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IV. PANDOLFO II MALATESTA, LA FAMA E LA FORTUNA DEL SEPOLCRO PREUMANISTICO

37 RVF, CIV, 9-11.

salute e rimandava a Checco di Meletto Rossi da Forlì, che aveva composto un testo per l’occasione. “Cuius epitaphium si habetis, consilium meum est ut aliud non quaeratis. Quidquid ille scribit ego approbo”38. Un sonetto caudato per la morte del signore era composto da Antonio da Ferrara39. Petrarca dunque non esaudiva la richiesta dei signori, ma se avesse potuto avrebbe fermato con la penna “ad cumulum gloriae suae [di Antico] stabilius quoque solidiusque quam marmor”40. Non sappiamo se il poeta si compiacesse di citare a Pandolfo il sonetto scritto in suo onore41, ma la concordanza tra

i due luoghi è stringente, e senza proporre una casistica esaustiva va richiamato almeno un altro luogo petrarchesco in cui la fama è chiamata in causa al paragone della scultura. Bisogna guardare al De Remediis (1354-1366), al capitolo De statuis. E anche qui “[le sculture] integrumque ac solidum eoque perennius corpus habent”42.

“Saldo”, “solidus” e poi “stabilis”. Nel discorso intrecciato da Francesco Petrarca con il Malatesta la tangenza tra fama e scultura è anche semantica, e nella lettera del 1364 - si parla dell’epitafio da incidere sulla tomba del signore di Rimini - si arriva al cortocircuito.

È vero che in questa circostanza l’aretino non si distacca dal topos classico né per spingersi in una teoria delle arti, né per considerare il fatto artistico specifico. Eppure nella richiesta di Pandolfo e del fratello è una concezione della memoria funebre monumentale in concreto radicata nei valori dell’Umanesimo trecentesco, nella sua tradizione tematica e speculativa. Il fenomeno è avvistato solo in parte negli studi, per

38 Disp. 63 [tradizionalmente cit. come Var. 18], 50-52. Il testo dell’epitafio non ci è

stato conservato e non sappiamo se e quando venisse scolpito sulla tomba di Malatesta Antico in San Francesco a Rimini, che non ci è giunta. L’episodio è ricordato da WEISS

1949, pp. 87-90, che indaga a più ampio raggio le relazioni tra il forlivese - già cancelliere di Francesco Ordelaffi - e i Malatesta di Rimini.

39 Il sonetto, con l’incipitario Amara morte, universal tempesta che fa rima con

Malatesta, si legge in BELLUCCI 1972, pp. 229-230. Assemblato con materiali danteschi,

ha una chiusa addirittura jacoponica, e vale soprattutto a conferma di quanto discontinuo potesse essere, al di là delle vette più alte, il valore degli intellettuali della cerchia malatestiana.

40 Disp. 63, 18-20. 41 È l’ipotesi di M

ASCETTA CARACCI 1910, p. 488, nota 2, da ultimo cit. in Disp., p. 435,

nota 6.

42 De Remediis, I, 42, 6-7. Sui due capitoli De tabulis pictis e De statuis in relazione al

tema Petrarca-arti figurative e sul dialogo continuo, ma non sempre prevaricante, con le fonti classiche, DONATO 2003, pp. 440-446; per l’importanza di queste, Plinio e

lo più in relazione ai singoli manufatti; manca il riconoscimento di una categoria interpretativa, per cui si potrebbe avanzare il nome di ‘sepolcro preumanistico’.

La preoccupazione dei Malatesta di avere un epitafio all’altezza del padre defunto non è isolata alla metà del secolo o poco dopo; al contrario, tradisce la nuova centralità della memoria scritta all’interno complesso funebre monumentale, propria di quegli anni. Le lettere rendono immortali, aveva esortato il poeta. L’epitafio è ricercato dai committenti come cosa importantissima e il prestigio del dettatore è una garanzia di affidabilità; d’altra parte, comporre l’epigrafe funebre di un potente, magari un signore, può valere all’umanista la speranza di un ingaggio a più lungo termine.

