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SAVINIO LETTORE DI APULEIO

Mi sto rileggendo in questi giorni quel libro di Lucio Apuleio che dal titolo originale si chiama Le Trasformazioni, e che comunemente è chiamato

L’Asino d’Oro. Sarà la quinta o la sesta volta che me lo rileggo. Ogni volta

me lo leggo meglio.106

Così esordisce Alberto Savinio in uno dei suoi articoli apparsi su «La Stampa», giornale cui collaborò tra il 1934 e il 1940, una selezione dei quali è stata curata da Leonardo Sciascia e pubblicata per i tipi di Sellerio nel 1977, in un volume omonimo al titolo della rubrica: Torre di guardia. Il titolo dell’articolo è, traslitterata in caratteri latini, una parola greca in genitivo plurale: Metamorphoseon.

Converrà cominciare dal titolo, anzi dai titoli.

Prima di tutto quello dell’articolo stesso, il cui genitivo denuncia la propria incompletezza, suggerendo che qualcosa esso stesso cela. Cosa?

Peri metamorphoseon? Metamorphoseon logoi? O magari

Metamorphoseon libri? Certo in questa nota saviniana è questione di libri,

di almeno due libri, quello di Apuleio come quello di Kafka, anzi quello di Apuleio contro quello di Kafka:

Contemporaneamente, e istigato forse dalla quasi identità del titolo, mi sono letto La Metamorfosi di Franz Kafka. Prova che non inganna, questo libro l’ho letto «male».107

Prima di capire che cosa intenda qui Savinio con leggere «bene» e leggere «male», anzi, per cercare di capirlo in maniera più profonda e compiuta, ci autorizzeremo di un ragionamento apparentemente o provvisoriamente arbitrario, fino al punto da farne una questione di titoli.                                                                                                                

106 Savinio 1993, p. 95. 107 Savinio 1993, p. 95.

Savinio scrive che il libro di Apuleio si chiama Le Trasformazioni «dal titolo originale», ma che è chiamato «comunemente» L’Asino d’Oro; dando cioè per scontato che il primo sia anche il primo titolo, l’originale, mentre il secondo sia una successiva denominazione comune, e sia quindi, in un certo senso, volgare.

Vero è che il grande libro di Apuleio comincia la lunga lista delle sue indecidibilità proprio a partire dal titolo, in quanto la tradizione ce ne ha consegnati due – e non assieme. Il primo, quello di Metamorfosi, rimonta alle subscriptiones presenti nel codice F,108 le quali fanno riferimento all’attività di emendatio del testo effettuata dal grammatico Gaio Crispo Sallustio alla fine del IV secolo;109 il secondo, quello di Asino d’Oro, risale a una testimonianza di Agostino contenuta in un passaggio del De ciuitate

Dei, opera realizzata tra il 413 e il 426.110 Fulgenzio nel sesto secolo li usa entrambi, ma mai insieme.111

In generale è riscontrabile negli studiosi moderni, salvo eccezioni,112 la medesima propensione che ebbe Savinio a favorire il primo; così ad esempio Harrison: «This was clearly the title of the novel at the end of the fourth century when edited by the scholar Sallustius though Augustine’s reference to it as the Golden Ass occurs not long afterwards».113 Su cosa sia basata questa preferenza non è però immediatamente chiaro, essendo qui la priorità cronologica (di circa vent’anni) dell’attività di Sallustio sulla                                                                                                                

108 F = Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 68, 2 (metà sec. XI), è il più antico

testimone delle opere non filosofiche di Apuleio, contenendo Apologia, Metamorfosi e

Florida.

109 Sull’attività di Sallustio fondamentali sono Marrou 1932 e Pecere 1984.

110 Aug. civ. 18.18. Per la cronologia di composizione del De ciuitate Dei, cf. Lambot

1939, pp. 109-115.

111 Cf. Winkler 1985, p. 297 n. 11.

112 Winkler 1985, pp. 292-320; Münstermann 1995, pp. 46-56; Bitel 2000-2001.

113 Harrison 2000, p. 210 n. 1. In questa prospettiva si veda anche Sandy 1997, pp. 233-

scrittura di Agostino del tutto irrilevante, come ha già argomentato Winkler.114 Va inoltre notato che l’impiego (o la scelta) del titolo

Metamorphoseon libri da parte di Sallustio potrebbe essere un’operazione

non immune da una certa logica. Sallustio dové essere infatti quasi certamente connesso col circolo dei «pagan reactionaries» raggruppato intorno a Quinto Aurelio Simmaco, in un contesto, quello delle ultime due decadi del IV secolo, di particolare “conflitto” tra cultura pagana e cristiana.115 Indipendentemente da come si decida di valutare questa situazione di conflittualità tra le due culture,116 rimane il fatto che per un Sallustio di IV secolo exeunte, se ci fosse stato da scegliere tra l’un titolo e l’altro, la scelta sarebbe stata in un certo senso guidata, se non del tutto scontata.117

Una questione a questo punto si impone: a che titolo si preferisce un titolo?

