Vuoti di spazio
L
e traiettorie autobiografiche e autoritrattistiche che intercettano i media nello scenario contemporaneo sono innumerevoli e sembrano rispondere ad una necessità che a volte assume le caratteristiche di vera e propria urgenza.1 Depositi di materiali e di scorie sog-gettive vengono rilasciati come impronte, tracce digitali del sé, in un incessante deside-rio di trovare nuove dimensioni esperienziali con i media, a seguito dello sballo provocato dal regime e dalle ragioni della convergenza, che, cosa nota almeno da Jenkins in poi,2 ha prodotto un forte conglutinamento dei diasporici ‘specifici’ mediali. In questa fase sembra allora prioritario ragionare sullo spazio, o comunque sulla dimensione spaziale, che dirige il traffico delle relazioni tra soggetti e testi, nel loro processi di avvicinamento e di coabita-zione. Gli schermi, urbani e no, diventano infatti bussole che cooptano esperienze, fanno da richiamo tanto al vagare dei soggetti, quanto al passaggio virale, contaminante dei testi, ridotti sempre più a frammenti, a singole immagini. La diffusione e la pervasività di queste ultime porta, in buona sostanza, a dichiarare l’esigenza di una novella geografia che sappia fare ordine, che definisca la frequentazione con i media in rapporto ai costanti processi di rilocazione.Ebbene, i fenomeni audescriventi e automostrativi, le scritture del sé appunto, ragionano invece su quel vuoto di spazio, che, comunque, esiste, tra il soggetto e le molteplici schema-ticità. Lì, in quella faglia topologica, si tratta infatti di un intervallo tra due punti, che è poi la traiettoria dello sguardo, tra occhi e immagini, tra soggetto e display, si consuma l’esercizio del tempo. In quel vuoto di spazio prende vita il temporale dell’esperienza, in tutte le sue varie espressioni.
Ci sembra, infatti, che partire dalla riflessione sull’economia inflativa delle scritture del sé nei media significhi temporalizzare profondamente le domande attuali. Questo perché tanto i profili discriminanti di identità nei Social Networks, quanto quel particolare genere di stilizza-zione dell’autoritratto sul web, noto come time lapse portraiture – che consiste nella compres-sione temporale di una infinita serie di autoscatti realizzati a frequenza regolare durante un ampio periodo della vita e rappresi in pochi minuti per produrre visivamente il cambiamento –, e che trova nei progetti di Jonathan Keller, Ahree Lee e Noah Kalina alcuni tra gli esempi più significativi,3 ma pensiamo anche alla semplice istituzione di personali photogalleries con-1 Il presente intervento nasce nel quadro di una riflessione su Autobiografia/Autoritratto tra cinema e post-cinema portata avanti da un gruppo di lavoro interuniversinario coordinato da chi scrive. Anche l’intervento che segue, redatto da Lorenzo Donghi, è da leggersi come contributo maturato nel quadro del suddetto gruppo e in stretta continuità con quanto viene qui proposto.