Insieme con le intenzioni culturali mutano i canoni formali e contenutistici delle scritture ultime. Il sepolcro di Antico deve essere fornito di un’epigrafe metrica, qualcosa in più della semplice iscrizione latina. Sebbene esistano eccezioni e varianti l’esametro in rima o sciolto è la forma di elezione della nuova epigrammatica, anche funebre, e i modelli di riferimento sono quelli dell’antichità romana. Gli exempla antichi vengono letti, annotati e studiati; talvolta si arriva al calco43, più spesso formule e materiali sono riutilizzati in modo originale. Il recupero è di carattere eminentemente culturale e non è raro che l’entusiasmo faccia premio sulla filologia. È il caso di più di un modello archetipico celebre ma di dubbia ‘solidità’, come l’epitafio che Virgilio avrebbe composto per la propria sepoltura, tramandato fin nel Medioevo da una serie di testi biografici che fa capo a Svetonio44. In ambito padovano è nota la fascinazione

43 Tra gli esempi, il più celebre. Nel comporre l’epitafio per l’amico messinese

Tommaso da Caloria (†1341) Petrarca avrebbe riutilizzato almeno un verso di un epitafio cristiano antico che, quattro anni prima, doveva aver letto e annotato a Roma, DE ROSSI 1857-1888, II, 1888, I, p. 315; DE NOHLAC 1907, II, p. 64; PIZZAMIGLIO 1976,

pp. 96-97.

44 Ma l’autore della più celebre e diffusa delle vite virgiliane fino al secolo scorso fu

tradizionalmente identificato con il grammatico di III secolo Elio Donato. Per questo e per la tomba di Virgilio nella tradizione umanistica, il dotto saggio di TRAPP 1984, pp.

1-31. Con una formula breve e elegante - “Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope” - l’epitafio indicava il luogo di nascita, quello di morte e la sepoltura del poeta. Tra le riprese trecentesche in ambito funerario spicca una delle due epigrafi dettate da Francesco Petrarca per il nipote Franceschino di Francescuolo da Brossano (†1368), oggi al Castello Visconteo di Pavia ma già nella chiesa di San Zeno, PETRUCCI

1967, pp. 68-69, tav. XX: “Me venetum terris dedit, urbs rapivitque Papia”. La stessa tradizione testuale risuona nell’epitafio scolpito sul sarcofago pesarese della moglie di Pandolfo II Malatesta, Paola Orsini Colonna (†1371), per la trascrizione infra, in questo

esercitata dalla presunta lapide funeraria di Tito Livio - poi rivelatasi quella di un liberto della sua famiglia - rinvenuta presso la chiesa di Santa Giustina nella seconda metà del Duecento45. Infine uno scarto netto è nelle forme della retorica, che precorre la strada della retorica ‘civile’ quattrocentesca. Sulla falsariga degli esempi antichi e romani prevalgono brevitas e concinnitas: l’encomio tradotto in epigrafe è lineare, spesso nulla più del sommario cronologico della vita del defunto, le occupazioni, i meriti, le virtù; nei casi di più evidente valenza pubblica non è esclusa una intenzione ideologica46.

Il fondatore della nuova epigrammatica fu Francesco Petrarca; a giudicare dalle richieste che ricevette, massime in ambito funebre, il primato fu riconosciuto dai contemporanei e anche la determinazione di Pandolfo e di Malatesta Ungaro di rifarsi al maggiore poeta del tempo va letta nella luce di quegli anni. Uno studio sul tema

Petrarca e le memorie funebri degli Italiani illustri non è ancora stato scritto, ma dalle

prospezioni si intravede interessante47. In una storia del sepolcro ‘umanistico’ trecentesco aprirebbe un capitolo fondamentale, quello della piena affermazione.

capitolo: “Roma dedit nasci, Pensaurum cedere vita”. Ma nella Padova dello studium universitario e dei dotti preumanisti l’epitafio creduto di Virgilio poteva essere citato smaccatamente già a inizio secolo, seppure con una misura incerta, nell’epigrafe funebre del mantovano Bovetino (†1301), magister decretalium e decretorum doctor, GUI. BILLANOVICH 1976, p. 100: “Mantua quem genuit, Patavis Bovetinus et orbi”.