La predilezione per l’uno a dispetto dell’altro, negli studiosi moderni, – oltre a un certo qual prestigio del laurenziano, capostipite della nostra tradizione manoscritta, cui fa da pendant un certo qual sminuimento, mi sembra, del credito che normalmente si conferisce ad Agostino in rapporto                                                                                                                

114 Cf. Winkler 1985, p. 234. Il testo di Apuleio che Agostino dovette aver letto non

poteva infatti non rimontare alla seconda metà del IV secolo.

115 Cf. Marrou 1932, p. 94; Cameron 1977, pp. 5-6. Carver 2007, p. 13-15. Carver

ipotizza che il “recupero” di Apuleio potrebbe essere in qualche modo legato a una sorta di propaganda pagana volta a competere contro la cristianità: «the reactionaries also supported the more recently imported mystery cults of Eastern deities such as Isis and (in particular) Mithras which were better able to compete with Christianity in popular and personal appeal. Apuleius is one of only a handful of literary figures to appear on the contorniates—‘coin-like monuments’ from Rome which circulated ‘as pagan propaganda’ during this period» (p. 15). Carver ipotizza quindi, a p. 26, che l’uso del titolo Metamorfosi possa essere il risultato «of the attempt to promote the work as an elevated piece of pagan propaganda while dissociating it from the realms of vulgar storytelling implied by the alternative title».

116 Per una prospettiva diversa da quella di Carver, e forse più equilibrata, si veda

Stramaglia 2003, pp. 129-135.

alle “cose apuleiane”118 – pare connessa a ragioni, potremmo dire, di tradizione letteraria; scrive difatti Harrison: «Metamorphoses is the key element because of its connections with the homonymous works of Lucius of Patras and Ovid».119

Non troppo lontana da ciò dovette essere la ragione che spinse Savinio a considerare questo titolo come quello «originale», e l’altro come una sorta di denominazione comune. Quello che però è interessante, nello scritto saviniano, è il confronto, anzi la collisione, del testo dell’autore latino con quello kafkiano, a cominciare proprio dal titolo. La Metamorfosi di Kafka, come libro che Savinio ha letto «male» e alla cui lettura è stato istigato «dalla quasi identità del titolo». Quasi identità, ma qual è l’identità di questo «quasi»? Quale la differenza, cioè, che lascia spazio al «quasi»?

È curioso che il titolo kafkiano (Die Verwandlung) sia italianizzato nella sua forma greca (La Metamorfosi), mentre quello apuleiano lo sia sub

facie latina (Le Trasformazioni), tanto più che l’articolo saviniano porta

esso stesso a titolo, come già detto, direttamente la parola greca (Metamorphoseon). Che questa non identità passi proprio per la latinizzazione?

Che la differenza di cui è qui questione possa concernere l’uso della parola “trasformazione” in luogo della parola “metamorfosi”, pone al centro, a ben guardare, il problema del testo: quale Apuleio si lesse Savinio? Lo lesse tradotto oppure no? E se sì, secondo quale traduzione? L’impiego della parola “trasformazioni” potrebbe in questo senso indurre a chiedersi se sia qui operativo o meno, e se sì fino a che punto, il filtro                                                                                                                

118 Sul rapporto tra Agostino e Apuleio si vedano Hagendahl 1967, pp. I, 17-28 e II,

680-689; Moreschini 1978, pp. 240-258; Horsfall Scotti 1990, pp. 299-311 e 317-320.

119 Harrison 2000, p. 210 n 1. Si veda però l’interessante articolo di Grilli 2000, che

argomenta in favore di una interpretazione (neo)platonica del titolo Metamorfosi come trasformazioni (al plurale) dell’anima.

bontempelliano.120 Tale domanda non sarebbe in sé oziosa, eppure, per quanto riguarda Alberto Savinio, rimane una questione non dico mal posta, ma destinata a cadere à côté. In primo luogo perché egli, da poliglotta qual era, dové verosimilmente possedere più versioni di un testo che aveva prediletto in modo particolare; in secondo luogo perché sovente, anzi la quasi totalità delle volte, egli nei suoi testi cita Apuleio direttamente in latino; in terzo luogo perché – ed è il minimo che possiamo dire – egli non lesse Apuleio una volta sola, o in un momento solo della sua carriera, ma lo lesse (e lo riscrisse) potremmo dire per tutta la vita. Certamente possiamo affermare che Savinio lesse, ed ebbe a stima, la versione italiana del XVI secolo fatta da Agnolo Firenzuola, il cui titolo era però L’asino d’oro, poiché fa riferimento ad essa e nell’articolo di cui parliamo e nel racconto

