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Erasmo e Bruno critici del loro tempo: il Sileno come immagine della cris

II. 2 “La verità [ ] è sempre nascosta nel profondo”

II.4. Il sapiente e il volgo

Oltre alla critica degli ambienti accademici, di cui Nundinio e Torquato sono gli esponenti per eccellenza, nella Cena trova spazio anche un altro tema centrale in Bruno: la critica della “barbarie” del popolo, cieco, violento, mostruoso. L’antinomia fra la saggezza del vero sapiente e il volgo rozzo e ignorante, strutturalmente incapace di accedere alla conoscenza, è infatti anch’esso uno dei tanti fili che si intrecciano nell’opera, di cui il filosofo di Nola si serve per sottolineare, ancora una volta, la tragicità della condizione in cui versa la società contemporanea. Considerata infatti l’importanza dell’“occhio silenico”, quindi della finezza intellettuale richiesta per scorgere e ristabilire l’equilibrio dei piani, la “sciocca moltitudine”, la rustica plebaglia, massimo esempio di “presunzione et inciviltà”, viene ad essere un vero e proprio “mostro”, che adombra ogni speranza di poter uscire dallo stato di crisi.

I passi in cui nella Cena si fa riferimento a questo tema sono molteplici. Parlando del fine morale delle Scritture, ad esempio, si è visto come la necessità di ricorrere ad un lessico semplice e immediato, facilmente comprensibile da tutti, implica già l’accusa di una non trascurabile stolidità della maggioranza: questa infatti è innanzitutto bisognosa di un codice di leggi scritte che le chiarisca quali comportamenti sono giusti e quali sbagliati, e, in secondo luogo, non è abituata ad avere a che fare con parole diverse da quelle di uso comune, che pertanto potrebbero rimanere incomprese, o creare una rovinosa confusione.

Tuttavia, oltre a questo punto, affrontato nel Dialogo IV dell’opera, vi sono moltissimi altri luoghi dove la moltitudine è vituperata e spregiata, attraverso uno sfogo che raggiunge il culmine nelle feroci pagine di critica alla plebe

inglese,148 della quale vengono prese di mira soprattutto la xenofobia e la violenza.

Ovviamente, per comprendere appieno il senso di questa critica spietata, dovremmo tenere presente la situazione biografica di Bruno, che, come abbiamo accennato, proprio in Inghilterra si trovò a vivere in uno stato di forte isolamento. Ne parla lui stesso nella Proemiale epistola del De l’infinito, universo e mondi, dove scrive che proprio in quanto “delineatore del campo della natura”, ovvero in quanto filosofo e sapiente, era malvisto e disprezzato: “chi osservato m’assale, chi giunto mi morde, chi compreso mi vora; non è uno, non son pochi, son quasi tutti”.149 La stessa condizione è ravvisabile anche nelle pagine dello Spaccio de la bestia trionfante, dove, lamentando i continui insuccessi dei suoi tentativi di mostrare la verità al mondo, Bruno scrive:

E perché il numero de stolti e perversi è incomparabilmente più grande che de sapienti e giusti, aviene che se voglio remirare alla gloria o altri frutti che partorisce la moltitudine de voci, tanto manca ch’io debba sperar lieto successo del mio studio e lavoro, che più tosto ho da aspettar materia de discontentezza, e da stimar molto meglior il silenzio ch’il parlare.150

Il giudizio di Bruno sulla moltitudine è sempre negativo: il tratto distintivo per eccellenza di quest’ultima è per lui una più o meno radicata incapacità di fuoriuscire dalla condizione di ignoranza, quindi di acquisire conoscenza.151 Alla fine del Dialogo I della Cena si trova una riflessione su come l’ignoranza dilagante sia divenuta una vera e propria “consuetudine”; essere rozzi e “asini” è ormai la regola generale, che impedirebbe anche a chi fosse dotato di un ingegno “capace et abile” di distinguere la verità in mezzo a così tante assurde opinioni e false credenze. Si giunge addirittura al paradosso: “Quei che studiano non aranno

148

Cfr. ivi. pp. 52-57: “[...] importunissimamente, a dispetto del mondo ne viene a proposito una plebe [la plebe inglese], la quale in esser plebe non è inferiore a plebe alcuna, che pasca nel suo seno la pur troppo prodiga terra: perché questa veramente dà saggio di plebe de tutte le plebe che io possa aver sin ora conosciute irriverente, irrispettevole, di nulla civiltà, male allevate [...]”.