45 Rolando da Piazzola (†1325), nipote di Lovato Lovati e figura di spicco del

preumanesimo padovano, la richiamava in una delle epigrafi del monumento che aveva fatto costruire per sé e i familiari - appunto “sibi et suis”, come nell’epigrafe del presunto Livio - al Santo, GUI. BILLANOVICH 1976, pp. 99-100.

46 È significativo che il recupero di una forma e di contenuti classici avvenisse dapprima

nelle memorie materialmente apposte alle tombe - gli epitafi scolpiti - o comunque scritte per quella destinazione. Non destinate ad una traduzione monumentale, per tutto il Trecento Petrarca incluso le orazioni funebri continueranno invece a perpetuare il modello retorico medievale della laudatio, MCMANAMON 1989, soprattutto pp. 9-16.

47 Qui basti ricordare i numeri principali dell’epigrammatica funebre petrarchesca.

All’epitafio di Tommaso da Caloria e alle due epigrafi dettate per il nipote Franceschino a Pavia, già ricordati, vanno aggiunti [CAMPANA 1996, pp. 437-442; scheda 80 in

WOLTERS 1976, I, p. 190] l’epitafio di Andrea Dandolo che rifiutato non fu scolpito

sulla tomba del doge in San Marco, e quello per la propria tomba ad Arquà. PIZZAMIGLIO 1976, pp. 97-99, ha rinvenuto un ulteriore epitafio scritto dal poeta per la

propria tomba, non tradotto nel marmo, e un epigramma funebre - sarcastico, non destinato ad essere scolpito - per un ignoto romano. DONATO 1995, p. 451, nota 75,

soprattutto in relazione alla Selbstdartstellung signorile, oltre all’epitafio scritto da Petrarca per Iacopo II da Carrara ricorda quello composto per Roberto d’Angiò e l’epigrafe che gli chiesero da Parma per la tomba del presunto Macrobio. Ci sono poi i

Tuttavia a monte dell’aretino il processo originava tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo ad opera dei “piccoli padri della nuova cultura e della nuova retorica padovana”48: Lovato Lovati, Rolando da Piazzola, Albertino Mussato. L’impegno con cui questi si posero alla riscoperta dell’antichità romana è stato oggetto di ricerche attente e numerose, e non è mancato chi ha voluto vedere in Lovato il padre stesso dell’Umanesimo italiano o, almeno, l’antenato più prossimo49. Gli studi del dotto ‘circolo’ di Padova riguardarono in maniera peculiare l’epigrammatica50; tanto che il

soggiorno nella città veneta e l’incontro con la tradizione ‘locale’ dovettero rappresentare motivo di riflessione anche per il Petrarca scrittore di memorie ultime51.

rifiuti: gli epitafi che Petrarca non scrisse per Malatesta Antico e per il suo grande amico Barbato da Sulmona, CAMPANA 1996, p. 439. Come avvertono gli specialisti, il

numero degli epigrammi funebri scritti da Petrarca potrebbe essere più ampio. Un capitolo da sviluppare sarebbe quello della fortuna. Il Petrarca ‘lapidario’ ebbe una diffusione precoce, gli epigrammi che il poeta dettò in memoria degli Italiani illustri, lui ancora vivente furono oggetto di ammirazione e perfino di studio nelle università; invenzioni e materiali vennero ‘presi a prestito’ per la composizione di epigrammi di dotti e signori. Si può procedere per esempi. L’epitafio di Iacopo II da Carrara era ricopiato a Padova dal celebre retore universitario Pietro da Moglio, che lo commentava ai propri studenti di Bologna e, più tardi, se ne serviva per il proprio epigramma funebre, GIUS. BILLANOVICH 1964, pp. 290-291; infra, in questo capitolo. L’incipit

dell’epitafio scolpito sulla tomba di Petrarca ad Arquà era conosciuto e ricalcato da chi dettava l’epigramma funebre della tomba di Giovanni da Legnano, frammentaria nel Museo civico medievale di Bologna, per la trascrizione, scheda 136, in WOLTERS 1976,

I, pp. 214-215. Bisogna infine considerare che il campo degli epigrammi petrarcheschi non si limita a quelli funebri: si ricordi il ritratto di Napoleone Orsini dipinto da Simone Martini, cui vennero aggiunti versi del Petrarca che sembravano pronunciati dal defunto cardinale, che così ‘raccomandava’ il proprio medico al nuovo papa Clemente VI, e l’epigrafe per una delle torri di Parma scritta per Azzo da Correggio, rispettivamente HUECK 1983, p. 188; CAMPANA 1996, p. 440, con bibliografia.

