La domanda che ci si pone nell’ambito dei robot assistivi è: sono dei validi motivatori? Svolgono effettivamente il compito richiesto?
La motivazione è un aspetto fondamentale nell’approccio ad una terapia o ad un particolare task. Vi sono due tipi di motivazione, quella intrinseca e quella estrinseca. Quella intrinseca viene da una persona, mentre quelle estrinseca viene da una fonte esterna. Tuttavia quella intrinseca può essere influenzata da fattori esterni come ad esempio dei feedback tattili o vocali.
Ad esempio un feedback vocale positivo stimola positivamente la motivazione intrinseca dell’utente, tuttavia se quest’ultimo impara ad eseguire il task lo stesso feedback non ha più nessun effetto sulla motivazione.
61 Questo da un ruolo fondamentale al motivatore che generalmente è costituito da un terapista, che oltre a monitorare la risposta al task, lo modifica in base alle necessità del paziente. In questa tesi si propone l’utilizzo di robot sociali come motivatori, non in sostituzione del terapista, ma come complemento. Tuttavia l’utilizzo di robot umanoidi in terapia è fonte di domande.
L’argomento nell’ultima decade è stato molto discusso, in quanto si è visto uno sviluppo, grazie alle nuove tecniche per l ‘intelligenza artificiale (come il deep learning), significativo da parte dei robot e un incremento massimo delle ricerche a tal fine. Ad esempio Fasola e Mataric (2010) hanno descritto l’implementazione di un robot sociale in grado di monitorare le performance di utenti universitari combinando task fisici e task cognitivi allo scopo di migliorare le performance sui task richiesti.
Vi sono molti fattori tuttavia che contribuiscono alla creazione di un rapporto, fattori descritti da Bickmore e Picard (2005) in relazione al rapporto umano – computer, dettagli che si possono applicare anche all’interazione umano – robot.
Questi includono caratteristiche come l’empatia, l’umorismo, la fiducia, la gentilezza, la conoscenza reciproca. Su questi caratteri poniamo molta importanza per la costruzione di relazioni e conseguentemente hanno un uguale valenza per costruire un’interazione credibile umano – robot.
Eliminare la ripetitività nelle istruzioni o nelle risposte del robot diventa fondamentale per far si che l’utente non percepisce quest’ultimo come ripetitivo, prevedibile e poco credibile, questo può portare ad una diminuzione della percezione, da parte dell’utente dell’intelligenza del robot, tuttavia poiché il campo d’uso, nel nostro specifico, è rapportato con soggetti affetti da disturbo del neuro sviluppo, la ripetitività e la prevedibilità possono essere dei fattori che giocano un ruolo importante nello sviluppo del
task, tuttavia la ripetitività come precedentemente detto può portare ad una perdita di
credibilità e il bilanciamento tra questi fattori diventa quindi fondamentale.
Indagare sui principi di progettazione per un’interazione a lungo-termine diventa un must per costruire relazioni importanti, poiché i bambini che necessitano di attenzioni particolare possono potenzialmente beneficiare di un sostegno sotto forma di robot, purché questo diventi un loro “amico” e instauri con loro un rapporto di fiducia, come ad esempio
62 è stato svolto da Jansen et al (2011) nel progetto Aliz-e, dove è stato introdotto il robot come caregiver, nel caso di bambini diabetici che dovevano passare una settimana in ospedale e quindi lontano da casa.
Robben (2011) ha eseguito una ricerca sul ruolo di amico o “buddy” del robot. Una parte essenziale dell’interazione tra bambino e il robot è il “bonding”. Per bonding ci si riferisce alla creazione di una sensazione di amicizia e fiducia tra il bambino e il robot. Mentre il bambino gioca con il robot, quest’ultimo tramite il conteggio del numero di sorrisi cercherà di capire se il bambino sta passando del tempo piacevole. Il robot tuttavia va adattato sul carattere del bambino. Nello specifico il robot si deve adattare al livello di introversione o estroversione mostrato dal bambino.
