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Sbarufatti (Cisl) analizza i dati sull’occupazione

Nel documento In pellegrinaggioalla Madonna di Fatima (pagine 47-50)

e presenta lo ‘Sportello Lavoro’, un vero aiuto

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a qualche anno si parla di ripresina. Guardiamo i dati, li elaboriamo, li radiografiamo. C’è chi esulta per uno 0,1% in meno di disoccupazione e chi si depri-me per uno 0,1% in più. Incrociamo i dati con gli inatti-vi, la forza lavoro e gli occupati. Tutti i numeri sono im-portanti perché dietro ci sono persone. Purtroppo, però, quando si tirano le somme il risultato è sempre uguale. Non c’è ripresa, non ci sono investimenti, non ci sono politiche adeguate e la nostra provincia soffre. Sono in difficoltà le persone disoccupate, le famiglie e l’intera società, attività autonome, commercio compreso. Non a caso in forte calo sono anche i lavoratori ‘indipendenti’, che da 40.000 nel 2007 (anno pre-crisi e di riferimento) a oggi sono scesi a 35.000.

Il dato della disoccupazione nel 2016, rispetto al 2015, segna un aumento per la perdita di posti di lavoro, oltre che l’aumento degli inattivi. Ci sono stati 41.280 avviamenti e 42.136 cessazioni. Un saldo negativo di 856 persone. Questo dato poi sconta un meno 6,4% di avviamenti in raffronto al 2015. Il commento lo lascio a ogni lettore.

La Cisl da sempre è di stimolo e proposta per dare una nuova identità a questo territorio dal punto di vista

economico, di sviluppo e di crescita. La crisi non nasce e non si risolve nella provincia di Cremona, ma i suoi attori primari hanno il compito di fare il possibile per dare al territorio una prospettiva nuova.

La Cisl da 8 mesi ha avviato un nuovo servizio per cercare di dare un aiuto in più a chi si deve orientare nel nuovo mercato del lavoro. Si chiama ‘Sportello Lavoro’ ed è attivo a Crema nella sede Cisl di viale De Gasperi 56/B. Non è una novità, si affianca ai tanti servizi già positivamente avviati. Non spendiamo garanzie, ma promettiamo a chi viene espulso dal mercato del lavoro di rappresentarlo anche in questo particolare momento che sta attraversando. Accogliamo nella nostra sede per dare informazioni e orientamento su come muoversi per la ricerca attiva e immettersi nuovamente nel merca-to del lavoro. Diamo l’assistenza per le pratiche on-line ormai obbligatorie. Aiutiamo le persone nella stesura del curriculum, perché si possano dedicare alla ricerca autonoma. Il candidato viene inserito in un percorso di politiche attive, affidato ai nostri partner accreditati e au-torizzati ai servizi al lavoro e alla ricollocazione. La Cisl non ti lascia solo. Vieni da noi, assieme ci proviamo e magari... ci riusciamo.

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SPECIALE ECONOMIA

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SABATO 29 APRILE 2017

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T/3 Regno Unito: effetto BrexitIl mercato del lavoro perde punti. Con l’uscita dall’Ue contraccolpi per tutti

L’ECONOMISTA TOM WEYMAN-JONES FA IL PUNTO SULLA SITUAZIONE DELL’IMPIEGO SULL’ISOLA. LE STATISTICHE PARLANO DI UN PROSSIMO, PUR LIEVE, AUMENTO DELLA DISOCCUPAZIONE. L’AL-LENTAMENTO DEI LEGAMI CON IL MERCATO UNICO UE NON PORTEREBBE VANTAGGI. MA CI SONO ANCHE ALTRE PECULIARITÀ DEL SISTEMA BRITANNICO. “ABBIAMO DECISO DI AN-DARCENE NEL MOMENTO PEGGIORE...”.

di SILVIA GUZZETTI

da Londra

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’aumento del tasso di di-soccupazione nel Regno Unito dal 4,9% del 2016 al 5,2 del 2017, e la previsione di un’ulteriore crescita, nel 2018, fino a 5,6% sarebbe dovuto a Brexit. Tom Weyman-Jones, professore emerito di Economia industriale all’Università di Loughborough, non ha dubbi. “Dopo il referen-dum dello scorso 23 giugno, con il quale il Regno Unito ha scelto di lasciare l’Unione europea, gli im-prenditori hanno assunto di meno, perché non sanno bene che cosa succederà, e meno persone han-no cercato nuovi lavori”, spiega. “Nello stesso periodo, nell’area euro il pacchetto di Quantitative

ea-sing di Mario Draghi e della Banca

centrale europea ha cominciato ad avere effetto sull’economia euro-pea che si sta stabilizzando. Anche se, in questo momento, non c’è una crescita velocissima, non c’è neppure, però, un rallentamento e il potenziale per migliorare la si-tuazione esiste”.