48 La definizione è di G

IUS. BILLANOVICH 1947, p. 46.

49 W

ITT 2000, cui si rimanda anche per le linee essenziali del dibattito storiografico.

50 In sintesi il già citato G

UI. BILLANOVICH 1976, soprattutto pp. 99-110.

51 L’epitafio di Iacopo II, già venuto in parola, non è senza reminiscenze padovane.

L’apostrofe al lector del v. 3 – “Quisquis ad hoc saxum convertis lumina, lector” [il testo si legge insieme alla lettera di accompagnamento, la Fam. XI 3 a Giovanni Aghinolfi] - che tanta fortuna ebbe nel seguito, con una coerenza tutta diversa e un progressione ‘moderna’ si rifaceva al precedente di Lovato Lovati, all’epitafio dettato da questi per la propria tomba: “Quod sum, quidquid id est, tu quoque, lector, eris” (v. 2), il testo in GUI. BILLANOVICH 1976. Anche l’incipit dell’epitafio del da Carrara -

“Heu magno domus arcta viro! sub marmore parvo, | En pater hic patrie spesque salusque iacent” (vv. 1-2) - poteva essersi giovato di un exemplum ancora piuttosto recente, sebbene meno alto e ‘perfetto’; penso all’epitafio del giudice Paolo da Teolo

Per certo la parola dei preumanisti patavini era ancora cosa viva dopo la morte dell’aretino, dentro e fuori Padova52. Ma l’intenzione più propria di questa entusiastica ricerca delle origini della civiltà classica fu di stampo antiquario, a partire dal rinvenimento, nel 1283, del sarcofago antico creduto del mitico fondatore della città, il troiano Antenore53. Lovato Lovati, artefice dell’identificazione, convinceva i concittadini a edificare una edicola che contenesse e insieme valorizzasse con una collocazione pubblica il sarcofago; alla sua morte, il 7 marzo 1309, gli spettava una sepoltura privilegiata, innalzata su colonne, accanto a quella del ‘primo’ dei Padovani ; l’epitafio in due quartine composto da Lovato per la propria tomba tentava una misura e formule classiche.

Con il solo precedente delle arche dei dottori bolognesi, il mausoleo di Antenore (fig. 2), la tomba di Lovato e quella voluta per sé e la famiglia da suo nipote Rolando da Piazzola sul sagrato del Santo, fissavano un modello di sepoltura inedito per l’Italia del tempo, improntato al recupero di un orizzonte antico, civile e umanistico54. È proprio accostandosi a questi primi esempi che si intravedono le linee generali del fenomeno. A quanto detto, si potrà allora aggiungere che la riscoperta dell’epigrammatica classica non si accompagnò a una ‘filologia’ delle forme epigrafiche; sino al terzo decennio del Quattrocento le lapidi funebri continuarono ad essere fitte composizioni in maiuscola gotica, scritture esposte, indecifrabili o quasi a distanza55. Al contrario, sul piano della

(†1325) - “De titulo iudex iacet hoc sub marmore Paulus” (v. 1) - avvicinato da GUI.

BILLANOVICH 1976, pp. 102-103, al nome del predecessore di Petrarca nella laurea

poetica, Albertino Mussato.

52 Nel 1402 un allievo di Francesco Zabarella, Nicola Rotenstein di Jena, ricopiava nella

casa padovana del maestro un carme di Mussato e l’epitafio di Lovato Lovati, GIUS.

BILLANOVICH 1947, p.46.

53 Per l’anno del rinvenimento vale la puntualizzazione di G

IUS. BILLANOVICH 1981, pp.