149

G. BRUNO, De l’infinito universo e mondi, in DFI, cit., p. 301.

150 I

DEM, Spaccio de la bestia trionfante, in ivi, p. 460.

151 Su quanto disperata fosse, secondo Bruno, la situazione a questo riguardo, cfr. la battuta di

Frulla in G. BRUNO, La cena de le Ceneri, cit., p. 35, che alla domanda di Smitho su come si possano correggere le opinioni di “quei che son al tutto pazzi”, risponde: “col toglierli via quel capo, e piantargline un altro”.

al fine guadagnato altro, che esser promossi da non sapere (che è una privazione de la verità) a pensarsi e credersi di sapere, che è una pazzia et abito di falsità”,152 oltre che al vero e proprio rovesciamento: “Non mi maraviglio, per che (come è ordinario) quei che manco intendeno, credono saper più: e quei che sono al tutto pazzi, pensano saper tutto”.153

Tale è la condizione in cui versa la cultura nella società contemporanea. Per questo, quando Smitho chiede dei consigli per avvicinarsi allo studio e alla comprensione della verità, Teofilo non può che metterlo in guardia, dicendo:

TEOFILO: [...] Gli uomini savii e divini son assai pochi;154 e la volontà di dèi è questa, atteso che non è stimato né prezioso quel tanto ch’è comone e generale.

SMITHO: Credo bene che la verità è conosciuta da pochi, e le cose

preggiate son possedute da pochissimi [...].

TEOFILO: Bene, ma in fine è più sicuro cercar il vero e conveniente fuor

de la moltitudine: perché questa mai apportò cosa preziosa e degna; e sempre tra pochi si trovano le cose di perfezzione e preggio [...].155

Ma gli esempi non finiscono qui: fra i meriti che, nel Dialogo I, Teofilo riconosce a Copernico figura quello di aver avuto “poco riguardo a la stolta moltitudine”;156 e riguardo a coloro che si avvicinano all’autentica “cognizione de la verità”, ovvero gli iniziati alla “filosofia nolana”, si dice che:

Color ch’hanno la possessione di questa verità non denno ad ogni sorte di persona comunicarla, si non vogliono lavar (come si dice) il capo a l’asino,157 se non vuolen vedere quel che san far i porci a le perle [...].158

Diretta conseguenza dell’ignoranza e della volgarità dei più, è quindi il fatto che la verità “è conosciuta da pochi”: essa si nasconde agli occhi del volgo, è inaccessibile e segreta. Ci spostiamo quindi da una critica che potremmo

152

G. BRUNO, La cena de le Ceneri, cit., p. 36.

153

Ivi, p. 35.

154 Cfr. ivi, p. 30: “In fatto tutti gli orbi non vagliono per uno che vede, e tutti i stolti non possono

servire per un savio”.

155

Ivi, p. 38.

156 Ivi, p. 25. 157 Cfr. E

RASMODA ROTTERDAM, Adagi, cit., Non lavare la testa dell’asino col nitro (2239), p. 1779.

158

G. BRUNO, La cena de le Ceneri, cit., p. 30. Sull’espressione “perle ai porci”, che peraltro ritorna frequentemente in Bruno, cfr. Mt, 7, 6.

definire “morale”, in quanto riguarda i rozzi costumi della moltitudine, a quello che è il cuore dell’ontologia e della gnoseologia bruniana, ovvero il fatto che la verità sia qualcosa di sfuggente, che neanche i più saggi potranno mai “vedere”159 nella sua totalità. Poter scorgere anche solo l’ombra della verità è un traguardo che richiede sforzo e fatica, oltre al possesso di una straordinaria facoltà d’intendere e di percepire.160

Nel Dialogo II della Cena, il travagliato percorso dei personaggi verso la casa di Greville vuole proprio rapprestentare l’insidioso cammino che dovranno necessariamente intraprendere coloro che vogliono giungere alla verità: solo se motivati da un autentico desiderio di conoscerla sarà possibile superare gli ostacoli presenti lungo la strada che ad essa conduce. Per questo Bruno dice che:

Le cose ordinarie e facili son per il volgo et ordinaria gente. Gli uomini rari, eroichi e divini passano per questo camino de la difficoltà, a fine che sii costretta la necessità a concedergli la palma de la immortalità.161

Si tratta di un tema fondamentale per l’intera filosofia bruniana, che ci consente un confronto con un passo dei Sileni Alcibiadis, nel quale si legge:

