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05 04 2003 La secentesca storia di Meaume, acquafortista

Nel documento Il romanzo francese contemporaneo (pagine 43-200)

Pascal Quignard, L’incisore di Bruges

Lui, Meaume, ha ventun anni, è incisore di acqueforti. Nato a Parigi nel 1617, è stato apprendista a Parigi da Follin, nella città di Tolosa da Rhuys il Riformato, a Bruges da Heemkers. Lei, Nanni, ha diciotto anni, è figlia di Jacob Veet Jakobsz, orafo nella città di Bruges. È bionda, molto pallida, alta, leggermente curva, la vita sottile, le mani fini, il seno pesante. Si vedono alla processione della festa degli orafi. Il loro è un amore immediato, che brucia subito, goloso di sguardi e di corpi. Pascal Qui- gnard racconta il fuoco di questo amore nelle prime quindici pagine de

L’incisore di Bruges (Frassinelli). Il commesso di Jakobsz, Vanlacre, al quale

la ragazza è promessa, scopre il tradimento della fidanzata e irrompe dalla finestra nella locanda dell’oste, trovando i due amanti uniti in un

amplesso. Ha dell’acido con sé e lo butta in faccia a Meaume, deturpan- dolo orrendamente per sempre. Nanni, dopo l’incidente, pur soffrendo, finisce per respingere l’amato, ormai inguardabile. Il resto del libro racconta la vita di Meaume, la sua fuga continua nel dolore e nella vergogna. Ha realizzato un’incisione molto bella con la figura di Nanni, gliel’ha regalata, e si è dato a un vagabondare disperato in compagnia del suo male, nascondendo il volto. Trascorre un lungo periodo in Italia, a Roma (da cui il titolo francese del libro, Terrasse à Rome), dove ha il suo atelier. Quignard – che di solito alterna eruditi testi di storia antica a romanzi suggestivi, pronti per il cinema, come Tutte le mattine del mondo – dispiega senza trattenersi la vena più ombrosa della sua scrittura nel ritrarre la sofferenza di Meaume. Organizza il racconto in quarantasette quadri, che sono altrettante incisioni dell’artista. Nel corso della sua non lunga vita, e però interminabile per lui da vivere, Meaume realizza varie serie di acqueforti, la maggior parte delle quali “alla maniera nera”, la tecnica meno luminosa, più cupa di quell’arte. Quignard le traduce sulla pagina con grande efficacia. L’atmosfera, l’emozione dei quadri successi- vi, che portano avanti la storia di Meaume, sono quelle di certe tele di Georges de La Tour (Quignard ha dedicato un volume al pittore francese): ricordano il buio che le caratterizza, la candela che ne illumina certi dettagli, la forza delle figure umane. Tra le incisioni di Meaume, ce ne sono a soggetto biblico, di genere, e oscene. La serie di quelle oscene risulta commissionata dalla famiglia di un ricco giovane che, poco attratto dalle donne e disinteressato al sesso, rischia di mandare in fumo un matri- monio importante. I genitori del giovane, seguendo la prescrizione di un medico, incaricano Meaume di eseguire la serie di incisioni a soggetto erotico. La sessualità ne è ostentatamente provocatoria. Trasposizione, anche questa, su un tono però che tende al grottesco, della cupa dispera- zione di Meaume – che è quella di Quignard. Meaume muore cinquan- tenne in seguito all’aggressione accidentale da parte di un giovane molto bello, biondo, che viaggia alla ricerca del padre, portando nella borsa la splendida incisione di Nanni, sua madre.

Uno scandaloso uomo Nicolas Genka, L’Epimostro

Nel 1961, accolto con toni esaltati da Jean Cocteau e Marcel Jouhandeau per le ascendenze rimbaudiane, uscì L’Epimostro di Nicolas Genka, poi subito vietato dal governo per i contenuti potenzialmente corruttori della gioventù. Se ne appassionarono immediatamente altri grandi scrittori, da Mishima a Nabokov, a Pasolini. Quest’ultimo avrebbe voluto farlo tra- durre in Italia, ma solo ora quell’operazione editoriale arriva in porto, per Fandango, dopo un tardivo sdoganamento in Francia, nel 1999). Eugène Nicolas (Genka, è il diminutivo di Eugène scelto per lui da uno zio russo) era nato nel 1937 da padre bretone e madre tedesca. Reduce dalla guerra d’Algeria, aveva ventiquattro anni nel 1961. Cocteau all’epoca lo presentò come un uomo “con il diavolo in corpo”, e la sua scrittura risponde appieno alla definizione. La figura di Marceline, figlia adolescente del protagonista Morfay, è l’incarnazione di uno spirito ossessivo. Il doppio incesto, del padre nei confronti di entrambe le figlie, corre per le pagine del romanzo permeato di brutale – quasi maniacale – autocompiacimen- to. Il gorgo familiare in cui sprofonda la primogenita Mauda è vischioso e senza scampo. La provincia rustica in cui la vicenda è ambientata favorisce il divampare del fuoco, reale e metaforico, in cui brucia il trio, emanando un puzzo che asfissia convenzioni e falsi moralismi.

