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1 Nonostante non siano mancate le ricerche sulla presenza commerciale inglese in Sicilia,

queste hanno privilegiato il Seicento (Helmut Koenigsberger, Giacomo Dentici, Gigliola Pagano de Divitiis) e, soprattutto, l’Ottocento (Raleigh Trevelyan, Rosario Battaglia, Romualdo Giuffrida, Michela D’Angelo, Francesco Brancato, Rosario Lentini, Sergio Di Giacomo, Maria Teresa Di Paola, Giovanni Raffaele)1. Meno documentato è stato il

Settecento. La carenza di indagini sul Settecento ha prodotto uno sfasamento d’ottica in una parte degli studi centrati sul secolo successivo, impostati sull’erroneo assunto che solo durante gli anni delle guerre napoleoniche i mercanti britannici fossero tornati a guardare con interesse alla Sicilia, dapprima come fenomeno indotto dalla chiusura di altri più importanti mercati in seguito al Blocco Continentale, per poi riannodare più stabilmente i fili allentati con la cesura settecentesca. In realtà il Settecento non era stato affatto una cesura. In una serie di lavori prodotti nell’ultimo decennio, ho provato a documentare come durante il corso del XVIII secolo la Sicilia continuasse ad avere un ruolo di rilievo nel commercio britannico all’interno del Mare Nostrum2.

2 In quest’articolo, invece, mi propongo di evidenziare alcune pratiche e modalità della

presenza consolare in Sicilia. Per la sua duplice funzione, istituzionale e privata (come mercante), il console appare, invero, un’interessante cartina di tornasole per osservare la difficile coesistenza tra spazio pubblico e spazio mercantile ; è insomma un nodo di una rete di relazioni asimmetriche che si muovono tra regola e frode3.

3 È utile partire da due premesse. In primo luogo, com’è stato osservato, occorre tener

presente che mentre i diplomatici di alto livello erano solitamente reclutati tra le fila dell’aristocrazia, i consoli in genere avevano un più modesto background mercantile4.

Come secondo punto, non sarà pleonastico rilevare che, sin dal tardo Medioevo, l’istituzione consolare presupponeva l’accordo del paese cui essa apparteneva e quello che l’ospitava. D’altronde, la giurisdizione consolare si ritagliava e acquisiva attribuzioni

approfittando del grado di statualità debole e ancora in fieri del paese ospitante. Una natio poteva ottenere l’esenzione da dazi e dogane o la concessione di approdi privilegiati, di ripari e salvacondotti di libero transito5. Insomma anche in Sicilia, come nella Toscana

medicea, i rapporti con i consoli esteri « si costruivano su base concordataria e permanentemente rinegoziabile in una continua schermaglia » e dipendevano oltre che da fattori interni anche dal quadro politico internazionale6.

4 Con il consolidamento dell’autorità centrale, le funzioni dell’istituto consolare furono

viste come una limitazione delle prerogative statali sul proprio territorio. In Sicilia, pertanto, i privilegi goduti dai primi consoli stranieri nel Duecento e nel Trecento furono ridotti nei secoli successivi7. Era il caso dei veneziani e dei catalani. Solo i genovesi

riuscivano a stabilizzare le loro prerogative8. Ai nuovi consolati, peraltro, furono

riconosciuti minori privilegi rispetti a quelli goduti dalle più antiche nationes.

5 Non erano mancate in Sicilia nel corso del Quattrocento presenze sporadiche di operatori

commerciali inglesi. Ad esempio Guglielmo Chambre ’de Anglia’ nel settembre 1468 si trovava a Messina, dove aveva venduto a Nicola Fava un mantello di panno di Bruges al prezzo di 20 tarì9. Si trattava, però, di presenze occasionali, di mercanti che arrivavano su

navi italiane – spesso veneziane. Solo dal 1511, con l’arrivo della prima consistente spedizione navale inglese nel Mediterraneo, la presenza mercantile inglese si era fatta più assidua. A partire dal 1511 la documentazione reperibile negli archivi siciliani, reca traccia di un consul angliorum nella persona di Antonio Bettoni, impegnato nel commercio estero dello zucchero10. Il 28 febbraio 1512 il mercante inglese Guglielmo Anex nominava

come suo procuratore il messinese Girolamo Basilico per recuperare le due onze date a Giovanni Antonio « de Prochida » per l’acquisto di 46 pezze di formaggio che non erano mai state consegnate11. L’8 giugno dello stesso anno, l’inglese Tomas Bertuni vendeva al

cittadino messinese Francesco Mazeho per 30 trionfi una serva domestica di carnagione olivastra e di nome Barbara12. Poco più tardi (1516), la documentazione notarile evidenzia

che il console inglese a Messina Carlo de Falconibus era in affari con Petrus de Benedictis, il quale, a sua volta, era stato procuratore del mercante inglese Riccardo Coper13. In quegli

anni, d’altronde, Messina risultava essere un importante mercato di smistamento dei panni di lana inglesi, mentre a Palermo giungevano in maggioranza stoffe di produzione catalana14. La città dello Stretto, inoltre, diveniva un comodo scalo nella rotta che verso il

Levante della navi inglesi15.