Gli indicatori per l’introversione o estroversione sono il contatto visivo, il livello di energia o la velocità di movimento. Il riconoscimento del volto viene utilizzato per stabilire se il bambino ama giocare. Il robot in base a questi parametri deve adattare il dialogo e modula la propria personalità, come ad es la velocità e il contenuto dello
speaking e la velocità di movimento, per adattarsi al bambino con il quale interagisce. La
ragione che sta alla base di questa ricerca è che i bambini si legano meglio con il robot quando questo presenta caratteristiche caratteriali simili. Questo fenomeno è noto come ‘similarity attraction’. Fasola e Mataric (2010) indicano varie variabili che contribuiscono alla motivazione intrinseca: la competizione, la gratificazione, il feedback in tempo reale delle prestazioni, l’efficacia e la determinazione. Vallerand et al (1986) descrivono diverse variabili che invece riducono la motivazione intrinseca e dovrebbero pertanto essere evitate. Tra queste variabili si annoverano: ricompense materiali, sorveglianza, scadenze, mancanza di autodeterminazione e feedback negativi sulle prestazioni. La sfida ottimale è un fattore che dobbiamo tenere più in considerazione: quando un’attività è troppo facile, l’utente si annoierà mentre se un task è troppo difficile l’utente diventerà frustrato o ansioso. Andrade e Corruble (2005) descrivono questo fenomeno come “game
balancing”. Questo bilanciamento consiste nel cambiare parametri, scenari e
comportamenti per evitare il caso estremo del giocatore che diventa frustrato perché il compito assegnato è troppo difficile o che si annoi perché il task è troppo semplice.
63 Le ricerche sul ruolo educativo del robot allo stato dell’arte sono infatti ancora in via di sviluppo. Jansen et al (2012; 2013) hanno investigato se la motivazione intrinseca nello svolgere un gioco cresce con un robot adattivo alla performance rispetto ad un robot che non è adattivo.
Un aspetto rivelatosi particolarmente importante in questa ricerca è stato l’adattività nei dialoghi. I dialoghi sociali includono cose come i saluti, gli argomenti di tipo generale come il tempo (argomento particolarmente gradito agli inglesi) o come scambiarsi preferenze personali (Higashinaka et al, 2008). La self-disclosure e l’empatia sono riconosciuti come fattori che contribuiscono notevolmente alla conversazione (Altman. and Taylor, 1973). Questo effetto è più forte se viene utilizzato un robot umanoide rispetto ad un agente virtuale. Ci sono svariati fattori, come precedentemente detto, che influenzano una conversazione, ma se un robot mostra empatia, self-disclosure ed
embodiment fisico si ha un buon punto di partenza per una valutazione formativa e questi
aspetti possono essere integrati facilmente nel dialogo e nel comportamento di un robot. Nello specifico svariati studi hanno mostrato che la self-disclosure ha un ruolo centrale nello sviluppo delle relazioni (Collins e Miller, 1994; Laurenceau, 1998). La self-
disclosure è definita come “la condivisione di informazione con altri che normalmente
non sapevano o non scopriranno”. Quando qualcuno si impegna in questa condivisione si pretende implicitamente che anche l’altro partner di conversazione divulghi informazioni (norma di reciprocità). Quest’effetto di condivisione tuttavia dipende dalla simpatia che si prova per una persona. Le persone che si impegnano in informazioni intime tendono ad essere più gradite ed affidabili di quelle che invece rivelano informazioni meno personali o più superficiali. Le persone tendono a preferire i robot quando si rivelano informazioni affettive e non relative ai task in attività collaborative (Siino, 2008). La self-disclosure reciproca tra il bambino ed il robot può contribuire alla profondità e alla qualità della loro relazione.
Un altro ruolo chiave nelle terapie incentrare sul paziente è l’empatia perché implica l’apprendimento del mondo intimo dell’altro e la comprensione comune delle emozioni (Tapus e Mataric, 2007). Una delle definizioni più complete dell’empatia è la seguente: “La capacità di assumere il ruolo dell’altro, di adottare prospettive alternative a se stessi
64 e di comprendere le reazioni emotive degli altri in relazione al contesto fino al punto di eseguire movimenti corporei simili a quelli altrui”. I robot per ovvi motivi non possono sentire empatia ma la possono emulare nel loro comportamento come ad esempio mostrando preoccupazione o esprimendo sentimenti negativi in risposta ad un malessere altrui. Un’ultima caratteristica in grado di influenzare un dialogo é l’embodiment. I robot sociali non necessitano obbligatoriamente di un corpo fisico per interagire con i propri utenti, poiché un dialogo può essere eseguito anche da un avatar virtuale 3D ma avere una forma fisica offre vantaggi sostanziali poiché un robot “fisico” è più attraente e percepibile dal mondo esterno e l’impressione dei partecipanti è notevolmente influenzata dalla presenza fisica. Wainer et al (2007) hanno condotto uno studio utilizzando un robot- allenatore dedicato agli anziani e i partecipanti hanno fortemente preferito un robot fisicamente incarnato rispetto a quello simulato, è stato inoltre osservato che il robot fisico ha incontrato un maggior grado di impegno da parte degli utenti (Deshmukh, 2012). È stato anche dimostrato che l’effetto di avere un corpo fisico è stato prevalente anche quando il robot è stato mostrato in remoto tramite telecamera. La presenza sociale di un robot fisico remoto è stata quasi identica ad un robot fisicamente vicino all’utente (Powers et al, 2007). Il tutto dimostra la differenza positiva che l’embodiment ha sulla relazione sociale.