La verità essenziale delle cose è sempre nascosta nel profondo, affinché questa non sia qualcosa di banale né di facilmente accessibile ai molti. Rovesciando il giudizio, il volgo rozzo si meraviglia e s’interessa solo di ciò che colpisce maggiormente i sensi, cosicché non fa che incespicare e cadere in errore [...].162

Nello stesso adagio, poco più avanti, Erasmo aggiunge inoltre che: “la maggioranza del popolo preferisce ciò che è visibile agli occhi rispetto a ciò che è vero ma ben poco visibile”.163

Notiamo quindi che, anche nel passo erasmiano, il giudizio espresso sul popolo è estremamente negativo: il volgo non è interessato alla verità in quanto

159

Si noti di nuovo la metafora della vista, che per Bruno è davvero fondamentale per descrivere l’atto di acquisizione della conoscenza.

160 Proprio questo tema sarà al centro degli Eroici furori. 161 G. B

RUNO, La cena de le Ceneri, cit., p. 49.

162

ERASMODA ROTTERDAM Adagi, cit., I Sileni di Alcibiade, (2201), p. 1741. 163 Ivi, p. 1749.

tale, soprattutto se il ricercarla significa intraprendere un percorso che richiede dedizione, tempo e fatica. Assai più facile e comodo è prendere per “vero” ciò che, a seguito di una primissima e superficiale considerazione, “sembra vero”. E, sicuramente, la forma di conoscenza più immediata, quindi prediletta dal popolo, è il senso, che chiude le porte della ragione spalancando quelle della credulità e del pregiudizio: utilizzare il senso e l’apparenza per distinguere il vero dal falso è il motivo per cui, come sottolinea Erasmo portando ancora in primo piano la prospettiva del rovesciamento, il volgo confonde le due cose, e “non fa che incespicare e cadere in errore”.

Una riflessione simile viene condotta anche in un altro adagio, intitolato In

foribus urceum,164 che però sembra aprire la strada ad una concezione del volgo

opposta a quella che abbiamo descritto finora. Con l’espressione “orcio sulla porta”, ci dice Erasmo, si usa indicare una cosa “vile e disprezzata”, perché vili e disprezzate sono proprio “quelle cose che si incontrano da ogni parte, e che capitano facilmente a chiunque”.165 A ben vedere, infatti, continua l’autore, nessuno è interessato a prendere un orcio, per quanto pregiato, se questo si trova “sulla porta”, cioè è accessibile e a portata di mano. Al contrario, “si cercano più le perle rare chiuse negli scrigni”.166

Sembrerebbe quindi che, in questo caso, la moltitudine sia improvvisamente disposta a lottare per accaparrarsi i tesori nascosti, a discapito di quanto è più accessibile ed evidente. Tuttavia, riflettendo attentamente sul passo, ci rendiamo conto che, di nuovo, l’opinione popolare è da considerarsi più che mai superficiale: così come nell’adagio precedente, anche adesso non è la verità in se stessa ad esser ricercata, e neanche il valore effettivo delle cose, bensì è la smania di possedere qualcosa di raro, esclusivo e fuori dal comune a guidare l’interesse dei più. Ciò che caratterizza il volgo è, quindi, la totale mancanza di razionale discernimento dei valori, che porta a confondere l’esclusività con la qualità, il convenzionale con l’autentico, la consuetudine con la capacità di pensare criticamente.

164 Cfr. ivi, L’orcio sulla porta (1065), p. 987. 165

Ibidem.

Per Bruno, sapiente isolato, la consapevolezza di non esser parte del volgo ignorante è motivo di orgoglio, e questo, unito alla convinzione, che permane nonostante tutto, di non esser nato per altro scopo che quello di portare a termine la sua missione, lo induce a scrivere così:

Ma se fo conto dell’occhio dell’eterna veritade, a cui le cose son tanto più preciose et illustri, quanto talvolta non solo son da più pochi conosciute, cercate e possedute, ma et oltre tenute a vile, biasimate, perseguitate: accade ch’io tanto più mi forze a fendere il corso dell’impetuoso torrente, quanto gli veggio maggior vigore aggionto dal turbido, profondo e clivoso varco.167

Le difficoltà sono quindi una triste, ma inevitabile, prerogativa della ricerca del sapere autentico o, più in generale, della verità.

167 G. B

CAPITOLO III