IL MOMENTO SBAGLIATO

L’esperto, commentando gli ultimi dati sul mercato del lavoro nell’Ue forniti da Eurostat, attri-buisce ad esempio all’intervento della Banca centrale europea la lieve diminuzione della disoccupa-zione in Italia, dall’11,7% del 2016 all’11,6% del 2017, e la previsione che scenderà ancora all’11,4% nel 2018.

Sempre all’azione Bce si fa risa-lire la diminuzione di coloro che non hanno un impiego nell’area

euro dal 10% del 2016 al 9,6% del 2017, fino al 9,1 del 2018. “La crescita dell’Europa, che si era fermata durante il biennio 2013-2014”, dopo la grande crisi partita nel 2007, “è ancora molto lenta ma ben avviata ed è coincisa con il rallentamento del Regno Unito dovuto a Brexit”, spiega il profes-sor Weyman-Jones. “I britannici hanno scelto di andarsene in uno dei momenti peggiori, proprio quando le misure introdotte dalla Banca centrale europea hanno co-minciato ad avere effetto”.

NOTEVOLI DIFFERENZE

Secondo l’economista, “bisogna tenere conto anche che il mercato del lavoro britannico è completa-mente diverso da quello dell’area euro in generale perché molto più flessibile e ricco di part-time. Così si spiega il tasso di disoccupazio-ne del Regno Unito, assestatosi da tempo attorno al 5%, a uno dei livelli più bassi” d’Europa. “In Gran Bretagna esistono pochi im-pedimenti legali ai licenziamenti quando una ditta deve ridurre i co-sti perché i suoi prodotti non

ven-dono più come prima; e, di conse-guenza, le assunzioni sono molto più facili una volta che la stessa impresa ha recuperato” quote di mercato.

“I lavoratori, poi, sono disposti a farsi tagliare lo stipendio pur di mantenere il lavoro”, continua Weyman-Jones. In Francia o in al-tri Paesi di Eurolandia, invece, “le leggi rendono difficilissimo licen-ziare e, di conseguenza, le imprese preferiscono offrire soltanto lavori part time e non sicuri. Nel Regno Unito, il settore privato, grazie anche al sostegno della Bce, è riu-scito a creare molti nuovi posti di lavoro durante il periodo di ripresa dalla crisi finanziaria del 2007: un numero addirittura maggiore dei migranti arrivati qui che sono tra i 250 e i 300mila all’anno”.

PART TIME, POSTI PRECARI

Ci sono anche altre spiegazioni dell’attuale tasso di disoccupazio-ne basso del Regno Unito come “l’invecchiamento della popola-zione e la diffusione del part-time tra gli ultrasessantenni che scopro-no che la pensione scopro-non è

sufficien-te e diventano lavoratori in proprio per arrotondare. Si tratta di impie-ghi precari e ben diversi da veri e propri posti di lavoro, ma servono a far salire le statistiche che non spiegano nei dettagli di che tipo di lavoro si tratta”. Secondo il pro-fessor Weyman-Jones, “l’idea che Brexit sarà risolto in due anni e arricchirà l’economia britannica è una fantasia pericolosa”.

Col passare del tempo molti cittadini del Regno Unito si ac-corgeranno, sostiene, che quel no alla Ue non è stato affatto una buona idea e ci potrebbe essere un pentimento oppure i negoziati tra Gran Bretagna e Unione euro-pea finiranno per trasformare sia l’economia britannica che quella europea. “Anche se continueremo a commerciare con l’Ue, le merci saranno più costose e occorrerà ri-sparmiare su altri settori”, spiega l’esperto. “La sterlina verrà inde-bolita e la Gran Bretagna potrebbe essere costretta a specializzarsi nei prodotti che vende meglio, servizi finanziari, ricerca scientifica, far-maceutica, ricerche di ingegneria di alto livello, industrie creative e dei media, compresa la

produzio-ne di film e programmi televisivi, sacrificando agricoltura, produ-zione di cibo e industria mani-fatturiera non qualificata come il tessile”.

FRAGILITÀ DEL SISTEMA

Anche per l’Ue esistono rischi sulla strada del Brexit? “Certo, una maggiore difficoltà ad espor-tare nel Regno Unito automobili, vestiti e cibo che diventeranno più costosi per i britannici perché la sterlina sarà più debole e anche per colpa delle tariffe imposte dall’Eu-ropa”, continua Weyman-Jones. “Non dimentichiamoci anche la fragilità del sistema bancario eu-ropeo, soprattutto se la Germania continua ad opporsi al piano Bce per sostenere la Grecia”.

“Insomma sia la Ue che la Gran Bretagna hanno molto da perdere se divorziano in modo irreparabi-le”.