2 Naturalmente qui si fa riferimento a Jenkins Henry, Cultura Convergente, Milano, Apogeo, 2007.
3 Ebbene prendiamo ad es. Noah Kalina. E appunto i suoi autoscatti che tutti noi possiamo quotidianamente vedere (dall’11 gennaio 2000) sulla rete. In piena sintonia con una proposta post-testuale, laddove il frammento, l’atomo sussume la storia in istante del sé, l’apparizione quotidiana di Noah Kalina, sempre in configurazione ‘fototessera’, spersonalizzata da una medesima espressione, (sempre eccessivamente sad), appare con sguardo puntato e fisso, e una centrifuga di elementi intorno a quell’unico punto di approdo e di fuga che è lo sguardo, mutano vorticosamente, dalla camicia indossata alla capi-gliatura fino alla scenografia alle spalle. L’immagine di sé viene aggiornata, in una vertigine del riconoscimento, in un riflesso traumaticamente quotidiano, che non ha più nulla a che fare con il «chi sono?» ma piuttosto «com’è oggi l’immagine del chi sono?». Prova ne è il time lapse project (2.356 autoscatti in poco meno di sei minuti dall’11 gennaio 2000 al 31 luglio 2006) del pro-getto Everyday. Un video di ca. 6 minuti che comprime circa sei anni di quotidiani autoscatti. Il morphing estremo. Come con la plastilina l’autoscatto si anima e muta di segno diventando autoritratto video, o perlomeno facendone il verso. Totalmente
sultabili online, portano ad aprire il ragionamento ad almeno tre zone di confronto temporale tra soggetto/soggettività e media. In primo luogo è in gioco il trascorrere del tempo. Cioè l’esperienza come passaggio temporale, il personalissimo divenire, il tempo della vita che si consuma stando con i media, in loro compagnia, o sempre più occasionalmente (inciampare visivamente in uno schermo) o, al lato opposto, sempre più intenzionalmente (cercare di es-sere sempre connessi). In seconda istanza è in gioco, ancora bergsonianamente, il tempo della scienza, quello della finzionalizzazione dell’io che si fa me, che si oggettivizza nelle scritture autobiografiche attribuendo senso e coerenza temporale al proprio sé in immagine. E infine il tempo del lascito, del lasciar vivere le proprie immagini oltre il proprio tempo, depositando tracce destinate alla sopravvivenza, come forme ereditarie del soggetto che rimane per gli al-tri sotto forma di scrittura. Dunque, ci sembra che almeno tre dimensioni temporali vengano sollecitate dai fenomeni autobiografici e autoritrattistici nei media: il soggetto trascorre del tempo, si costruisce nel tempo e permane nel tempo.
Il farsi e il darsi attraverso i media, il desiderio di automostrazione e autodescrizione ri-empie quel vuoto di spazio, costruendo una relazione fatta densamente di tempo. Una re-lazione che appare spesso come una ‘via corta’ per entrare in contatto con l’universo delle immagini. In che modo, infatti, mi ‘lego’ al cinema, al video, al web? Quale strada facile e piana mi strige a loro? Esserci dentro. Il riversarmi dentro. Il desiderio nasce certo dall’in-terdizione visiva del proprio sguardo, da quell’impossibilità originale di vedersi, da quella forma primigenia di recisione. Ma forse, i media assolvono, nel loro occupare non solo lo spazio, ma soprattutto il ‘temporale’ dell’esistenza, ad una forte lacuna biografica, nel senso che riempiono la vita, la segnano, ne seguono lo svolgimento, la fanno. E allora questa assi-dua e convergente presenza porta a riproiettare l’esperienza (entrata in contatto con i media) in forma (i ‘me’ nei media). Dal momento che le immagini mediali occupano e tessono tanta parte della vita, sono protagoniste dell’esistenza, allora il soggetto si sperimenta protagoni-sta in loro, si prova a fare immagini, ad essere immagine.1
Quel segreto
Quando Gilles Deleuze racconta dello stato di beatitudine raggiunto dall’Homo tantum, ra-giona su una forma di ‘ecceità’ derivata non tanto da un’individuazione del soggetto, bensì da una sua singolarizzazione. Si legge:
vita di pura immanenza, neutra, al di là del bene e del male, poiché solo il soggetto che la incarnava in mezzo alle cose la rendeva buona o cattiva. La vita di questa individualità scompare a vantaggio della vita singolare immanente a un uomo che non ha più nome, sebbene non si confonda con nessun altro. Essenza singolare, una vita...2
Le scritture autobiografiche e autoritrattistiche appaiono impersonali eppure singolari, in quanto emancipano gli accadimenti di una vita rendendoli eventi testuali, ma mantenendo con questi una forte sottoscrizione singolare: i materiali appartengono a quell’uno, non importa se autore o semplicemente proprietario in usufrutto, nickname o alter ego, quelle scritture sono di qualcuno, o perché vige un principio di attribuzione chiaro, oppure perché tradiscono una scelta di appropriazione indebita.