La Nostra anima.121

Detto questo, non abbandoneremo la prospettiva della “latinizzazione” perché Savinio stesso, nell’articolo, non l’abbandona; anzi, guidati da lui, saremo costretti a farne non tanto una questione di lingua quanto una questione di mente. Prima di inseguire però il concetto saviniano di “latinità mentale”, strettamente connesso, in questo caso, al suo leggere «bene» o leggere «male», vorremmo indugiare ancora sul problema della non identità del titolo. È possibile infatti che questa risieda, se non su un piano di lingua, su quello del numero. Le Metamorfosi da un lato, La

Metamorfosi dall’altro: più trasformazioni contro una trasformazione sola.

Il paradigma del numero, nell’opposizione tra singolare e plurale, è tanto più interessante quanto, pur nascendo da un confronto tra il libro di Apuleio e quello di Kafka, si presta a essere riferito al testo di Apuleio                                                                                                                

120 Massimo Bontempelli pubblicò, nel 1928, una traduzione del romanzo di Apuleio

per i tipi della Società Anonima Notari, intitolandolo Le Trasformazioni.

stesso. Dei due titoli che la tradizione ci ha consegnato, uno, quello plurale, connette il testo apuleiano a un preciso genere in senso lato, a un ventaglio di opere (ed è in questo senso perfettamente in sintonia con l’attività di natura scolastica del grammatico Simmaco);122 l’altro, quello tràdito da Agostino, lo individua singolarmente. Non solo: individua a ben guardare il testo apuleiano tanto nella sua singolarità quanto nella sua unitarietà. In tal modo questi due titoli rispecchiano in un certo senso due modalità di lettura che per tutta la storia della ricezione del romanzo apuleiano si sono contrapposte – le quali tuttora coesistono, cioè, come possibili. Il che significa, da un lato, che mettere in rilievo le ragioni dell’una non porterà mai ad annullare l’altra, e dall’altro lato, che il peso che si è disposti a ripartire tra l’una e l’altra dipende dal contesto culturale in cui si effettua la lettura in generale, e dalla pre-comprensione che del testo si può avere in particolare. Due modalità di lettura: l’una pone in risalto la pluralità delle storie e delle avventure che si succedono in quegli undici libri di metamorfosi, l’altra accentua piuttosto l’unitarietà di un percorso continuo,

la parabola che la vicenda di Lucio-uomo e Lucio-asino, un asino aureo,123

nel corso di quei libri disegna.124                                                                                                                

122 Sul significato del titolo Metamorfosi cf. Perry 1923; Bitel 2000-2001, p. 209 con

bibliografia. Sul contesto “scolastico” dell’attività di Simmaco cf. Stramaglia 2003, pp. 129-135.

123 Sulle possibili significazioni dell’espressione Asinus Aureus, si vedano Martin 1970,

Winkler 1985, pp. 298-305, e Bitel 2000-2001, pp. 210-212 e 220-231.

124 Per cogliere questa contrapposizione nella storia della ricezione del testo si può

confrontare, ad esempio, il caso di Boccaccio ri-scrittore di alcuni episodi apuleiani (cf. almeno le novelle del Decameron 7.2 e 5.10 che riprendono rispettivamente le storie apuleiane di Met. 9.5-7 e 9.14-31) quale esempio della prima modalità di lettura, con il caso di Machiavelli autore del poemetto intitolato L’Asino e rimasto incompiuto, il quale coglie e valorizza, rispetto alla vis centrifuga della narrativa boccaccesca, l’aspetto centripeto e allegorico-moraleggiante della parabola dell’uomo tramutato in asino. Sulla relazione tra Boccaccio e Apuleio si vedano Sanguineti White 1977, Bajoni 1994 e Gaisser 2008, pp. 93-121. Su come queste due modalità di lettura invece si sono riverberate (e continuano a riverberarsi) nella critica apuleiana moderna, se ne può avere un’idea leggendo Schlam 1971; recentemente, e sinteticamente, Carver 2007, pp. 2-7.