2-4.

54 Per le arche dei dottori, G

RANDI 1982, pp. 57-63, e schede 3-7, pp. 107-121, gli

sviluppi più significativi sono pressoché contemporanei a quelli veneti. Per le tombe padovane, in sintesi vedi ora VALENZANO 2004, pp. 169-174, che pone attenzione sulla

sintassi ricca di esibiti recuperi all’antica, esito concreto e visibile del protoumanesimo cittadino, e indica in ciò lo scarto più evidente dagli esemplari bolognesi. La peculiarità dei manufatti padovani - e, in subordine, di quelli bolognesi - nel panorama italiano del tempo è stata intuita tra gli altri da PETRUCCI 1995, soprattutto pp. 85-87, 90-92.

55 P

ETRUCCI 1967, pp. 68-69 ricorda il caso esemplare delle lapidi per la tomba del

nipotino di Petrarca a Pavia, di cui si è già detto. Il poeta non si limitava a dettarne il testo, ma come si arguisce dalla Sen. X 4 a Donato Albanzani ne curava l’ordinamento

sintassi architettonica e strutturale della tomba, senza essere normativa l’esibizione di un linguaggio ‘antico’ fu frequente. Il sarcofago sul modello ‘antico’ antenoreo, con coperchio trapezoidale arricchito da acroteri, rialzato da terra su sostegni verticali o mensole, ebbe una fortuna notevole nel Veneto56; ciò che tuttavia non impedì la commistione con forme gotiche e l’utilizzo di pitture e sculture ‘moderne’57.

Stando al XIV secolo, le origini segnano anche la fortuna del ‘sepolcro preumanistico’ che nella terraferma veneta incontra la diffusione maggiore. La serie andrà indagata più da presso, e allora si potranno individuare bivi, punti di svolta, modelli celebri e replicati, fraintendimenti. Procedendo per esempi si dovrà passare per le tombe gemelle di Ubertino (†1345) e Iacopo II (†1350) da Carrara, già affrontate nell’abside della chiesa di Sant’Agostino a Padova e oggi agli Eremitani58, che vennero prese a modello fin dentro il Quattrocento59; e per la tomba di Petrarca ad Arquà (fig.3), fatta costruire sul modello di quelle degli umanisti padovani dal genero Francescuolo da Brossano (ca.

epigrafico. Poche le eccezioni, ma importanti perché fondative. Le epigrafi della tomba da Piazzolla e di quella di Petrarca ad Arquà propongono caratteri significativamente più grandi della media del tempo e una impaginazione più chiara e spaziata; l’intento esplicito è quello di recuperare alla scrittura epigrafica la leggibilità che è tipica degli esemplari antichi: per questo e più in generale per un inquadramento del fenomeno, ID.

1995, soprattutto pp. 85-103.

56 W

OLTERS 1976, I, p. 36; DONATO 1995, p. 405-406; VALENZANO 2004, pp. 169-174.

57 Anche questa una declinazione del “principio di distacco” di P

ANOFSKY [1960] 2009,

p. 105.

58 Per le tombe, v. le schede 40-41, in W

OLTERS 1976, I, pp. 168-169. Una data ad diem

per i lavori della tomba di Iacopo II - e verosimilmente anche di quella gemella di Ubertino - è offerta dalla Fam. XI 3 dell’epistolario petrarchesco. È il poeta a ricordarci come in una sera del maggio 1351 componesse l’epitafio per il defunto signore padovano cercando ispirazione presso il sepolcro, “ad quod poliendum insignis (...) artificum desudabat industria”. Non è possibile stabilire chi fosse il committente; se Iacopo II commissionasse la tomba di Ubertino che poi avrebbe fissato il modello per la sua o se entrambe risalgano ad una commissione di Francesco il Vecchio da Carrara. A favore di una genesi congiunta gioca anche la specularità degli epitafi, che si corrispondono nei concetti e nella sostanza poetica, DONATO 1995, pp. 402-405.

