La consapevolezza del rischio di morte improvvisa in pazienti rTdF e della possibile relazione della stessa con aritmie ventricolari, ha portato, in alcuni centri, al trattamento con farmaci antiaritmici dei pazienti con evidenza di extrasistolia ventricolare (Lown>II) al monitoraggio Holter, indipendentemente dalla presenza di sintomi. Tuttavia, per quanto l‟extrasistolia ventricolare possa evidenziare una maggiore suscettibilità allo sviluppo di aritmie potenzialmente fatali, l‟efficacia di un tale approccio nella prevenzione della morte improvvisa non è stata mai validata. Il lavoro di Garson e coll, che dimostrava una riduzione dell‟incidenza di morte improvvisa nei pazienti trattati con terapia antiaritmica (mexiletina, fenitoina e
propranololo) guidata dal monitoraggio Holter, è limitato dall‟impiego di un gruppo di controllo storico, non randomizzato, sottoposto a correzione chirurgica in epoca pionieristica (70). Studi successivi non hanno peraltro confermato una correlazione tra aritmia extrasistolica ventricolare asintomatica, semplice o complessa, all‟Holter, e inducibilità allo studio elettrofisiologico (18). Inoltre, alla luce dei risultati dello studio CAST in pazienti adulti dopo infarto miocardico, l‟impiego routinario di terapia antiaritmica in pazienti a basso rischio può essere più nocivo del non trattamento. Pertanto, non avendo a disposizione dei trial prospettici che dimostrino l‟efficacia e la sicurezza della terapia medica, in alcun gruppo di pazienti post- intervento, nella prevenzione della morte improvvisa, farmaci come la chinidina, la flecanide ed il sotalolo non sono consigliabili per la maggior parte dei pazienti asintomatici.
Se l‟obiettivo terapeutico è la prevenzione di recidive di tachicardia ventricolare clinica, il ricorso ad una terapia antiaritmica guidata dall‟inducibilità allo studio elettofisiologico, può essere ragionevole. La scelta del farmaco deve considerare l‟efficacia nella soppressione dell‟aritmia, ma anche i rischi connessi al potenziale effetto proaritmico. Flecainide, propafenone e chinidina hanno dimostrato una discreta efficacia nel controllo dell‟aritmia, tuttavia risultano gravati da un rischio proaritmico non trascurabile, soprattutto in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra, e così anche il sotalolo. Questi farmaci, pertanto, dovrebbero essere utilizzati con estrema cautela in pazienti rTdF con disfunzione ventricolare sinistra. L‟amiodarone, farmaco di nota efficacia, ha il vantaggio di un più sicuro impiego anche in pazienti con disfunzione ventricolare, tuttavia, lo sviluppo di importanti effetti collaterali correlati all‟assunzione sul lungo periodo, ne limitano l‟utilizzo in pazienti giovani e bambini.
Queste problematiche e la necessità di una protezione antiaritmica a tempo indeterminato, portano naturalmente a considerare della strategie terapeutiche non farmacologiche.
Nel 1980 Mirowski pubblicava il successo dei primi defibrillatori impiantabili (ICD) nel trattamento di aritmie ventricolari maligne nell‟uomo. Da allora, l‟ICD ha rivoluzionato il trattamento e la prognosi di un gran numero di pazienti adulti a rischio di morte improvvisa, con particolare beneficio in presenza di una buona
funzione ventricolare sinistra, laddove sia remota la possibilità di morte da altre cause. I dati nella popolazione pediatrica e nei pazienti con cardiopatia congenita sono limitati. In un lavoro multicentrico sull‟impiego dell‟ICD in una popolazione di età inferiore ai 20 anni, con documentazione di cardiopatia congenita nel 18% dei casi, Silka e coll. (44) riportano un intervento appropriato del device nel 76% dei casi, e nel 68% nel sottogruppo di pazienti con cardiopatia congenita, con una sopravvivenza a 5 anni rispettivamente di 90% e 95%. L‟evoluzione tecnologica degli ultimi anni, ha consentito un notevole miglioramento sia della tecnica di impianto, con la disponibilità di sistemi transvenosi che consentono una riduzione della soglia di defibrillazione ed evitano l‟approccio toracotomico più demolitivo, sia del funzionamento del device, con l‟introduzione di sistemi bicamerali ed algoritmi di pacing e riconoscimento più sofisticati. In particolare la possibilità, grazie all‟impiego del catetere atriale, di riconoscere gli episodi di aritmie sopraventricolari e flutter atriale è importante nei pazienti con cardiopatia congenita, in quanto limita il numero di interventi inappropriati dell‟ICD. Nel già citato lavoro di Silka, la percentuale di interventi inappropriati era del 20%.
Pertanto gli ICD sono diventati una strada percorribile per la prevenzione della morte improvvisa in pazienti con cardiopatia congenita corretta e tachicardia ventricolare documentata. Se sussiste un certo consenso nell‟impiego degli stessi in prevenzione secondaria, rimane controversa la selezione dei pazienti in prevenzione primaria. A differenza della cardiopatia ischemica, dove la conclusione di diversi trial di adeguate dimensioni, ha consentito di individuare un rischio aumentato di morte improvvisa in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra (FE < 35%), nell‟ambito delle cardiopatie congenite i dati sono limitati ad esperienze monocentriche o retrospettive. Inoltre, se è vero che la disfunzione ventricolare moderato-severa è emersa come un importante determinante prognostico in pazienti rTdF, designando un profilo di rischio aumentato per morte improvvisa, purtroppo lo stesso evento può incorrere in pazienti completamente asintomatici, con buona emodinamica ed assenza di fattori di rischio aritmico. Gli stessi fattori di rischio descritti in letteratura, come visto prima, sono spesso troppo sensibili, e l‟impianto dell‟IDC in tutti i soggetti a rischio non appare opportuno, avendo presente il rischio di complicanze correlate all‟impianto di materiale protesico o al rischio di shock
inappropriati, che, per quanto ridotto nei device di ultima generazione, non risulta completamente abolito. Il rischio di complicanze correlate all‟impianto di ICD, inoltre, è maggiore nei pazienti con cardiopatia congenita, sia per difficoltà tecniche correlate alle caratteristiche anatomiche (maggiore prevalenza di anomalie venose, quali la persistenza di vena cava superiore sinistra) che per la presenza di disturbi di conduzione atrio-ventricolare o intraventricolare (blocco di branca destra), che rende più difficoltoso il corretto riconoscimento degli episodi aritmici, soprattutto in presenza di aritmie sopraventricolari.