6 Fu, tuttavia, nell’ultimo quarto del XVII secolo che si fissarono le modalità del commercio

tra Sicilia e Inghilterra, come ha lucidamente evidenziato Helmut Koenigsberger in un articolo del 194716. In tal senso, la rivolta antispagnola di Messina (1674-1678) e il trattato

di Nimega (1678), segnarono un punto di svolta. Da allora, invero, gli inglesi assunsero la

leadership nel settore del carrying trade nel Mediterraneo centrale. Per fronteggiare i costi

della Guerra d’Olanda, infatti, gli olandesi vendettero agli inglesi molte navi della loro flotta mercantile. Inoltre, i francesi e gli spagnoli uscirono fortemente indeboliti da quel conflitto. Alle osservazioni di Koenigsberger, bisogna aggiungere che il trattato del 1667 tra Spagna e Inghilterra – interpretato da quest’ultima sempre più estensivamente a proprio favore – aveva già notevolmente ampliato gli spazi commerciali degli inglesi nei territori soggetti alla corona spagnola e dunque anche in Sicilia17.

7 L’attenzione rivolta alla Sicilia e al Mediterraneo è ben documentata da un breve scritto

databile intorno al 1676, di cui è autore Richard Gibson, amico e collaboratore di Samuel Pepys, segretario dell’Ammiragliato e personaggio di primo piano dell’establishment politico inglese18. Il contesto è quello della Guerra d’Olanda e si riferisce, in particolare,

alle vicende mediterranee di quel conflitto che ebbero nella rivolta antispagnola di Messina uno dei suoi episodi più significativi. Traspare nelle riflessioni di Gibson la preoccupazione che la Francia potesse prevalere contro spagnoli e olandesi, facendo così della Sicilia una propria base nel Mediterraneo. Se quell’ipotesi si fosse verificata e l’Inghilterra, in seguito, fosse entrata in guerra contro i francesi – osservava Gibson – « we shall bee debarrd [sic] of our trade to Turkey and they secure it to themselvers, and our trade to Mesena [Messina] for silkes, and our Galipoly, Zant, Venice and Naples trade, etc. »19. Inoltre, dopo aver stabilito la propria egemonia sul Mediterraneo centrale, la

Francia avrebbe attaccato e conquistato Tangeri e Jijel20.

8 Con la concessione del porto franco (1695), le attività commerciali a Messina ripresero

vigore dopo che la dura repressione spagnola, seguita alla rivolta del 1674-1678, aveva di fatto compromesso l’economia della città21. I mercanti inglesi tornavano soprattutto per

acquistare seta filata, mancando in Inghilterra la tecnologia necessaria di realizzare filati sufficientemente resistenti per l’ordito22. Console inglese a Messina era il mercante

Thomas Chamberlayne, che dal 7 all’11 novembre del 1700 ospitava in casa sua i viaggiatori William Cecil, figlio del V conte d’Exeter, e John Dryden junior, figlio dell’omonimo poeta e da tempo dimorante a Roma dove svolgeva l’incarico di cameriere d’onore del pontefice Clemente XI23. Prima della partenza forzata dalla Sicilia, in seguito

allo scoppio della Guerra di Successione Spagnola che contrapponeva le corone borboniche di Francia e Spagna, a Inghilterra, Austria e Olanda, a Messina erano presenti quattro case commerciali inglesi : « Carlo Balle et [H]opegood, Cottingh e Beale, Tomaso Chamberlayn e compagni, Rogier Drach e fratelli »24.

