e idealizzati», che impediscono di credere che si tratti di un ritratto di fantasia: il ritratto di un Omero, per cosí dire, ideale e “idealizzato”.90 «La lieve pinguedine che appesantisce il contorno del mento, la bocca minuscola e un poco sfug- gente, il gonfiore della palpebra sotto l’occhio» 91 paiono dipendere, piut- tosto, dalla volontà di rappresentare “realisticamente” tratti caratteriz- zanti un volto ben preciso: offrire un ritratto «intensamente veridico». Cosí non è mancato, nella ricca messe di studi dedicati all’enigmatico ri- tratto allogato in coda al Dante Toledano, chi ha osservato che quest’«uomo di mezza età, piuttosto pingue, e dalla fisionomia vigorosa- mente caratterizzata»92 assomiglia molto ai ritratti noti di Boccaccio: cosí

86 Martinelli–Petoletti 2013: 40. Registra ancora dubbi Pasut 2015. 87 Cosí ibi: 181.

88 Vendruscolo 2015: 154, n. 5 ricorda come «l’iconografia tradizionale» di Omero sia «attestata letterariamente anche nell’Africa di Petrarca, IX 167-169» e offre un’ampia recensione bibliografica per la rappresentazione antica e medievale di lui.

89 In Esp. IV 1 97 Boccaccio ricorda che Omero, «cieco e povero», compose «tre- dici opere e tutte in istilo eroico» e ibi, § 101, cosí lo descrive: «fu di piccola statura, con poca barba e pochi capelli; di mansueto animo e d’onesta vita e di poche parole».

90 Che si tratti invece proprio di «mero ritratto di fantasia […] ispirato dal verso dantesco», nella totale ignoranza della tradizione cui Boccaccio avrebbe avuto accesso solo «in seguito, forse grazie all’incontro con LeonzioPilato», ritiene Sandro Bertelli (in vari saggi, la cit. da Bertelli 2015: 176). Ma su questa datazione, e le implicazioni critiche, vd. le considerazioni già esposte.

91 Pasut 2015: 180, da cui anche la citazione che precede. Quella che segue da p. 182.

Maddalena Signorini in un incontro all’Accademia dei Lincei nel dicem- bre del 2015 e cosí Fabio Vendruscolo in un saggio del medesimo 2015. Forse, paradossalmente, nel progetto di Boccaccio, le due identità non si escludono. Forse l’affinità grafico-visiva evocata dall’esatta corrispon- denza tra le due scritte e dall’apparente identità delle due lettere incipitarie di entrambe (HOMERO/ΗΟαννEc), determinata dall’«utilizzo di eta» maiuscolo «in luogo di iota per la traslitterazione di i»93, la lettera incipita- ria del nome proprio di colui che firma, e dall’«utilizzo di omicron» al posto di omega per la seconda lettera di quel nome (utilizzo che contraddice la

ratio sottesa all’intera operazione, ovvero «evitare il piú possibile la so-

vrapposizione con i segni dell’alfabeto latino»), per un amatore di criptici giochi verbali come Boccaccio è tutt’altro che casuale, ed entra a pieno titolo in un complesso, anch’esso criptico, gioco di travestimenti che in- veste, e travolge, le identità dei due personaggi implicati, l’antico poeta coronato d’alloro e il suo lettore (e “mediatore”) moderno: un altro “poeta”.