05 06 2004 Un fatale weekend

Christian Gailly, Una notte al club

La storia del gatto Paz è struggente. Ma molto più struggente è, nel suo insieme, il libro di Christian Gailly Una notte al club, edito da Feltrinelli nella traduzione di Massimo Scott.. È il racconto, fatto dall’amico pittore, di un week end fatale nella vita di Simon Nardis: che era stato, dieci anni prima, a Copenaghen ma anche a New York e un po’ ovunque, se stesso. Cioè pianista jazz, alcolizzato, drogato. Poi Suzanne, la moglie, l’aveva “salvato”. E Simon Nardis era diventato addetto alla manutenzione degli impianti di condizionamento di fabbriche e laboratori. Un venerdì pome-

riggio parte per risolvere il problema di un’azienda in riva al mare, e salvare dalla disperazione il giovane ingegnere responsabile dell’impresa. Fatalmente, Simon Nardis perde il treno di ritorno per Parigi, dove lo aspetta Suzie. Fatalmente, l’ingegnere, la sera, per ringraziarlo dello scongiurato disastro, lo porta in un club dove suonano il jazz. Lì c’è Debbie, proprietaria del locale, che un tempo cantava. Simon beve un drink, si avvicina al piano, comincia a sfiorare i tasti. Qualcuno, prima che finisca il week end, morirà. La storia di Gailly – parigino, classe 1943, molti mestieri tra i quali il musicista, prima della scrittura – è struggente per come è raccontata. Flussi di parole che passano di bocca in bocca, in un’esecuzione orchestrale. Ogni tanto, entra il sax.

05 06 2004 Com’è seducente il diavolo

Julien Green, Se fossi in te…

È un tema caro a Julien Green, quello della tentazione. Ma più ancora, quello della lotta interiore di fronte alla tentazione. Per l’uomo, l’ex protestante convertitosi al cattolicesimo all’età di 16 anni omosessuale tormentato ma senza vergogna, malgrado i tempi, quella lotta si risolse in una sconfitta fino a un certo giorno. Un giorno preciso, nella vita di Julien Green, in cui – in uno scontro serrato ed estremamente doloroso a tu per tu con se stesso – decise di rinunciare. “Alla carne”, sussurrò nella penombra del suo salotto di velluti rossi e neri, durante una conver- sazione molto toccante che ebbi con lui poco tempo prima che morisse. Benché avesse superato i novant’anni, conservava un portamento deli- cato di grande fierezza, solo in apparenza contrastante con l’espressione dolce degli occhi, occhi chiari e profondi. Mi disse che un certo giorno fece quella scelta, la rinuncia alla carne, ottenendo in cambio qualcosa di impagabile: la serenità. Il figlio adottivo Erik viveva con lui, e accudiva alla sua vecchiaia con amore e dedizione, premuroso e attento, ma anche molto fermo nel preservare il desiderio di riservatezza di Julien Green. Di cui è l’erede, effettivo e spirituale. Viene in qualche modo spontaneo, adesso che Quodlibet ha pubblicato Se fossi in te..., identificare il protagonista con l’autore – vedere cioè nel libro un indubbio romanzo dell’io – ma contemporaneamente identificarlo con Erik, quel giovane

silenzioso e servizievole che gli dava il braccio. E non è un caso che il protagonista sia scindibile in più identità. La storia che Green racconta, in questo libro che esce ora tradotto per la prima volta da Clio Pizzingrilli, ma risale al 1947, è la più esauriente esplicitazione possibile dell’osses- sione sua di quegli anni, la seduzione del tentatore e la perdita di sé cui va incontro chi gli cede. Accettando, nel caso del protagonista di Se fossi in

te..., di assumere via via le identità di una serie di vittime inconsapevoli,

per il gusto di sfuggire al peso delle responsabilità e dei conflitti di coscienza di chi sa restare se stesso per tutta la vita. Il diavolo si chiama Brittomart e promette, per sedurre il giovane Fabien, exploits mirabolan- ti: far tornare una donna perduta per sempre, ad esempio, e soprattutto il potere di cambiare identità, scegliendole volta a volta con leggerezza e incoscienza. Il percorso di Fabien, lineare dal punto di vista della narra- zione, è invece labirintico per la sua psiche, e quando lui penserà di aver ritrovato il bandolo, a un passo dalla morte, noi lettori resteremo in bilico tra incubo, allucinazione e realtà: in questo punto d’incertezza è la chiave del libro. La Parigi di Green, questa volta, è totalmente misteriosa: a tratti riconoscibile, ma per lo più notturna e irta di minacce. Forse, in effetti, è lei la vera protagonista del libro, una città che può dannare ma anche salvare, a patto che si sappiano “leggere” i suoi passages.