9 In vista della conclusione della Guerra di Successione Spagnola, mentre ad Utrecht si

svolgevano i negoziati di pace, era sollecitato il parere dei più importanti mercanti britannici che commerciavano con la Sicilia. Il memoriale, allegato ad una lettera datata 18 dicembre 1712, era inviato ai Lords Commissioners for Trade and Plantations25. Considerato

il venir meno della giurisdizione spagnola sulla Sicilia, i commercianti chiedevano la conferma dei privilegi contenuti nel trattato del 1667, tra cui la franchigia da una serie di atti ispettivi (impossibilità per gli organi di controllo siciliani di perquisire le loro case mercantili, ispezionare i loro libri e produrli davanti ai tribunali, a cui si aggiungeva il divieto di controllare i carichi delle navi ferme nei porti). Invero, con il passaggio della Sicilia all’amministrazione sabauda, il nuovo sovrano Vittorio Amedeo II stipulava con la Gran Bretagna una convenzione che recepiva le clausole del trattato di commercio del 166726. Gli inglesi potevano radicare ulteriormente i loro interessi commerciali nell’isola e

le funzioni dei loro consoli si ampliavano. Il 14 dicembre 1714, Vittorio Amedeo II concedeva alla British Factory messinese di dotarsi di strumenti giurisdizionali autonomi per regolare i propri interessi commerciali27. In particolare al console britannico Thomas

Chamberlayne era consentito di istituire una Court of Judicature, che avrebbe avuto competenza non solo sulle controversie riguardanti i mercanti britannici, ma anche su quelle sorte tra inglesi e siciliani. Era lo stesso console a nominare gli ufficiali che avrebbero emesso i giudizi in tali cause. Era previsto un unico appello, su cui si sarebbe pronunciato direttamente il re. L’ampliamento delle prerogative consolari schiudeva spazi di manovra al Chamberlayne che di lì a poco sarebbe stato accusato di praticare il contrabbando dal viceré di Sicilia Annibale Maffei (1717)28. Nell’estate del 1718, quando in

seguito all’effimero tentativo di riconquista le armate spagnole entravano a Messina, Chamberlayne e gli altri mercanti inglesi residenti in città erano inprigionati nel Castello di Matagrifone e i loro beni erano requisiti29.

10 Nel 1720 la Sicilia passava sotto l’amministrazione degli Asburgo. Carlo VI intraprendeva

una politica di stampo mercantilistico che restringeva, di fatto, i margini di manovra dei consoli esteri30. Peraltro, la gestione da parte del console della Court of Judicature non era

sempre limpida e diveniva uno strumento per perpetrare abusi nei confronti di altri mercanti suoi connazionali. In occasione della Fiera d’agosto del 1722, invero, la nave Il

Cigno del capitano Joseph Raddon si trovava a Messina « per conferirsi in Agrigento con

carico di frumenti per Lisbona »31. « Mentre stava su la partenza detta nave, li fu impedita

la patente già disbrigata » per ordine del console Thomas Chamberlayne32. Chamberlayne

e il suo socio Rudolph Lee erano, infatti, creditori di Raddon. Utilizzando per i propri fini la Corte consolare, Thomas Chamberlayne costringeva Raddon a prestare pleggeria (una sorta di odierna malleveria), obbligandolo a depositare 325 onze. Da Messina, a Lisbona, a Livorno una serie di mercanti britannici, soci in affari del Raddon, scrivevano alle autorità siciliane affinché affidassero ad un tribunale statale il compito di risolvere la controversia. « Non fu mai formata una pretensione tanto ingiusta quanto quella del console di esser giudice e parte » scrivevano da Livorno Gould Gott e Yates33. « Giudice e

parte nell’istessa persona sono idee insussistenti insieme fin da quando furono formate le leggi d’Europa, e non si puol presumere che quelle leggi fondamentali non abbino il loro giusto vigore tuttavia in Sicilia », aggiungeva da Lisbona Giovanni Sherman34. Ne seguiva

una lunga disputa legale che si concludeva due anni dopo, quando il Consolato del Mare di Messina annullava l’atto disposto dalla Court of Judicature britannica.

11 In siffatto contesto, non desta stupore che nell’estate del 1725, in seguito a contrasti sorti

con il nuovo console William Chamberlayne, nipote di Thomas, alcuni mercanti appartenenti alla British Factory di Messina inviavano un memoriale all’imperatore chiedendo l’abolizione della Court of Judicature35. L’iniziativa, tuttavia, appariva

incomprensibile al segretario di stato britannico Holles Newcastle. Questi, nonostante non conoscesse i contenuti del memoriale dei mercanti, era perplesso poiché la richiesta aveva come conseguenza di abolire « their own privileges, which had been obtained for them, and were lately confirmed by the Vice Roy, and which the Factorys of other Nations residing there enjoy »36. Nel novembre dello stesso anno, in ottemperanza ad un ordine

del settembre precedente dell’imperatore Carlo VI, la Regia Gran Corte disponeva la chiusura del tribunale poiché il « console britannico in Messina […] pretendeva di esercitare giurisdizione contenziosa » ledendo così le prerogative del sovrano37.