Nel progetto Aurora è stato investigato l’uso potenziale del robot come terapeuta o “gioco educativo” con un focus particolare ai bimbi affetti da sindrome autistica.
In accordo con la National Autistic Society nei soggetti affetti da ASD sono compromesse l’interazione sociale, la comunicazione sociale e l’immaginazione (Wing, 1996).
Inoltre, le persone affette da autismo mostrano uno scarso contatto oculare e raramente si lasciano coinvolgere in giochi interattivi. Un dato statistico significativo indica che i soggetti affetti da autismo sono in prevalenza uomini.
L’idea di utilizzare un robot in terapia nasce dal fatto che i soggetti affetti da ASD si sentono più a loro agio in ambienti ben definitivi e con comportamenti prevedibili. Murray (1997) ha affermato che le persone con autismo tendono a fissare lo sguardo su oggetti isolati dall’area circostante. I computer, secondo la tesi di Murray, possono irrompere in questo mondo mettendo il focus dell’attenzione sullo schermo, permettendo
65 in tal modo all’utente di ignorare eventi esterni. Murray argomenta che i computer durante l’educazione e la terapia possono essere un beneficio per l’autoconsapevolezza e l’autostima. Inoltre sono in grado di motivare un individuo a parlare, leggere o condividere informazioni. Hershkowitz (2000) ha fortemente argomentato l’uso dei computer nell’insegnare il linguaggio e capacità scolastiche nei bambini con autismo (Howlin et al., 1999).
Il dialogo non è l’unica componente dell’interazione, questa comprende anche il linguaggio del corpo o la gestualità e molti di questi sono espressi in maniera subconscia. L’evoluzione umana e il nostro sviluppo hanno sintonizzato il nostro sistema cognitivo e percettivo a captare una moltitudine di segnali sociali.
Differentemente da come noi interagiamo con gli oggetti fisici durante i nostri primi 4 anni di vita sviluppiamo la capacità di “leggere la mente”, imparando a predire ed interpretare i comportamenti umani in termini di stati mentali.
I deficit in quest’abilità, come è stato dimostrato nelle persone con autismo, rendono i comportamenti sociali molto imprevedibili.
L’utilizzo dei robot o di specifici software con soggetti affetti da ASD è stato investigato molto nell’ultima decade. I sistemi software includono ambienti virtuali altamente strutturati e vengono utilizzati dai terapisti e dagli insegnanti come strumenti in grado di insegnare skills sociali o altri tipi di skills (come il riconoscimento di emozioni, o come imparare ad attraversare la strada (Strickland, 1996).
Dai primi anni 80 l’utilizzo dei robot nel campo educativo è divenuto popolare.
L’utilizzo dei robot nelle terapie dei bambini affetti da autismo è stato invece studiato più di recente (Dautenhahn e Weey, 2000; Werry et al., 2001; Weir, 1976). Ad esempio un primo lavoro svolto da Weir e Emanuel (28) ha suggerito effetti positivi su un bambino di 7 anni affetto da autismo. Michaud e Theberge-Turmel hanno studiato vari designs con differenti capacità di interazione in grado di interagire con i bambini, ad esempio un elefante, una sfera robotica, o un robot a mezzo busto (Michaud et Théberge-Turmel, 2002).
Tuttavia nonostante tutti gli studi ancora troppo poche le evidenze circa gli effetti terapeutici che possono essere collegati ai robot.
66 Usare un computer o un ambiente virtuale tuttavia è differente dall’utilizzare un robot poiché questo incorpora gli aspetti dell’interazione “viso a viso” tra umani, come investigato da Dautenhahn e Werry (2004), che hanno studiato vantaggi e svantaggi dell’utilizzo di diverse tecnologie.