I rischi di un “hard Brexit” di-venteranno “sempre più evidenti nei prossimi mesi e questa espe-rienza potrebbe trasformare sia l’economia britannica che quella europea”.

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SPECIALE ECONOMIA

SABATO 29 APRILE 2017

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T/4

CRESCIAMO AL RALLENTATORE E,

IN AGGIUNTA, QUEL POCO DI LAVORO

IN PIÙ CHE SI SVILUPPA VIENE ALMENO

IN PARTE ASSORBITO DAL RIALLUNGAMENTO DEGLI ORARI DI LAVORO, IN PRECEDENZA RIDOTTI DALLE AZIENDE

PER CONTENERE I COSTI, INVECE CHE DIVENTARE NUOVA OCCUPAZIONE

di STEFANO DE MARTIS

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ll’inizio di quest’anno l’Istituto nazionale di statistica ha deciso di inserire nei comunicati mensili sull’andamento dell’occupazione anche l’effetto della componente demografica. Una novità che sembra un tecnicismo per specialisti – infatti ha trovato scarsissima eco sui media – e che invece dice molto sulla specificità del caso italiano, in cui crisi economica, emergenza lavoro e calo delle nascite appaiono strettamente intrecciati.

Prendiamo ad esempio il comunicato diffuso dall’Istat di recente con i dati provvisori relativi al mese di gennaio. Il tasso di disoccupazione è all’11,9%, stabile rispetto al mese precedente, ma in aumento rispetto a un anno fa, quando era all’11,6. L’Eurostat (l’omologo europeo dell’Istat) ci colloca per questo fra i soli tre Paesi dell’area che hanno registrato un incremento della disoccupazione: siamo in compagnia del piccolo Cipro e della Da-nimarca, che però ha un tasso dimezzato rispetto al nostro.

L’Istat registra anche un lieve aumento degli occupati rispetto alla fine del 2016. Troppo poco per capire se l’occupazione abbia ripreso a camminare con un ritmo rilevante dopo il preoccupante rallenta-mento della seconda parte dello scorso anno. Rallentamento dovuto ad almeno due fattori. Sicuramente ha inciso la fine dei supersgravi contributivi per le aziende che assumono con contratti stabili, misura che ha portato nel 2015 a un effettivo bal-zo in avanti. Che poi sia anche merito o no del Jobs Act, questo è tuttora oggetto di un dibattito che contrappone esperti parimen-ti autorevoli. L’altro fattore decisivo, anzi, il principale, è la debolezza della ripresa italiana.

Cresciamo al rallentatore e in aggiunta quel poco di lavoro in più che si sviluppa viene almeno in parte assorbito – spiega il centro studi della Confindustria – dal riallungamento degli orari di lavoro, in precedenza ridotti dalle aziende per

con-tenere i costi, invece che diventare nuova occupazione.

Il dato più eclatante dell’ultima rile-vazione Istat è stato il calo del tasso di disoccupazione tra i giovani, sceso dal 39,2% del mese precedente al 37,9 di gennaio, comunque uno dei peggiori in Europa. Per approfondire questo dato è necessario avere ben chiaro che cosa le statistiche intendano per occupazione e disoccupazione.

Nel linguaggio corrente sono semplice-mente due facce della stessa medaglia: se aumenta una, diminuisce l’altra, e vicever-sa. Per le statistiche non è così, in quanto tra occupati e disoccupati esiste una terza categoria, quella degli inattivi, quelli che non hanno un lavoro e però, a differenza di coloro che vengono statisticamente definiti disoccupati, neanche lo cercano. Questo può essere sintomo di sfiducia (tal-ché la variazione del numero degli inattivi, in più o in meno, è un indice importante) oppure conseguenza di fattori oggettivi (è il caso degli studenti, per esempio).

Fatta questa premessa, diciamo che il tasso di occupazione misura il rapporto tra

gli occupati e il totale della popolazione, in generale o in una determinata fascia di età. E il concetto è piuttosto intuitivo. Il tasso di disoccupazione, invece, è un dato più complesso in quanto misura il rap-porto tra i disoccupati e il totale non della popolazione, ma delle forze di lavoro, cioè dell’insieme di chi ha un lavoro e di chi lo cerca, escludendo dunque gli inattivi.

Il tasso di disoccupazione, quindi, può diminuire sia perché i disoccupati trovano un lavoro, sia perché rinunciano a cercarlo e rifluiscono nella categoria degli inattivi. Il calo della disoccupazione giovanile a gennaio sembra purtroppo rientrare nel secondo caso, dato che i numeri degli inat-tivi in più e dei disoccupati in meno sono quasi coincidenti.