12 La British Factory messinese si ricompattava in vista della pubblicazione di un bando che

proibiva l’importazione in Sicilia di alcuni tipi di tessuti inglesi – « duroys, callemancos, camletts druggetts and other stuffs proper for summer ware » –, di cui Chamberlayne aveva avuto notizia preventivamente già nella primavera del 172638. Infatti, il 10 giugno

1726 il console e i mercanti della Factory presentavano un memoriale al viceré conte di Palma chiedendogli di non promulgare il predetto bando in quanto avrebbe violato i deliberati del trattato di commercio del 1667 – recepiti dall’Impero nel 1709 – nonché quanto previsto dal Bando di Istituzione della Scala e Portofranco di Messina che concedeva ai mercanti di tutte le nazionalità di « esercitare qualsivoglia traffico e negoziazione, vendere, comprare ed uscire qualunque mercanzia, robbe e altra cosa »39.

L’iniziativa, però, non avrebbe sortito gli effetti sperati. Peraltro, la politica commerciale di Carlo VI e il suo supporto alla Compagnia di Ostenda rendevano tesi i rapporti con la

Gran Bretagna e determinavano allarme nella comunità inglese di Messina40. Nel 1727,

Chamberlayne chiedeva un salvacondotto di sei mesi per i suoi connazionali nell’eventualità dello scoppio di una guerra41. Le apprensioni, nondimeno, sarebbero

cresciute nei mesi seguenti dopo la stipula del trattato di Siviglia tra Spagna e Gran Bretagna (1729).

13 L’utilizzo della Court of Judicature per fini personali non sarebbe stato l’unico caso in cui

accanto alle funzioni istituzionali si venivano a strutturare anche una serie di pratiche illegali o al limite della legalità. Tutt’altro che rare erano, ad esempio, le situazioni in cui il console suggeriva ai mercanti propri connazionali di violare i limiti posti all’acquisto della seta, comprandola con la complicità di siciliani che fungevano da prestanome. Insomma i consoli svolgevano una funzione di intermediazione tra le istituzioni locali e i mercanti agendo frequentemente in violazione di leggi e regolamenti, spesso con la connivenza degli ufficiali del portofranco o dei funzionari della dogana o di altre figure che prendevano parte alle transazioni commerciali. È quanto emerge da due relazioni consolari della seconda metà del Settecento, quando – dopo l’ennesimo cambio dinastico – sulla Sicilia e su Napoli regnava Ferdinando IV di Borbone. La prima relazione, datata 14 maggio 1765, era redatta dal console inglese a Messina George Tatem42. Tatem che

ricopriva l’ufficio di console da circa vent’anni, aveva una lunga esperienza in loco43. Il

console, nella sua relazione, tornava sul trattato stipulato con la Spagna nel 1667, grazie a cui i sudditi inglesi godevano di privilegi analoghi a quelli delle nazioni più favorite, ed erano anche esentati dal pagare dazi doganali più alti rispetto a quelli corrisposti dai nativi. Inoltre, Tatem rilevava un elemento di contrasto con quanto previsto dal regolamento per il porto franco di Messina. Esso, infatti, stabiliva che tutti i mercanti fossero soggetti allo stesso tipo di imposte, mentre, negli ultimi anni, i messinesi avevano ottenuto di non pagare alcuna tassa su ciò che veniva importato dall’estero in qualunque altra parte del Regno, dopo aver corrisposto il dovuto su ciò che veniva esportato da Messina44. Si trattava di un privilegio, però, di cui non godevano né i mercanti inglesi, né

gli altri mercanti stranieri. Ne conseguiva una disparità di trattamento, con pregiudizio per gli affari, che induceva Tatem a sollecitare l’intervento del governo britannico. Il console suggeriva una soluzione anche per ciò che riguarda la pratica delle continue quarantene a cui, a suo dire con « frivolous pretests », erano sottoposte le navi straniere. La lunga durata di queste quarantene recava estremo nocumento alla navigazione e al commercio. La perdita di tempo causava, infatti, spese maggiori di qualunque altro onere. Per tali motivi, ad avviso del console, le navi straniere sceglievano di fare scalo nei porti siciliani solo quando erano obbligate da necessità manifeste. Per Tatem si poteva rimediare a ciò corrispondendo « decent and fixed salarys » ai medici, al maestro notaio e agli altri ufficiali subalterni della Deputazione di Salute, così da dissuaderli dal trarre lucro abusando delle mansioni che svolgevano. Inoltre, secondo Tatem, i consoli delle nazioni straniere avrebbero dovuto essere sempre informati quando la Deputazione di Salute riceveva gli ordini di imporre o togliere una quarantena. Essi, a loro volta, avrebbero dovuto comunicare la notizia ai consoli residenti in altre sedi. In questo modo i comandanti dei vascelli sarebbero venuti a conoscenza delle formalità richieste nei porti della Sicilia verso cui si stavano dirigendo ed avrebbero potuto provvedere ad espletarle in tempo. Ad avviso di Tatem, la quarantena avrebbe dovuto essere dichiarata solo quando la documentazione delle navi fosse stata priva dei requisiti richiesti. Tra le cause