I vantaggi nell’utilizzo dei robots sono che quest’ultimi forniscono un ambiente sicuro, semplificato, prevedibile e affidabile dove la complessità dell’interazione può essere controllata e gradatamente incrementata. Similarmente studi psicologici hanno mostrato che i bambini con autismo preferiscono giocattoli dall’aspetto semplice ed ambienti prevedibili (Ferrara e Hill, 1980) che possono fornire dei buoni punti di partenza per gli interventi terapeutici. Tuttavia il ruolo del robot è quello del mediatore, che ha come scopo primario quello di non rimpiazzare il contatto umano ma facilitarlo. Robins et. al (2004) hanno mostrato come un piccolo umanoide può fornire un divertente focus d’attenzione in grado di rivelare competenze sociali e comunicative dei bambini con autismo. Alla luce di queste ricerche l’uso clinico dei robot interattivi promette uno sviluppo significativo e dimostra che gli individui con ASD presentano punti di forza nella comprensione del mondo fisico mentre mostrano debolezze nella comprensione del mondo sociale (Klin, 2000), sono più sensibili alle risposte, anche a quello sociali, quando sono somministrate tramite la tecnologia piuttosto che ad un essere umano (Ozonoff, 1995), sono intrinsecamente più interessati al trattamento quando questo coinvolge componenti elettronici o robotici (Robins et al., 2005). Tuttavia la maggior parte del supporto fino ad oggi per il suo utilizzo in terapia si base su prove aneddotiche e manca il sostegno alla generalizzazione delle competenze (Ricks e Colton, 2010). Molta attenzione è stata data a quale tipo di robot (umanoidi vs non umanoidi, potrebbe essere efficace, ma l’accento non è stato posto sui modi migliori per integrare i robot in sessioni di terapia. Vi sono diverse domande aperte su come poterlo fare, ad esempio quali possono essere i migliori ruoli del robot in terapia e quali soggetti affetti da ASD si adattano meglio ad un trattamento del genere. Una questione fondamentale è se gli individui con ASD preferiscono i robot o le caratteristiche robotizzate alle caratteristiche umane o ai giocattoli ed in caso affermativo cosa rende attraente queste caratteristiche? Alcuni ricercatori hanno sostenuto che anche se i robot non umanoidi sembrano avere un appeal più generale in
67 relazioni ai soggetti ASD, i robot simili all’uomo avrebbero maggiori potenzialità di generalizzazione. Considerare queste questioni diventa fondamentale, a causa dell’eterogeneità della popolazione ASD, poiché alcuni potrebbero non preferire i robot o i robot umanoidi.
È stato mostrato da un piccolo studio condotto da Pioggia et al. (2005) che i soggetti con ASD mostrano risposte al robot sia di carattere positivo che di carattere negativo, successivamente uno studio follow-up ha trovato dei miglioramenti nella comunicazione sociale. Dautenhahn et al hanno condotto una serie di studi che li ha portati alla conclusione che alcuni individui preferiscono i robot ai giocattoli non robotici o agli umani. Due studi (Bird et al, Pierno et al, 2008; Bird et al., 2007) hanno trovato un miglioramento del movimento da parte dei bambini subito dopo che lo stesso era stato eseguito dal robot, questo suggerisci che si possono avere dei benefit da task di imitazione che coinvolgono robot.
Una potenziale applicazione prevede la creazione di un ambiente dove un robot potrebbe modellare comportamenti specifici per il bambino (Dautenhahn, 2003) o il bambino potrebbe praticare competenze specifiche con il robot (Heyes, 2001). L’obiettivo sarebbe quello di insegnare un’abilità che il bambino potrebbe imitare o imparare, e trasferirla alle interazioni con gli esseri umani, il robot diventa quindi attivo nell’insegnamento.
Imitazione
Il primo protocollo implementato tramite la mia app è un protocollo d’imitazione.
Gli psicologi non usano una definizione univoca d’imitazione. Ad esempio, sostengono che i neonati imitano perché sono in grado di eseguire la sequenza bimodale percezione – azione (reagiscono ad un movimento visto eseguendo un movimento che lo copia), e i bambini con autismo non imitano perché non sono in grado di riprodurre sequenze
68 complesse di azioni. Quello che quindi viene chiamato imitazione è l’abilità di imitare nuove strategie e sequenze di azioni. (Heyes, 2001).
Una definizione usata prima dell’introduzione di una prospettiva di sviluppo nello studio dell’imitazione (Aronfreed, 1969).
Queste esitazioni su come definire l’imitazione viene in sostegno dell’idea che l’imitazione non è un fenomeno unitario.
C’è un grande corpo di esperimenti psicologici e di neuroimaging che dimostrano che l’azione della percezione condivide alcuni meccanismi neurali e cognitivi con azioni di creazione, simulazione, riconoscimento e in una certa misura d’imitazione (Decety & Grezes. 1999). Questi risultati sono molto rilevanti per capire i meccanismi coinvolti nell’imitazione. Sulla base di queste informazioni, i neuroscienziati hanno proposto il concetto di rappresentazioni motorie condivise (Georgieff & Jeannerod, 1998).