sprofondato nell’idea di esercizio, di puro esperimento, il materiale soggettivo, che si emancipa dalla dimensione privata contraffacendone però la scrittura, passa da un mezzo all’altro (specchio → fotografia → video) restando però impiantata nel cuore della rete (sempre e solo immagine, immagine malgrado tutto). Naturalmente ritorna la questione del tempo, anzi è la scrittura del tempo ad essere in gioco: l’allora dello scatto che diventa l’ora dell’immagine, i sei anni che diventano sei minuti, in un sistematico processo di storpiatura temporale sovversiva ad ogni effetto autoreferenziale.
1 Il dibattito sulla questione è noto e non è il caso di riportarlo qui: dalla frizione tra Philippe Lejeune ed Elisabeth Bruss, così chiaramente riportata nel capitolo Autoritratti di Raymond Bellour, in Fra le immagini. Fotografia, cinema, video, Milano, Mondadori, 2007 agli studi sul cinema privato amatoriale (Roger Odin e Paticia Zimmermann) fino al recente speciale di «Positif» del febbraio 2010 dedicato agli ultimi dieci anni di cinema come appunto, singolarmente «Cinéma-Je».
Il segreto sta proprio nel senso di quel legame che il soggetto istituisce con le proprie te-stualità. Un legame necessario per vedersi e quindi riconoscersi, disconoscersi o conoscersi per la prima volta. Un legame cercato, quello tra il soggetto e le immagini proprie in senso lato, che schiude tanto la possibilità narcisistica dell’amore, quanto quella turbativa della repulsione, di fronte alla totale dissomiglianza, allo straniamento del non trovarsi faccia a faccia con uno specchio riflettente, bensì con un’immagine dotata di vita propria. Nel repertorio sempre aperto delle testualità private, che va dalle immagini memoriali a quelle mentali, da quelle autorappresentative a quelle invece nate per necessità di infingimento, c’è sempre e forte quel bisogno ultimo di beatitudine, di ecceità, di staccarsi cioè dal bene e dal male quotidiani per definirsi e mostrasi come un altro da sé, il sé come un altro. Per questo il fenomeno è dilagante, eppure chiaramente circoscrivibile nella propria natura. Perché le scritture del sé sono differenti proprio nella misura in cui esorcizzano il segreto della relazio-ne tra il soggetto e le sue testualità. E lo fanno secondo un preciso percorso.
In primo luogo attestano forme dell’io in me testuali, rispondendo alla necessità di pro-dursi attraverso immagini, ma anche tramite parole, gesti e oggetti. Il soggetto si ipostatizza in una serie di me, bric-à-brac di identità liofilizzate, stereotipiche, referenziali e illusorie al tempo stesso.
Quindi, e qui sta la vera discriminante delle proposizioni autobiografiche, decentrano il soggetto che, da io che si dice e si mostra, diventa sguardo esterno che non solo si percepi-sce, ma, ben più scandalosamente, scopre l’istituzione di quel legame, ne intravede i termini e la fisionomia. Avere contezza dell’essenza di quel legame, scoprirne la natura, risulta esse-re la qualità ultima delle scrittuesse-re del sé. Un legame scioccante proprio perché mostra tutto l’infinito desiderio di singolarizzarsi piuttosto che individualizzarsi, il desiderio di giungere allo stato di beatitudine deleuziana a tutti i costi, di cercare quell’io senza nome proprio.