59A Padova il modello è replicato in ambito signorile nel sepolcro monumentale di Fina

Buzzacarini (†1378) in Battistero, oggi solo in parte conservato, ma una ripresa tempestiva è già nella tomba di Rainiero degli Arsendi (†1358) al Santo, mentre a Verona se ne vede il riflesso nella tomba di Giovanni della Scala (†1359), proveniente dai SS. Fermo e Rustico e oggi in Santa Maria Antiqua, come in quella, di molto successiva, di Filippo Guantieri (†1430) in Santa Maria della Scala, rispettivamente KOHL 2001, pp. 19-35, e le schede 83, 84, 191, in WOLTERS 1976, I, pp. 191-192, 254.

1374), da subito meta di visite e pellegrinaggi60; a indicare che l’ambito di diffusione fu,

come era da aspettare, quello degli intellettuali e delle classi dominanti delle città61. Fuori dalla geografia di più stretta pertinenza le fila si fanno meno folte e serrate, e non solo per la selezione operata dai secoli sulle rimanenze. Il modello si prestava ad una committenza colta e consapevole che solo un grande centro urbano poteva offrire in quantità apprezzabile; proprio per questo, però, declinazioni e riprese saranno da considerare in tutta la loro importanza e specificità62. Quanto più ci interessa, la

richiesta di Pandolfo e Ungaro a Petrarca (1364) permette di guardare fiduciosi in direzione di Pesaro e Rimini trecentesche. Altrove sarà da cercare sulla scia degli umanisti amici di Petrarca e di quelli delle generazioni successive; gli indizi raccolti nel seguito su Francesco da Fiano, che vanno oltre Pesaro, sono esemplificativi di un caso di studio.

Uno scavo approfondito sul doppio binario della tradizione epigrammatica e dei modelli tipologici della scultura funebre rimane tutto da intraprendere, ma si rivelerà fruttuoso per chi vorrà affrontarlo. In ultima analisi permetterà di approssimarsi alla preistoria, sinora non riconosciuta, della funeraria del primo Rinascimento. E non è un caso che dopo gli inizi padovani e veneti i primi sviluppi ‘maturi’ e organici si abbiano a Firenze: è questa una vicenda che corre parallela - e altrimenti non avrebbe potuto - all’affermazione dell’Umanesimo civile.

60 Sul monumento, la sua storia e la sua fortuna nella mitografia petrarchesca, T

RAPP

2006, soprattutto pp. 17-33.

61 In un numero più grande, tra gli esempi rilevanti meriterebbe di considerare quelli

veneziani: il sepolcro del doge Andrea Dandolo (†1354) in San Marco, per cui, come si è detto, Petrarca compose un epitafio che fu rifiutato e non è dunque quello che oggi si legge; quello di Michele Morosini (†1382), e, sebbene tarda, la tomba del doge Antonio Venier (†1400), v. le schede 80, 121, 149, in WOLTERS 1976, I, pp. 190, 205-206, 226-

227.

62 Tra le altre penso alle tombe di Prendiparte Pico della Mirandola (†1394) in San

Francesco a Mirandola; di Margherita Malatesta Gonzaga (†1399) già in San Francesco a Mantova e oggi solo parzialmente conservata in Palazzo Ducale; e a quella di Giovanni da Legnano, frammentaria nel Museo civico medievale di Bologna, cui si è accennato per il calco petrarchesco dell’epitafio, v. le schede 135, 136, 147, in WOLTERS 1976, I, pp. 212-213, 214-215, 224-225.

IV.4. “Ritrasse oltre ciò tanto naturale il signor Malatesta (...) che pare vivissimo”. Una santa novella e la promozione figurativa dei Malatesta di Rimini e Pesaro

Facciamo un passo indietro. L’anno del primo incontro con Petrarca è denso di eventi significativi per biografia di Pandolfo Malatesta. Il 19 giugno 1356 muore a Pesaro la terziaria francescana Michelina, un personaggio della cui prima biografia sappiamo poco, ma che dovette essere legata ai Malatesta per via del matrimonio contratto con un familiare o con qualcuno della cerchia più stretta dei signori. Rimasta vedova in giovane età, la donna aveva vestito l’abito del Terz’Ordine impegnandosi in una vita di

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