93 Martinelli–Petoletti 2013: 402 (da cui anche le citazioni che seguono) ha già da parte sua avanzato il sospetto che nella scelta di omicron si possa leggere «l’intenzione da parte di Boccaccio di richiamare graficamente l’incipit dell’altra “epigrafe”». Vendruscolo 2015: 155, invece, ritenendo «un fatto filologicamente un po’ allarmante che la scritta soprastante e quella sottostante al disegno inizino con due identici segni grafici “HO”, anche se relativi ad alfabeti diversi e con differente valore fonetico» avanza l’ipotesi che l’epigrafe dantesca sia stata aggiunta nel margine superiore della carta da una mano piú tarda che imiterebbe la scrittura del codice al fine di «riprodurre la scritta sottostante al disegno quando questa era già in via di sparizione e se ne leggeva ormai solo l’“HO” iniziale». Una siffatta ricostruzione necessiterebbe di una discussione puntuale delle ana- lisi grazie alle quali Cursi 2013a: 75 scrive: «in definitiva si può affermare con assoluta certezza che la didascalia posta in testa all’immagine di Omero sia autografa». La messa in discussione dell’autografia di questa scritta comporta, nella ricostruzione avanzata da Vendruscolo, la possibilità di immaginare, per il ritratto stesso, modifiche del “profilo” di lui operate da artisti di pieno Cinquecento gravitanti attorno al dantista Luca Martini, che avrebbero “trasformato” un anonimo ritratto di poeta disegnato da Boccaccio in un ritratto di Boccaccio: le tracce grafiche di siffatti interventi (in particolare «la ripas- satura del profilo del poeta») sarebbero in buona parte coincidenti con quelle segnalate in Bertelli–Cursi 2014: 178 (da cui la cit. precedente) e qui ricondotte all’uso di strumenti scrittori diversi. Aggiungo che pensare a due interventi di modifica dell’esistente distinti e tra loro irrelati per giustificare l’apparente “stranezza” di un ritratto di Omero co- struito mimando le fattezze di colui che quel ritratto ha disegnato risulta decisamente antieconomico, oltre che, in buona sostanza, non verificabile.

Il sospetto, che qui avanzo come ipotesi, è che questa effigie sia l’en- nesima, raffinatissima “maschera”inventata da quel Giovanni Boccaccio che nella lettera napoletana era riuscito a rappresentare se stesso nella doppia maschera dell’irridente scugnizzo napoletano nato a Parigi e del dotto abate dedito agli studi, e nel corso degli anni aveva sperimentato varie modalità di auto-rappresentazione «in persona d’altri» inventando di continuo nuove controfigure.94 Quest’irrefrenabile tendenza a creare per sé maschere e doppi non è stata dismessa dal Boccaccio degli anni sessanta, se giusto poco prima dell’ottobre di quell’anno egli ha potuto mandare a Petrarca «sub Homeri poete […] nomine» l’«epystulam ma- gnam multaque continentem et apud inferos datam», piena di dati, sug- gestioni e problemi legati ai lavori in corso a Firenze, nello studio del Certaldese, cui l’Aretino risponde con la sua Familiare XXIV 12.

A gettare luce su quest’ennesima trouvaille dell’inesausto inventore di storie Giovanni Boccaccio potrebbero contribuire le sue competenze di lettore di testi antichi e moderni. Una prima suggestione (o giustifica- zione) egli potrebbe aver trovato nell’auto-identificazione di Ennio con Omero,95 di cui il Certaldese aveva notizia fin dagli anni 1339-1340 grazie all’ironica evocazione dell’autore degli Annales come «Maeonides Quin- tus» affidata alla sesta satira di Persio trascritta giusto in quegli anni nel suo Zibaldone laurenziano insieme con le altre cinque e il relativo appa- rato di glosse di tradizione, da una delle quali, in particolare, registrata a c. 4r a margine di Prologus 2 e chiusa entro una sorta di anfora, egli poteva apprendere che Ennio «dixit vidisse somnium in Parnaso Omerum sibi dicentem quod sua anima in suo esset corpore».96 Un’altra suggestione potrebbe essergli venuta proprio da Petrarca, se da lettore precoce dell’Africa97 e da frequentatore assiduo dello studio di lui, oltre che da suo

94 Battaglia Ricci 2003.

95 Devo agli allievi e ai perfezionandi della Scuola Normale Superiore di Pisa che nel gennaio/febbraio 2017 hanno partecipato al seminario “Carte che ridono” l’input primo a prendere in considerazione questo modello classico. A loro il mio ringrazia- mento.

96 Persio, Satira VI 10-11: «Cor iubet hoc, Enni, postquam destertuit esse / Maeo- nides Quintus pavone ex Pytagoreo». La datazione delle carte implicate (ms. Laur. Plu- teo 33. 31 cc. 4r-16v) è fissata da Teresa de Robertis in Boccaccio autore e copista 2013: 333. In Berté–Fiorilla 2014: 59 una riflessione su questi testi in rapporto al sogno della madre di Dante registrato nel Trattatello.