Ecco allora che l’esorcismo del segreto sta nell’allestimento di questo processo di bea-tificazione, in cui il soggetto e le sue testualità diventano, proprio perché stretti da una vi-schiosa relazione fatta di norma e di desiderio, oggetto di uno sguardo altrui, dello Sguardo, della coscienza. Assistere alla volontà di essere al di sopra del bene e del male quotidiani, alla costante tensione di emanciparsi dagli accidenti, corrispondendo al desiderio di essere
homo tantum significa vedere e quindi fare i conti con le crepe del soggetto, con le sue
imper-fezioni, le sue impurità. E non è, dunque, scandaloso il racconto o la mostrazione del sé, ma esporsi mentre ci si sta raccontando e si sta svelando, perché in quell’esibizione si esorcizza il segreto, di desiderarsi sempre altrimenti.
Le proposte autobiografiche e autoritrattistiche che saettano nei media rispondono a que-sta mostra di ecceità,1 al passaggio, cioè, da un’individuazione personale, nella quale gli accadimenti sono sentiti e compresi come predicati della vita di un soggetto, alla singola-rizzazione impersonale di una vita, nella quale gli accidenti sono come trasfigurati nei loro doppi incorporei, nel loro essere altrimenti. Deleuze dice che quest’operazione implica la sostituzione del verbo essere (io sono questo) con la congiunzione e (io e questo), implica cioè la sostituzione della logica predicativa (soggetto/predicato) con quella del concate-namento (relazione tra soggetto e evento),2 dove, riportando la proposta deleuziana alla nostra riflessione, le scrittura autobiografiche e autoritrattistiche non consistono, dunque, nell’idea che venga messo in scena un processo predicativo – il soggetto è le sue testualità – bensì «un’interrotta sperimentazione di concatenamenti possibili» – il soggetto e le sue 1 Vogliamo qui ricordare che, quando Deleuze e Guattari dicono: «Esiste un modo di individuazione molto differente da quello di una persona, di un soggetto, di una cosa e di una sostanza. Gli riserviamo il nome di ecceità» precisano che il termine in questione deriva da haec (questo) e non da ecce (ecco) e quindi si deve scrivere heccéité piuttosto che eccéité. Si legga in Gilles Deleuze, Felix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1987, p. 378.
2 Per Deleuze il concatenamento (agencement) può essere definito come la connessione o la messa in relazione tra due o più elementi disparati. Il concetto di concatenamento è in tal senso l’operatore che costituisce le molteplicità. Non ci dilun-ghiamo ulteriormente su questa suggestione deleuziana che inerisce il discorso sull’immanenza e che trova piena definizione nella Prefazione all’edizione italiana di Deleuze, Guattari, Mille piani, cit., pp. xii-xiii.
(infinite) testualità –, perché solo nella visione dell’acrobatica relazione che il soggetto isti-tuisce tra sé e la compagine delle sue grandi e piccole somiglianze e differenze in immagine, sintesi disgiuntiva, accostate in una paratassi senza tregua, il segreto può venire alla luce e quindi esorcizzato.
Le immagini del sé che sporgono frequentemente dai media non assolvono dunque ad una funzione predicativa, non ci dicono dei soggetti che li hanno volute e poste in essere. Ma quali immagini singolarmente impersonali, ci dicono dell’esistenza di uomini e di donne che desiderano una vita neutra senza la responsabilità del nome proprio e dell’incontro con le cose, senza l’impegno individualizzante, ma semplicemente una vita di pura immanenza, che non vuole dimostrare nulla, non è segnata da un gesto ostensivo del tipo ‘ecco chi sono’, bensì da un semplice gesto di messa in scena: ‘questo ora esiste’ ed è concatenato a me.
Note intorno a Film, film saggio
C’è un film che porta Film come titolo. Esperimento venuto alla luce nel 1965 per volontà di Samuel Beckett che caparbiamente volle incontrare il cinema, sperando di poter così sfo-gare il proprio desiderio di controllo sulla materia creativa. Ma non andò proprio in questo modo. La tecnologia si ribellò al regista che non riuscì pienamente nell’impresa che si era prefissato in fase di sceneggiatura. Qui non si vuole certo raccontare questa storia.
