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Schiavitù e lavoro forzato

I concetti di “schiavitù “ e “lavoro forzato” vengono formulati rispettivamente dalla Società delle Nazioni Unite nel 1927, e dalla Convenzione sul lavoro forzato, n. 29 del 1930, stilata in seguito alla Conferenza organizzata dall’ILO (International Labour Organisation) nel 1929 a Ginevra. Per il primo si intende quindi ” la condizione di una persona sulla quale sono esercitati alcuni o tutti poteri

attinenti al diritto di proprietà”(Società delle Nazioni Unite, 1926); oggi sono oltre 12 milioni le

persone al mondo sottoposte a schiavitù. Il secondo invece è definito come “ogni tipo di lavoro o

servizio che viene esatto da una persona sotto la minaccia di una pena e per il quale detta persona non si è offerta volontariamente” (ILO, 1930). Un’ulteriore chiarificazione di “lavoro forzato” viene

effettuata con la successiva Convenzione dell’ILO n.105 del 1957 specificante che tale tipologia di attività lavorativa non poteva essere usato a fini di sviluppo economico od educativi, o come azione

di disciplinamento o punizione per aver partecipato a scioperi (Zanin, 2007 pgg 227-228). La definizione giuridica di “lavoro forzato” contiene utili spunti di riflessione ai miei fini di analisi.

Anzitutto, “minaccia” ed “involontario” possono costituire due termini chiave di utile comprensione del fenomeno; per minaccia si può intendere la promessa di un danno o di un castigo a qualcuno, per involontario invece un atto effettuato senza concorso alla propria volontà (http://www.treccani.it/vocabolario/minaccia/). La presenza di una minaccia e la non volontarietà determinano una condizione per la quale viene negata al lavoratore la libertà di scelta; quest’ultimo punto rappresenta l’indice di determinazione del livello di lavoro forzato presente in un rapporto lavorativo. Ciò consente di puntare il dito più sulla relazione datore di lavoro/lavoratore che non tanto sulla tipologia di attività a cui si è costretti; il lavoro forzato difatti non si accompagna necessariamente a condizioni degradanti o mancanza di salario, anche se in genere la loro presenza viene interpretata come sintomo di esso, allarmando quindi sulla necessità di approfondire meglio la situazione lavorativa. Tali riflessioni sono confermate dal riconoscimento giuridico, tra le forme considerabili come lavoro forzato il rapimento, frodi od inganni, che sottolineano l’assenza totale della volontà del lavoratore e coercizioni fisiche e mentali, coerenti con la minaccia. La schiavitù invece, come definito prima fa appello al concetto di proprietà, ossia

98 il diritto di possesso esclusivo su un bene, e quindi la piena capacità di disporvi in maniera discreta ed a proprio piacimento. Ciò concorre all’instaurazione di un rapporto asimmetrico fra le parti, in cui l’una, per l’appunto, detiene il pieno potere sulla seconda, dando vita ad una relazione di pura

appropriazione dell’altro. Nel pensiero collettivo, il concetto di schiavitù ci riporta necessariamente indietro alle prime civiltà,

a partire dai Greci. Qui la schiavitù era concepita come fatto naturale, derivante e legittimata dal diritto di cattura in guerra, oltre al pensiero comunemente diffuso dell’esistenza di popolazioni già predisposte per loro natura all’asservimento, ed altre al dominio. Fu con la primissima giurisdizione

romana che la connessione schiavitù/proprietà fu decretata; per quell’epoca, l’impiego di schiavi

era necessario e giustificato nell’alimentazione e mantenimento della propria economia. La schiavitù si è poi perpetrata negli anni, con la sola differenza che, se in passato essa era accettabile, le svariate e successive normative emanate allo scopo di abolirla, erano in realtà concepite nel suo

occultamento. (http://www.treccani. it/enciclopedia/schiavitu

_%28Enciclopedia_delle_scienze_sociali%29/)