Il dato realmente più significativo dell’ultima rilevazione Istat riguarda piuttosto l’andamento dei nuovi occupati ed emerge con chiarezza se si passano a considerare i numeri assoluti invece delle percentuali. Da gennaio 2016 a gennaio 2017 gli occupati in più sono stati 236.000. Ma questa cifra è il risultato di una cresci-ta nella fascia 15-24 anni (+27.000), di un calo nella fascia 25-34 (-26.000) e soprat-tutto di una netta caduta tra i 35 e i 49 anni (-132.000), con un incremento di ben 367.000 unità tra gli over 50. Un andamen-to in cui si cumulano i fatandamen-tori demografici (l’invecchiamento della popolazione) e gli effetti dell’aumento dell’età pensionabile.

Secondo una ricerca compiuta dal

Corriere della sera elaborando dati Istat,

nell’ultimo quarto di secolo – con un’acce-lerazione a partire dal 2008 – l’età media degli occupati è cresciuta da 38 a quasi 44 anni. Gli occupati con meno di 35 anni erano quasi 9 milioni e ora sono poco più di 5, mentre il numero dei lavoratori attivi tra i 55 e i 64 anni è raddoppiato da due a quattro milioni: il Fondo monetario inter-nazionale stima che nel 2020 un quinto di tutti gli occupati italiani sarà in quest’ulti-ma fascia.

Italia: occupati e inattivi

Il dato più eclatante è il calo della disoccupazione tra i giovani. Ma a cosa è dovuto?

L’OROSCOPO ECONOMICO ITALIANO PREVEDE UN 2017 MIGLIORE DELL’ANNO APPENA TRASCORSO: DI POCO, MA DOVREBBE ESSERE PIÙ POSITIVO

di NICOLA SALVAGNIN

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’oroscopo dell’economia italiana preve-de un 2017 migliore preve-dell’anno appena trascorso: di poco, ma dovrebbe essere più positivo. L’oroscopo si basa sui dati Istat, che ipotizzano una crescita del Pil che si profila all’1%. Niente di che, ma da molto tempo si ragionava sui decimali. E comun-que meglio dello 0,8-0,9 su cui si assesterà a consuntivo il 2016.

Ma a far prevedere bel tempo (o comun-que discreto) concorrono due fattori eso-geni alla nostra economia, dai quali essa trarrà sicuro beneficio.

Anzitutto il costante rafforzamento del dollaro, segno di un’economia americana forte e che crescerà ancora. Il biglietto ver-de si sta rafforzando rispetto a molte mo-nete, euro compreso. Significa dare nuovo vigore alle esportazioni negli Usa, mercato assai prezioso per le nostre merci. Ma altre economie importanti si basano sul dollaro: tutti Paesi dove noi esportiamo più che vo-lentieri i nostri prodotti, a cominciare dai Paesi produttori di petrolio.

E qui arriva la seconda buona notizia. I prezzi del petrolio stanno crescendo, il barile ha superato stabilmente quota 50 dollari. Significa più ossigeno per molte economie mondiali che sul petrolio campa-no o prosperacampa-no, acquistando poi con

pe-trodollari i nostri mobili, vini, macchinari. È vero che l’Italia è un Paese importatore di idrocarburi, quindi in teoria danneggia-to dalla crescita dell’oro nero. Ma è anche vero che i danni diretti saranno compensati dalle maggiori esportazioni e dai crescenti fatturati per le nostre aziende che lavorano nel settore, dall’estrazione (Eni) agli im-pianti e oleodotti.

Sullo sfondo sta pure la geopolitica: pro-seguiranno le sanzioni alla Russia, da parte di Donald Trump che tanto vorrebbe nor-malizzare le relazioni con il grande Paese euro-asiatico? A prescindere da ogni altra considerazione, è stata proprio l’economia italiana la più danneggiata dalle sanzioni verso Mosca. Se finissero, sarebbe festa an-zitutto per l’agroalimentare.

Quindi l’alba appare rosea, anche se ogni rosa ha le sue spine, e la crescita dei prez-zi petroliferi e in generale dell’economia dovrebbero riflettersi poi sull’inflazione. Niente di male per ora – siamo a quota zero – ma indirettamente sì. Da tempo la Bce guidata da Mario Draghi sta sostenen-do la diffusione a costo zero di liquidità nel sistema economico tramite l’acquisto di ti-toli di Stato (e non solo) dell’eurozona. Btp e Cct compresi. Questo fa sì che i prezzi (e i rendimenti) degli stessi siano vicini allo zero.

Per l’Italia significa pagare pochissimo il costo del proprio debito pubblico. Ma se l’inflazione ripartisse – il vero obiettivo di Draghi – il quantitative easing della Bce terminerebbe. E i tassi d’interesse dei tito-li di Stato crescerebbero immediatamente, o almeno di quelli che hanno un enorme debito pubblico e un’economia deboluc-cia. Indovinate qual è il Paese che rischia di più.

Nel documento In pellegrinaggioalla Madonna di Fatima (pagine 47-50)

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