interlocutore privilegiato su fatti e problemi connessi all’“affare Leon- zio”, Boccaccio ha potuto cogliere il raffinato gioco di specchi tra Omero, Ennio e Petrarca attivato nel nono libro di quel celebrato poema, nonché l’auto-identificazione dello stesso Petrarca con Virgilio affidata, ancora in quel libro dell’Africa, all’invenzione per cui il poeta moderno – destinato a cantare le gesta di Scipione – è rappresentato seduto, pensoso, tra allori,98 mimando, per cosí dire, la celeberrima immagine di Virgilio miniata da Simone Martini, per volontà dello stesso Petrarca, nel fronte- spizio del suo Virgilio Ambrosiano. Al tempo stesso che propone un Pe- trarca “ritratto” come Virgilio (se non anche, come vuole Giuliana Cre- vatin, un Petrarca-Omero),99 l’ultimo libro dell’Africa evoca per Omero veri e propri “doppi” e sfruttando la fictio della visio notturna, costruisce ponti tra la “realtà” del visionario Ennio e quell’Aldilà da cui Omero di- chiara espressamente di essere venuto (e da cui è forte il sospetto possa derivare l’invenzione che vuole «datam apud inferos» la perduta epistola inviata a Petrarca «sub Homeri poete […] nomine»). Per quanto riguarda i ritratti: è un “vecchio coperto da radi lembi di toga, con la barba squal- lida, mista di peli bianchi”, nelle cui “orbite non erano occhi” e la cui “fronte vuota spirava orrore e insieme negletta maestà”,100 l’Omero che, “lasciato il carcere di Dite”, appare in visione a Ennio (vv. 166-170); ma è ben diversa, per esplicita dichiarazione dello stesso Ennio, l’immagine mentale che questi dice di aver costruito nella sua fantasia per avere una qualche “reale” relazione con l’antico poeta.101 Degno di notache nel suo “finto immaginare” Ennio escluda in particolare proprio la cecità di Omero e “nel suo animo innamorato” immagini che egli avesse “uno sguardo di lince”, “una forza immensa” negli occhi (vv. 185-189).

L’assieme di questi fatti potrebbe in qualche modo aiutarci a decrit- tare l’affascinante enigma rappresentato da un asserito ritratto d’Omero costruito utilizzando come modello di riferimento tratti propri del volto di Giovanni Boccaccio e allogato in coda a un codice il cui lo stesso Boc- caccio ha trascritto, per sé, il “suo” Dante.

98 Africa IX 216-19. 99 Crevatin 2000: 144.

100 Cito il testo latino nella traduzione di Guido Martellotti in Petrarca (Neri et alii): 700.

101 Africa IX 151: «presentemque animo ficta sub imagine feci» (cosí Ennio a Sci- pione).

Se, come ricorda Petrarca proprio nella sua risposta allo pseudo- Omero per giustificare il fatto che Virgilio non ha citato l’antico cantore come suo modello per la scrittura dell’Eneide, il luogo piú alto e nobile di un’opera, dove “celebrare e portare alle stelle” chi si ritiene degno della massima lode, è alla fine dell’opera stessa,102 l’inserimento di quel ritratto e di quelle scritte in quella carta del Dante Toledano perfettamente (e cripticamente) illustra e documenta quelle che negli anni sessanta dove- vano essere le piú profonde e personali convinzioni dello scrittore Gio- vanni Boccaccio, ovvero l’assoluto primato di Omero tra gli antichi e di Dante tra i moderni, e al tempo stesso il proprio straordinario primato, ovvero il ruolo da lui svolto per “ri-portare” in vita colui che fu «il piú solenne poeta che avesse Grecia» e che, per essere stato modello di poesia perfino per lo stesso, grandissimo, Virgilio, «meritatamente» Dante ha potuto chiamare «poeta sovrano» (Esp. IV 1 108-109).

Ancora una volta, insomma, e mediante altri segni, nel tempo stesso che segna le distanze che oppongono lui a Petrarca e questa carta finale del Dante Toledano al frontespizio del Virgilio Ambrosiano: «nonne ego fui qui…?».103

Lucia Battaglia Ricci (Università di Pisa)

102 Familiare XXIV 12: 24.

103 Nelle more della stampa, sono usciti due articoli che affrontano in parte temi qui affrontati, con conclusioni in alcuni casi simili, in altre parzialmente diverse. Non potendo qui darne partitamente conto, mi limito a ricordarli: Fera 2016 e Petoletti 2016.

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