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Il ruolo residuale e tuttavia decisivo attribuito allo ius sacrum ”

Se in queste schematizzazioni appare in generale alquanto limitato il ruolo ri- conosciuto per tal verso allo ius sacrum, richiamato più che altro solo in rela- zione ai rapporti internazionali e per certi versi in vista del divieto generale di andare contro i principii fondamentali dell’ordinamento, è per altro verso da notare come nelle trattazioni in argomento si legga sovente che vi sarebbe una norma generale che imporrebbe il rispetto degli aspetti essenziali dell’ordi- namento religioso romano, rintracciata in una parificazione a tali effetti tra ius e fas che talora viene presupposta in maniera invero apodittica, mentre tal- volta viene un poco aproblematicamente rinvenuta – nel parallelo con la clausola ‘si quid ius non esset rogarier …’ per quanto riguarda il ius – nella previ- sione ‘si quid sacri sancti est quod non iure sit rogatum …’, vista appunto come re-

lativa al fas in generale.

Questa più lata visione della formula in questione, tale da ricomprende- re non solo le leges sacratae ma lo ius sacrum in generale, almeno per quanto ri- guarda i suoi principii fondamentali, sembra in certo modo non del tutto con- sentita da Cic., Balb. 14.33, secondo il quale, un po’ sibillinamente e d’altron- de in una tarda impostazione alquanto laicizzata, sarebbe ‘sacrosanctus’ tutto ciò che ha avuto la sanzione del popolo, mentre d’altra parte sarebbero tali determinate norme in base alla natura stessa e alla formula della legge ovvero in vista della sacralità della pena (‘primum enim sacrosanctum esse nihil potest nisi quod

populus plebesve sanxit; deinde sanctiones sacrandae sunt aut genere ipso aut obtestatione et consecratione legis aut poenae, cum caput eius qui contra fecerit consecratur’). In questa falsariga, se parte della dottrina – specie in riferimento al ricorso ai termini ‘sacer’ e ‘sanctus’ – ritiene quindi, forse in maniera più corretta, che in realtà tale clausola si riferisse alle sole leges sacratae, è peraltro alquanto diffusa la tendenza a intendere questa endiadi come complessivamente riferentesi agli aspetti essenziali dello ius sacrum, ma senza, sembrerebbe, una definitiva riprova testuale o logica di tale interpretazione (né è qui possibile insistere su come, verosimilmente, la locuzione ‘sacrosanctus’, in maniera assai più specifica, ap- paia in effetti indicare piuttosto, con ‘sacrō’ ablativo, alcunché di assai pros- simo a quanto espresso grammaticalmente dalla locuzione ‘iure iurando’).

D’altra parte, che tali principii di fondo giuridico-sacrali fossero un ta- cito ma pressoché assoluto limite alla legislazione comiziale lo si ricava da Cic., leg. agr. 2.7.18, in cui, a proposito dell’impossibilità (‘fas non erat’) di ap- plicare l’elezione popolare ai sacerdoti, si afferma in certo modo esplicita- mente l’esistenza di un limite generale ed assoluto (‘fas non esse’) alle delibera- zioni normative dell’assemblea popolare costituito appunto dalla ‘religio’ e dal ‘sacer’ (‘per populum creari fas non erat propter religionem sacrorum’): preclusione im- plicita ma fondamentale che infatti è abbastanza agevole postulare, specie per quanto riguarda le età più risalenti, come un divieto inviolabile in relazione alle stesse credenze relative al divino proprie alla società romana e quindi al suo ordinamento. E tale divieto risulterebbe attestato non solo dal rispetto pressoché assoluto che le previsioni dello ius sacrum si videro sempre tribu- tato dalla legislazione comiziale, ma altresì dalla positiva circostanza che, co- me si è accennato, non sarebbe altrimenti possibile spiegare anche in altri ambiti normativi l’intangibilità di determinate previsioni non espressamente sancite, a quanto è dato conoscere, da alcuna specifica statuizione o norma consuetudinaria: ed in effetti, anche quando ad esempio si parla della natura religiosa su cui poggia l’inviolabilità dei principii del diritto internazionale e in particolare il rispetto dei trattati, non si fa altro che riconoscere, in mancanza

di esplicite previsioni in tal senso, una generale norma residuale che garanti- sce l’intangibilità di ciò che, secondo le comuni concezioni religiose, non sa- rebbe stato lecito mettere in discussione sia pur attraverso una deliberazione di tutto il popolo.

Tale rispetto per ciò che è fas, se per un verso si coordina immediata- mente con l’altra faccia dell’ordinamento costituito dal ius, partecipa d’altronde con quest’ultimo ad una concezione di fondo del diritto costituzionale in cui il lento coagularsi di questi principii nel corso della storia e quindi la parteci- pazione delle varie generazioni all’elaborazione di essi sono visti, come sot- tolinea Cicerone citando Catone il Vecchio, quali ulteriore garanzia della sag- gezza e della relativa completezza dell’ordinamento giuridico (rep. 2.1.2: ‘nam

neque ullum ingenium tantum extitisse dicebat, ut quem res nulla fugeret quisquam aliquan- do fuisset, neque cuncta ingenia conlata in unum tantum posse uno tempore providere, ut om- nia complecterentur sine rerum usu ac vetustate’), contesto ove l’auctoritas di una tradi- zione ininterrotta appare rendere maggiormente fidabile, in una prospettiva ra- zionalmente conservatrice tipicamente romana, un diritto che non è espressio- ne delle visuali giuridiche di una sola generazione (come avviene in particola- re nei legislatori greci), ma prodotto più meditato e via via sempre corretto e migliorato di una collettività intesa in una dimensione tendenzialmente atem- porale (‘… nostra autem res publica non unius esset ingenio sed multorum, nec una hominis

vita sed aliquot constituta saeculis et aetatibus’): ossia il risultato non semplicemente di quanto introdotto ‘legibus atque institutis’, ma soprattutto di quanto consoli- datosi ‘usu ac vetustate’, in una tensione verso un diritto che, come dirà Ulpiano (1 reg.), è il portato di una costante e perpetua aspirazione alla giustizia (D. 1.1.10.pr.: ‘iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi).

In questa prospettiva, la considerazione che si incontra piuttosto co- munemente in dottrina, ossia il fatto che la deliberazione popolare non può in ogni caso mettere in discussione quei principii fondamentali della civitas che sono percepiti in certo modo come ad essa preesistenti e da essa neces- sariamente presupposti, sembra quindi collocarsi in una prospettiva che è, in- sieme, giuridica e sacrale, ed in cui lo stesso ordinamento romano con i suoi istituti strutturali partecipa di un’immanente autogiustificazione, cementata dal consensus omnium, che si colloca inscindibilmente tanto nel ius che nel fas: se le deliberazioni comiziali, nonostante le fortissime tensioni caratterizzanti certi periodi, non hanno mai tentato di deliberare mutamenti, a quanto ci è dato sapere, in ordine all’ordinamento del senato o alle competenze e l’auto- nomia delle magistrature, la dimensione di intangibilità di massima di tali istituzioni risulta poggiare sulla diffusa consapevolezza che esse partecipano di una dimensione ormai atemporale connessa alla loro vetustas consolidata da

un usus immutabile nei secoli, collocandosi quindi su piani in certo modo an- cestrali al pensiero romano dove diritto e religione, com’è noto, tendono, più che a confondersi, a divenire una sola cosa.

9. Ulteriori prospettive di ricerca in ordine ai limiti legislativi

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