E dunque perché tornare ancora una volta su questo enigmatico esperimento visivo?
Esse est percipi: Eye segue Object, senza mai oltrepassare quel limite della visione che lo
porterebbe a mostrarsi. Object, uomo con il cappello, anziano corpo comico Buster Kea-ton, sfugge, si addensa ai muri e nella città cerca un pertugio per andare a nascondersi dallo sguardo che lo pedina ossessivamente. E il suo scappare lo porta alla reclusione, alla totale anestesia dalla vita. Dalla strada all’androne delle scale fino alla stanza dove Object si rifugia, si svolge un progressivo allontanamento dalla vita, dalla socialità, dalle relazioni. In sostanza dagli sguardi che spaventati incrocia. Lì nella stanza, perlustrata nelle vacuità del suo spazio da una macchina da presa irrefrenabile, da un Eye potenzialmente segugio, che non lascia nulla al dominio dell’invisibile, l’uomo ripreso sempre di spalle gioca al gioco della sottra-zione. Toglie di mezzo tutti gli sguardi che possono esserci, che possono ancora esserci. A partire dal varco della finestra da dove con la luce può passare la vista, poi gli animali che popolano con i loro occhi la stanza, vengono ripetutamente, in un perdurare dell’antico gesto comico, fatti uscire, oppure eclissati sotto un panno nero, quindi lo specchio e le fo-tografie che possono mostrargli il volto di com’è e di com’era. Ma di nuovo, non è questo il punto. Almeno per noi.
Film è un film saggio sulla scrittura del sé. E lo è nella misura in cui ne illustra esattamen-te la natura traumatica, l’esorcismo del segreto. La scoperta finale, quella dello sconcerto, arriva all’oltrepassare del limite. Eye scavalca il confine e si trova di fronte a Object, i due si guardano e scoprono di essere uguali. Di essere la stessa cosa. Lo stesso corpo. È questo che ci sembra di intuire visivamente, ma analizzando la scena, nelle sue viscere, ci si accorge che altra è, ben altra, la ragione del trauma. Due Buster Keaton, faccia a faccia, corpo a corpo. Com’è trovarsi di fronte a sé stessi in carne ed ossa? Come può essere potersi vedere vivo? Certo il trauma sta in questa dimensione impossibile che si realizza, nell’interdizione allo sguardo che qui non viene rimossa da una semplice superficie riflettente, bensì dal mate-rializzarsi del sé corpo, del vedersi esattamente come si è, ma agire altrimenti. Già perché il Keaton Object fa delle cose e il Keaton Eye ne fa delle altre, non si mimano, non si riflettono l’uno nell’altro. Uno spaventato, financo inorridito, l’altro severo, impassibile. I due sono, come dire, concatenati. Uguali nel corpo, ma dotati di vita propria e indipendente.
Il segreto sta nel legame che il soggetto istituisce con le sue testualità. Esorcizzarlo è la natura della scrittura autobiografica e autoritrattistica. Il legame è quello tra Eye e Object, un legame necessario perché esse est percipi, e senza la percezione, senza l’immagine di sé, senza la propria immagine, è a rischio la stessa esistenza. E allora farsi immagine, scriversi,
autobiografarsi e autoritrarsi diventa il gesto per esserci nuovamente, per un esserci una seconda volta (almeno), per essere altrimenti. Keaton/Object e Keaton/Eye. In Film la ma-nifestazione del segreto, lo stato di beatitudine viene messo in scena grazie all’Altro Eye, quello del cinema appunto, che vede e fa vedere, svela, la scena dei due contatenati, come concatenato è un campo controcampo. Solo così, in quel tempo della loro visione che coin-cide con la nostra visione si consuma la scrittura del sé, gesto rilevatore di faglie inammis-sibili, inviinammis-sibili, altrimenti.