Esaminando con attenzione questa ipotesi si può dire che esiste una gerarchia di meccanismi coinvolti in differenti tipi di imitazione che hanno tutti in comune il dover reagire alla percezione di un movimento mirato ad un obiettivo o all’azione di produzione di movimenti simili. Questa visione prende in considerazione l’implicazione dei nuovi risultati nella neurobiologia scoperti da Rizzolatti e colleghi (Fadiga, Fogassi, Pavesi & Rizzolatti, 1995; Iacoboni et al, 1999; Rizzolatti, Fadiga, Fogassi & Gallese, 2002) la quale hanno scoperto nella scimmia e successivamente nella corteccia umana premotoria, una classe di neuroni che hanno denominato “neuroni specchio” poiché vengono attivati quando un’azione viene eseguita o osservata su un oggetto. Questa capacità neurale di rispondere all’azione può essere coinvolta nell’imitazione ad alto livello, infatti essa non necessariamente porta alla riproduzione dell’azione osservata. Quando i neuroni specchio si attivano per l’azione, viene prodotta un’attività neurale che corrisponde alla rappresentazione dell’attività neurale generata dalla produzione effettiva dell’azione osservata. Secondo Rizzolatti e colleghi (2002) i neuroni specchio che si attivano per le azioni con oggetti (F5) sono il miglior esempio conosciuto del sistema di risonanza dello specchio ma ci sono dei neuroni che si attivano quando semplici movimenti sono eseguiti dopo essere stati osservati. La risonanza di quest’ultimi può spiegare imitazioni a basso livello come la facilitazione sociale o l’imitazione neonatale.
69 La distinzione proposta da Rizzolatti et al. (2002) ci porta a disegnare un continuum tra le risposte incontrollate e quelle intenzionali come riposta ad un’azione, piuttosto che escludere dalla definizione di imitazione quei comportamenti che non sono informati dall’intenzione di imitare. La recente prospettiva di Byrne e Russon (1998) evita anche una chiara distinzione. Loro non negano la definizione di imitazione ad alcuni comportamenti ma piuttosto distinguono tra due livelli di imitazione: uno a basso livello che raggruppa i comportamenti primari ed uno ad alto livello che raggruppa l’intuizione creativa circa gli obiettivi interessati. Dautenhahn e Nehaniv (2002) e Mitchell (2002) condividono la visione di un continuum in una gerarchia dei livelli di imitazione. L’imitazione è stata a lungo vista dai comportamentalisti come richiesto dall’obiettivo dell’apprendimento: la procedura “guarda me e fai come me” è una tecnica chiave, l’imitazione è stata definita come apprendimento senza incentivi e senza prove ed errori (Bandura, 1971).
Un’interessante primo passo verso l’idea che gli usi dell’imitazione possono differire in base ai vincoli di sviluppo e alle attuali esigenze di adattamento dello sviluppo dell’infante è stato fatto da Yando, Seitz e Zigler (1976). Questi autori hanno proposto una teoria a 2 fattori dove il livello di sviluppo cognitivo e la motivazione sono stati i fattori essenziali nello sviluppo dell’imitazione. I motivi per imitare differiscono significativamente con l’età, quello che rimane da scoprire è per quale motivo. Nei primi anni 80 alcune voci cominciarono a proporre che l’imitazione ha 2 funzioni: una cognitiva e sociale o una funzione d’apprendimento e comunicativa (Nadel-Brulfert & Baudonnière, 1982). Numerosi ricercatori sono stati coinvolti nell’esplorazione della possibile origine della funzione comunicativa dell’imitazione. Tra loro Maratos (1973), Pawlby (1977) e Uzgiris (1981) sono stati sicuramente pionieri in questo campo. Hanno mostrato che solo poche settimane dopo la nascita, l’imitazione include una turnazione tra i partner (Maratos, 1973; Uzgiris, Broome & Kruper, 1989). Alla nascita la frequenza dell’imitazione è stata suggerita avere un valore predittivo per l’interazione faccia a faccia a 3 mesi (Heimann, 1991) Kugiumutzakis e colleghi (1999), ispirandosi a Trevarthen (1999) hanno dimostrato l’efficienza di un contesto interattivo nella prima produzione dell’imitazione. Nadel (1986) ha mostrato che i bambini molto piccolo approfittano del fatto che l’imitazione
70 coinvolge due ruoli: imitatore e modello. I bambini di due anni usano questi due ruoli in modo alternato (Nadel, 2002). I partner coordinano il loro tempo per ottenere la sincronia