Per quel che è di Alberto Savinio, scrittore sfuggente e versicolore quant’altri mai, il minimo che possiamo dire è che egli a priori sarebbe capace di prendere il partito di tutte e due: la questione per quale delle due effettivamente, se lo fece, egli propese e perché, dimora pertanto come una delle più pertinenti.

Il confronto tra il testo apuleiano e quello kafkiano cui egli dà luogo nelle prime pagine dell’articolo intitolato Metamorphoseon fornisce forse un indizio che permetterà di tentare una prima risposta, o il primo abbozzo di una risposta.

Il confronto tra i due testi, a dispetto della identità o quasi identità del titolo, è tutto centrato a cogliere una eclatante differenza di fondo, che l’autore riconduce alla specificità della «mente latina». La mente latina, secondo Savinio, è caratterizzata dall’assioma per il quale «la ragione precede i fatti e ne determina l’esistenza».125 Che questo assioma, «uno degli assiomi più belli», sia vero o falso, poco importa dice l’autore, ed è ben possibile che esso sia falso. Apuleio, diversamente da Kafka – per il quale la metamorfosi è una sorta di malattia orrenda, fulminea, inesplicabile e inguaribile – forte di una «ragionata fantasia» ha concepito il mutamento di forma non come atto irrazionale, mostruosità ingiustificata o miracolo, bensì come conseguenza di qualcosa, cioè come premio o punizione. Scrive Savinio:

Non dico che la ragione, questa igiene morale, escluda la malattia, la elimini per sempre (del resto, che condizione inumana e morbosa quella di una salute perfetta!) ma rende razionale la malattia stessa, risponde a ogni singola malattia con una terapia adeguata. Ma al caso di Gregor Samsa, del commesso viaggiatore che una mattina si sveglia trasformato in scarafaggio, quale terapia, quale cura, quale rimedio vorreste opporre?126

                                                                                                               

125 Savinio 1993, p. 95. 126 Savinio 1993, p. 96.

L’idea di un libro fondato sull’assioma per cui vi sia una ratio a precedere i fatti e a determinarne l’esistenza, congiuntamente alla continuità (salvo intrusioni)127 dell’istanza narrativa garantita da un narratore retrospettivo che è anche protagonista, e che racconta una propria esperienza, particolarmente significativa, di vita, tanto che Savinio può riferirsi al romanzo apuleiano come «l’avventura di Lucio»,128 può autorizzarci a pensare che Savinio, mentre saluta l’originalità di un titolo, in fin dei conti ne legittima profondamente l’altro. Ogni operazione saviniana di scrittura che trae ispirazione dal testo di Apuleio costituisce difatti una forma di interrogazione ostinata di quella ratio, un tentativo al contempo di svelamento e di messa alla prova di essa. Prima di lasciare affiorare, da questo saviniano discutere intorno all’opera dello scrittore latino, tale interrogazione, o meglio la forma primigenia di tale interrogazione, consideriamo utile soffermarci su un altro aspetto suscettibile di rientrare nell’ambito di una riflessione su Savinio in quanto lettore di Apuleio. Se la questione del titolo vedeva Savinio schierato accanto alla maggior parte dei critici moderni, un altro elemento nettamente lo allontana da essi. Mi riferisco al fatto che lo scrittore italiano non mostra alcun dubbio riguardo all’autenticità del praenomen tràdito (cf. «Mi sto rileggendo in questi giorni quel libro di Lucio Apuleio…»).

Il nome di Apuleio

Quanto al nome di Apuleio, è communis opinio ritenere che si possa essere sicuri del solo gentilizio, poiché il praenomen dell’autore non                                                                                                                

127 Delle quali la più importante è proprio la fabula, riportata da una vecchia delira et

temulenta.

compare né nelle fonti letterarie antiche129 né nei manoscritti cassinesi, ma entra in scena soltanto a inizio del XIV secolo. In un manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana datato attorno al 1316 (Ottob. lat. 2091) si legge, forse per la prima volta nella nostra tradizione,130 Lucii Apuleii

Platonici Maudorensis Methamorphoseon liber primus incipit.

Scrive pertanto Harrison che il praenomen Lucius «is very likely to be derived from the apparent identity suggested between Apuleius and his narrator Lucius of Corinth».131 L’idea degli studiosi è che tale prenome sia stato aggiunto, al più tardi, da uno scriba del XIV secolo, il quale volle completare il tradizionale Apuleius Madaurensis che trovava a principio del suo esemplare: sulla base di un’interpretazione autobiografica della vicenda narrata lo scriba avrebbe ricavato il prenome Lucio da quello del personaggio del romanzo, quando quest’ultimo in verità, anziché riflettere il prenome reale di Apuleio, dipenderebbe dall'ipotesto greco.132 Occorre notare a questo rispetto che 1) considerare incerto il prenome di Apuleio è filologicamente inevitabile; 2) ritenere il prenome Lucius che si legge nei manoscritti rinascimentali una interpolazione è probabilmente esatto; 3) propendere a causa di questo – cioè della probabile esattezza del punto 2 – per l’opinione che Apuleio in realtà non si chiamava Lucio è arbitrario. Il fatto che il Lucius che compare nei manoscritti possa essere o anche sia un’interpolazione non ci dice nulla circa il prenome reale di Apuleio.