che recavano pregiudizio al commercio britannico, Tatem elencava anche la difficoltà di ottenere giustizia contro i debitori fraudolenti e l’obbligo imposto da una recente ordinanza ai mercanti di dichiarare la quantità di seta acquistata e il prezzo dell’acquisto. La veridicità di quanto dichiarato, d’altronde, poteva essere accertata attraverso l’ispezione delle case e dei libri dei mercanti stranieri. Tatem riferiva che, quando l’ordinanza era stata pubblicata, egli aveva avvisato il rappresentante inglese presso la Corte napoletana James Gray. Questi aveva approvato l’espediente di aggirare l’imposizione acquistando la seta sotto il nome di nativi del paese, suggerito da Tatem ai suoi connazionali. Le valutazioni del console inglese possono sembrare incoerenti visto che nello stesso documento accusava il governo borbonico di non combattere sufficientemente il contrabbando e poi, per aggirare una norma ritenuta lesiva degli interessi britannici, suggeriva un escamotage non altrimenti qualificabile che come contrabbando. In realtà, i consoli stranieri avevano come finalità precipua la difesa degli interessi della madrepatria ed in definitiva dei propri interessi : anche i consoli, infatti, erano quasi sempre mercanti. La clausola del trattato del 1667 che impediva i controlli doganali a bordo delle navi era l’armatura giuridica che agevolava il contrabbando. Per limitarne gli effetti il governo borbonico avrebbe tentato di giungere alla stipula di un nuovo trattato commerciale45. Uno dei terreni di confronto in tal senso divenne la vicenda

dell’exequatur che diveniva incandescente nella prima metà degli anni Settanta del Settecento46. Senza l’ottenimento del regio exequatur, i consoli stranieri non avrebbero

potuto esigere i loro diritti né esercitare alcun atto collegato al loro ufficio e nemmeno esporre sulle loro case le insegne della nazione da cui erano accreditati. La contesa sull

’exequatur dunque, era uno strumento di pressione utilizzato da Bernardo Tanucci,

segretario di stato di Ferdinando IV, per ottenere condizioni commerciali più favorevoli. D’altro canto, gli inglesi non avevano intenzione di concedere nessuna revisione del trattato del 166747.

14 Un secondo documento ci consente di osservare nel concreto la duplice partita che il

console giocava, fornendo suggerimenti su come sconfiggere la concorrenza commerciale delle altre nazioni e contemporaneamente su come districarsi tra le maglie della giurisdizione vigente nel territorio in cui operava. Si tratta di una relazione, datata 8 febbraio 1774, redatta dal nuovo console britannico in Sicilia, Herman Katenkamp48. Di

origine tedesche, Katenkamp era figlio di un commerciante di Brema emigrato ad Exeter49

. Era stato nominato console britannico in Sicilia il 27 dicembre 177150. Nella sua relazione

esprimeva preoccupazione per la flessione dei rapporti commerciali fra Sicilia e Gran Bretagna51. L’importazione in Sicilia dei manufatti di lana inglesi era diminuita poiché

questi erano particolarmente costosi. In questo contesto, i francesi avevano introdotto manufatti di lana a basso costo. Anche i prodotti di cotone, ferro e acciaio provenienti dall’Inghilterra, pur essendo oltremodo apprezzati dai siciliani tanto da essere ritenuti i migliori, subivano, tuttavia, la concorrenza delle merci di altri paesi, poste sul mercato locale a prezzi inferiori. Il console britannico rilevava che le importazioni dirette di prodotti inglesi in Sicilia erano assai modeste per ciò che riguardava Palermo, Trapani e le altre città siciliane, poiché esse si rifornivano via Napoli e Livorno. Inoltre, le merci britanniche erano acquistate alla Fiera di Salerno. Solo Messina, importando direttamente i prodotti inglesi tramite navi da carico britanniche, costituiva un’eccezione. Utilizzando i

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