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5. L’interfaccia osso-protesi: utilizzo della tecnologia SLM per migliorare

5.2 Scaffold per la rigenerazione di tessuti ossei: stato dell’arte

L’osso è un materiale composito naturale con una struttura fortemente gerarchica (Figura 104), per cui ogni suo livello possiede funzioni chimiche, meccaniche e biologiche differenti. Prendendo in considerazione solo la macrostruttura dell’osso

128 è possibile distinguere due zone principali: una parte che provvede a fornire la flessibilità ossea (osso trabecolare) e una parte che conferisce resistenza e tenacità alla struttura (osso corticale).

Entrambe le parti, in realtà, sono costituite da due tipi di tessuto che si distinguono tra loro per la disposizione delle fibre di collagene: ordinate (tessuto lamellare) o non ordinate (tessuto non lamellare). Il tessuto osseo non lamellare è più elastico e meno resistente, mentre quello di tipo lamellare risulta più organizzato, con le fibre di collagene che si dispongono parallelamente e per strati sovrapposti. Il tessuto di tipo lamellare costituisce la quasi totalità dell’osso corticale e buona parte di quello trabecolare (o spugnoso).

Figura 104: Struttura gerarchica dell'osso (47).

La parte trabecolare delle ossa, che rappresenta il 20% della massa scheletrica, ne garantisce la leggerezza, ma come si è detto non è adatto a sopportare sollecitazioni meccaniche forti. La porosità che può assumere l’osso spugnoso e che è riempita dal midollo osseo, può andare dal 50% al 90% ed è fortemente legata all’età, al genere o al manifestarsi di patologie ossee. L’osso corticale, invece, ricopre tutta la porzione esterna dell’osso ed è resistente e compatto, con porosità comprese tra il 3% e il 5%. Facendo riferimento a quanto detto nel paragrafo precedente, per intervenire tramite ingegneria tissutale sull’osso è necessario innanzi tutto conoscerne le proprietà meccaniche. In Tabella 27 sono riportati i valori medi relativi a modulo di rigidezza,

129 tensione di snervamento e tensione di rottura dell’osso corticale e trabecolare misurati da diversi autori (47) (48) (49) (50) (51) (52) (53).

Tabella 27: Caratteristiche meccaniche dell'osso corticale e trabecolare.

Modulo di rigidezza [GPa]

Tensione di snervamento YS [MPa]

Tensione di rottura UTS [MPa]

Trazione Compressione Trazione Compressione Trazione Compressione

Osso corticale Valor medio 16,2 17,8 92,8 138,9 115,5 179,5 Dev. Std. 2,6 1,2 7,8 12,7 15,6 25,7 Osso trabecolare Valor medio 0,02 – 0,4 1,8- 11,6

Tra le varie proprietà biomeccaniche (rigidezza, resistenza, creep e fatica), il modulo elastico è quello che suscita il maggiore interesse per la ricerca, essendo il valore di riferimento per diagnosticare diverse patologie ossee e, soprattutto, ragione di una serie di problematiche relative agli impianti artificiali.

Gli impianti utilizzati per riparazioni o sostituzioni di parti ossee sia fisse che articolari sono prodotti in leghe metalliche e quindi hanno rigidezze che variano da 110 GPa, se il materiale è titanio o una sua lega, fino a 210 GPa per le leghe di CoCr; si parla quindi di differenze tra modulo di Young dell’osso e quello dell’impianto pari ad un ordine di grandezza. Queste differenze sono a causa dei fenomeni di stress shielding: il componente metallico ad elevata rigidezza supporta tutte le sollecitazioni, mentre l’osso risulta scarico e quindi tende ad atrofizzarsi causando la mobilizzazione e al fallimento dell’impianto.

5.2.2 Scaffold per osteointegrazione

Negli ultimi 40 anni, per realizzare sui dispositivi ortopedici una rugosità superficiale che favorisse la stabilità dell’impianto e la crescita del tessuto osseo si è ricorso prevalentemente a tecniche di deposizione di rivestimenti. Tra quelli esistenti si possono individuare: incollaggio, sinterizzazione o diffusione di sfere metalliche; spruzzatura a caldo di superfici metalliche porose; diffusione di schiume metalliche (4). Tuttavia, questi metodi di rivestimento presentano alcune limitazioni intrinseche, tra cui la scarsa aderenza con il substrato, spessori non uniformi e/o

130 insufficienti a favorire l'effettiva crescita di tessuto osseo e una adeguata compatibilità biomeccanica.

Fatte queste precisazioni è però necessario sottolineare che, nella maggior parte delle applicazioni ortopediche, utilizzare come superficie di contatto un componente solido comporta degli squilibri biomeccanici rilevanti tra il dispositivo di impianto e il tessuto osseo circostante, con una conseguente distribuzione delle sollecitazioni sfavorevole all’interfaccia osso-impianto.

Con lo sviluppo delle tecnologie additive si è aperta la possibilità di progettare queste strutture in modo da renderle adatte all’applicazione descritta.

I fattori chiave per la progettazione degli scaffolds, utilizzando tecnologie additive, sono quindi legati alla selezione del grado di porosità, della dimensione dei pori e della loro inter-connettività. La possibilità di scegliere queste caratteristiche geometriche è, infatti, la vera rivoluzione che la stampa 3D può apportare in questo tipo di applicazione.

Tuttavia gli effetti che si ottengono al variare di questi fattori sulla prestazione delle strutture reticolari sono di difficile interpretazione e talvolta sono tra loro contrastanti. La rigenerazione ossea in vivo coinvolge il reclutamento di cellule dai tessuti circostanti e una successiva vascolarizzazione che permette il trasporto di sostanze nutrienti e dei fattori di crescita, quindi un’elevata porosità può facilitare questi processi e aiutare la crescita dell’osso. Dall’altra parte, pori troppo grandi rendono la fabbricazione più complessa e meno ripetibile, compromettendo fortemente la resistenza e la stabilità delle strutture.

Nella loro ricerca Taniguchi et al. (54) hanno affrontato il problema relativo alla dimensione ottimale dei pori di impianti reticolari in titanio, ottenuti tramite SLM. Gli autori hanno studiato tre tipi di strutture caratterizzate dalla stessa densità finale (65%), ma ottenute con diversi valori di dimensione del poro e spessore degli elementi portanti. La dimensione dei pori, calcolata come diametro equivalente, era 300, 600 e 900 µm. I risultati ottenuti mostrano una maggiore capacità di fissazione nel caso di pori di diametro 600 µm e 900 µm rispetto a quelli di 300 µm; questo risultato è stato spiegato mostrando che la vascolarizzazione del reticolo è favorita dalla larghezza dei pori. Gli autori hanno poi evidenziato che tra 600 e 900 µm la condizione ottimale si raggiungeva nel primo caso, quindi anche la superficie specifica ha un peso non trascurabile: un aumento della superficie sulla quale possono ancorarsi le cellule migliora la capacità di fissazione. Questo studio ha posto

131 le basi per la campagna sperimentale svolta in questo progetto di tesi, i cui risultati saranno mostrati nei paragrafi successivi.