Dai primi popoli si passa agli studi di Marx, le cui teorizzazioni sul lavoro e sulla schiavitù si rivelano nella concettualizzazione del fenomeno qui da me analizzato. L’economista innanzitutto relaziona il valore di un bene sulla base del lavoro effettivamente compiuto per realizzarlo, in cui quindi l’incremento del primo va in proporzione al secondo; in tal senso, il plusvalore, viene così ottenuto dal pluslavoro, questo inteso concretamente parlando o in senso assoluto, derivante cioè dall’allungamento e da un’intensificazione dei ritmi lavorativi, o relativo, afferente cioè alle innovazioni tecnologiche, aumentanti, rispetto alla forza manuale, i livelli di produttività (Mascitelli, 1977 pgg 253) . Tutto un “plus”, a cui tuttavia, Marx specifica, non corrisponde un altrettanto “plus” di salario. Addentrandoci ancor meglio nell’analisi si può così affermare che l’ ”operaio salariato” cede in maniera gratuita buona parte della forza lavoro, ripagata quindi in maniera parziale, oltre a dover sottostare a condizioni estreme in cui la nuova scansione della giornata lavorativa, ripartita in turni sempre più lunghi e massacranti, ne condiziona la salute ed il deperimento fisico; nuovo codice salariale che quindi nega l’accesso sia ai mezzi di produzione che al prodotto del proprio lavoro, senza contare la deprivazione del proprio tempo di riproduzione, destinato anch’esso all’attività lavorativa. Tali condizioni rappresentano i presupposti per una situazione di vera e propria schiavitù, in cui i ritmi i di lavoro incalzanti generano stress e deperimenti psicofisici, in un contesto in cui la massimizzazione della produttività ed efficienza viene privilegiata rispetto alla vita. Ciò a mero scapito dell’operaio,

99 derubato quindi delle sue normali condizioni di sviluppo morale e fisico, schiacciato da un sistema

capitalistico fondato sulla maggior resa, ottenuta quindi dalla riduzione di tempi e costi. Alla luce di quanto detto sopra, lavoro salariato, forzato, e schiavitù sono intrinsecamente

connessi. Anzitutto è bene evidenziare come tutti e tre sorgano da un rapporto di subordinazione, del lavoratore rispetto ad un datore o padrone, al quale rimangono vincolati. La schiavitù può essere considerata come una condizione totalmente estrema, innestata su una piena “disattivazione sociale” dell’individuo, reso passivo rispetto a ciò che è, e ridotto a zombie. Tale sfumatura si può cogliere sia nel lavoro salariale che in quello forzato; nel primo caso infatti, il soggetto viene totalmente espropriato del proprio lavoro e della propria vita sociale, in quanto considerato solo per la sua produttività. Il secondo invece, struttura una condizione che già per sua definizione nega la libertà di scelta del singolo, la cui costrizione a specifiche attività può essere relativa anche ad un plus di ore o ritmi di lavoro, e quindi a condizioni potenzialmente dannose. Ciò che diversifica queste due forme, è che mentre nel lavoro forzato la minaccia è più aperta, in quello salariale lo è di meno; la presenza di un salario, seppur sotto gli standard e di un contratto infatti tendono generalmente a rassicurare il lavoratore ed a tenerlo “a bada” sulla stabilità del lavoro, anche se nella realtà rappresentano strumenti per imbrigliare l’individuo alle condizioni più convenienti per i datori. Infine, l’elemento che accomuna entrambi e che li diversifica rispetto alla schiavitù, è dato dall’impossibilità di tale categoria di ascesa, ossia innalzamento a livello sociale, dato il suo carattere riconosciuto di intergenerazionalità; nel lavoro forzato e salariale invece, le possibilità di mobilitazione sociale aumentano (ricordiamo la lotta di classe di Marx) (Zanin, 2007 pgg 274-278).

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