Riguardo alla questione del nome di Apuleio ci sono altri elementi, per quanto problematici, che occorrerebbe prendere in considerazione.                                                                                                                

129 Ad esempio Agostino si riferisce a lui con: Apuleius Afer Platonicus nobilis (Civ.

8.12), Apuleius Platonicus Madaurensis (Civ. 8.14), philosophus Platonicus (Civ. 8.19).

130 Cf. Gaisser 2008, p. 69. Il mio «forse» dipende dal fatto che un esame esaustivo

della questione, comprensivo di spoglio di tutti i manoscritti superstiti, a mia conoscenza non è mai stato fatto.

131 Harrison 2000, p. 1.

Questi elementi sono essenzialmente due: il primo consiste in una valutazione ben ponderata dell’attendibilità di una ipotesi formulata nel 1989 da Filippo Coarelli, il secondo concerne una questione che può essere sollevata a partire dalla già citata testimonianza di Agostino (Civ. 18.18).

Nell’undicesimo libro delle Metamorfosi compare, in un punto cruciale del testo, un personaggio che porta il nome di Asinio Marcello.133 All’epoca di Apuleio quella degli Asinii Marcelli era una famiglia particolarmente in vista; sappiamo ad esempio che sotto Adriano, in un anno non meglio precisabile, un Q. Asinio Marcello rivestì la carica di console.134 Costui fu anche patrono di Ostia, città che eresse una statua in suo onore, della quale è conservato il basamento, rinvenuto contestualmente alla scoperta, nel 1886, di una delle case più importanti dell’antico complesso urbano. La casa si trovava in un’area tipicamente annonaria, prossima al Piazzale delle Corporazioni e caratterizzata dalla presenza maggioritaria di popolazione africana. Appartenuta in origine alla famiglia dei Lucilii Gamalae, l'abitazione è del tutto isolata nell’ambito della pur varia edilizia ostiense, a causa della compenetrazione reciproca tra spazio privato della domus e area cultuale dei cosiddetti Quattro tempietti, che – secondo la ricostruzione di Coarelli – realizzano un’unica struttura funzionale. A metà del II secolo d.C. essa passò nelle mani di un nuovo proprietario, il cui nome, un gentilizio altrimenti sconosciuto all’onomastica ostiense di età imperiale,135 ci è noto dalle fistule acquarie scoperte nell’Area a sud della casa: L. Apuleius Marcellus. Questi, dopo il 148, ristrutturò il complesso cultuale-abitativo, rifacendo canalizzazioni e fognature, nuovi pavimenti in mosaico; inoltre promosse la costruzione di                                                                                                                

133 Su questo luogo particolarmente difficile del testo apuleiano avremo occasione di

tornare in seguito, nel capitolo intitolato Una presenza (s)gradita.

134 Cf. Coarelli 1989, p. 34-35.

un mitreo, così come l’erezione di una statua equestre, dedicata appunto a Q. Asinio Mercello, al centro dell’area antistante i tempietti. «Lo strettissimo collegamento tra l’area sacra e la vicina domus rendono probabile che la scelta di innalzare proprio qui un monumento a questo personaggio corrisponda all’esistenza di un qualche rapporto tra di esso e il nuovo proprietario della casa, L. Apuleius Marcellus, che intorno al 148 o poco dopo sembra aver rinnovato tutto il complesso edilizio, con il quale certamente si collega anche l'erezione della stata equestre».136

Coarelli ha proposto di identificare il proprietario della casa con lo scrittore afro-latino Apuleio. Questa ipotesi si basa sulla convergenza di quattro elementi: 1) l’evidenza onomastica, ancorché la volessimo limitare al solo gentilizio; 2) la perfetta, secondo Coarelli (ma soltanto secondo Coarelli),137 compatibilità cronologica tra ciò che conosciamo della vita di Apuleio e il periodo di ristrutturazione della casa; 3) la comparsa di un personaggio dal nome di Asinio Marcello nel romanzo apuleiano; 4) il carattere estremamente singolare del mitreo della dimora ostiense.

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