21 08 2004 L’alfabeto di una vita

Julia Kristeva, Colette. Vita di una donna

Pura o impura? Scrittrice o personaggio? Donna seducente, disinibita, eccessiva, Colette ha lasciato migliaia di pagine che sono lo specchio di un’esistenza controversa e complessa, ma sicuramente piena. Il fiorire, negli ultimi anni, di biografie su di lei – dalle migliori (Pichois-Brunet, Lottman) alle meno convincenti (Thurman) – è il segno di un interesse nuovo, superate finalmente le riserve legate a un discutibile parametro di scrittura “facile”. Il grosso volume che le ha dedicato Julia Kristeva,

Colette. Vita di una donna (Donzelli), va oltre il semplice concetto di bio-

grafia per diventare, attraverso un approccio arricchito dalla formazione psicanalitica dell’autrice, racconto di una pienezza. Colette è pura e impura, scrittrice e personaggio. È tutto insieme perché ha saputo

abbattere le frontiere delle categorie. Ma questa pienezza, Kristeva la individua e la dimostra a partire dalla scrittura che è il prisma attraverso cui passano le molteplici e contrastanti esperienze della donna. Kristeva racconta Colette e la sua vita leggendone le invenzioni, e scoprendo che – essenzialmente – Colette ha inventato il proprio alfabeto. Non ne esisteva uno capace di dire, tanto a fondo, tutto quello che Colette aveva da dire. Se lo è inventato, ha messo a punto un sistema espressivo che va molto al di là (ancora una volta) delle storie specifiche, le trame dei suoi libri, ed è femminilmente geniale. Se non ci facciamo spaventare dalla père-version che alla lettura di Julia Kristeva diventa in Colette mère-version, se lo sfonda- mento delle griglie interpretative riesce ad affascinarci come ha affascinato Colette prima e Kristeva poi, potremo godere di questa “vita” in tutti i suoi meandri. Dalla creazione letteraria della propria madre, l’indimenticabile Sido, donna che secondo Sartre aveva avvelenato il primo marito per poter sposare il secondo, a quella del proprio padre, l’adorato “Capitano” con una gamba sola che mentì tutta la vita spacciandosi scrittore mentre accumulava libri pieni solo di pagine bianche, a tutte le diversissime donne – Claudines e anti-Claudines – nelle quali via via Colette s’incarnò. Prima di arrivare a Colette, Julia Kristeva era passata per altre due tappe di “genialità femminile”: Hannah Arendt per la filosofia politica e Melanie Klein per la psicanalisi dell’infanzia. Chiudere il ciclo, e compierlo, con una donna la cui vita è letteratura chiarisce il progetto da parte di chi, a suo tempo, teorizzò la rivoluzione dell’io narrativo.

11 12 2004 Per Mathilde la grande guerra è come la tela di Penelope Sébastien Japrisot, Una lunga domenica di passioni

Mathilde non ha ancora vent’anni, ma sa già molto bene quello che vuole. Ha perso il suo uomo, in guerra. Lo ha perso nel vero senso della parola: ha perso le sue tracce. Manech, con altri quattro soldati che come lui si sono sparati a una mano per non dover combattere, è stato condannato da un Consiglio di Guerra per quel gesto. Il 6 gennaio 1917, in colonna, quei cinque uomini sono stati portati al fronte, La Somme. Il 7, al mattino, sono stati abbandonati lì, in balia del nemico. Che cosa sia stato di loro, dopo, con precisione nessuno lo sa. Nessuno vuole saperlo.

Morti dissanguati nella neve? Sopravvissuti e reclusi da qualche parte a scontare una pena a vita? Raminghi per il mondo, prigionieri della loro diserzione? O fucilati dai francesi, che poi hanno preferito attribuire al nemico il delitto? Nessuno lo sa, o vuole sapere. Mathilde, invece, sì. Le informazioni che arrivano quel 7 gennaio del 1917 e lì si fermano, nel fango e la neve di quella disperata trincea, non le bastano. Manech potrebbe essere vivo. Il solo scopo della sua vita è sapere che cosa è successo quel giorno, come sono andate le cose. Scoprire la verità, anche dovesse rivelarle la morte. È lei la protagonista di Una lunga domenica di

passioni, romanzo edito da Rizzoli di Sébastien Japrisot (1931-2003,

scrittore di successo molto amato dal cinema), la giovane donna che il ricordo d’amore rende invulnerabile. Grazie alla sua fragilità – vive su una sedia a rotelle da quando ha tre anni per una brutta caduta – Mathilde è in realtà molto forte. Il silenzio su quel cupo episodio della Grande Guerra s’incrina solo di fronte alla determinazione ferrea di una giovane donna su una sedia a rotelle. La ricostruzione minuziosa dei fatti, il puzzle che via via Mathilde arricchisce di pezzi, attraverso incontri, viaggi, scambi di lettere, porta alla luce un primo abbozzo di verità. Ma subito le tracce tornano a confondersi, il versaglio si riallontana e Mathilde, che usa la disperazione come un pungolo, riprende le fila, ricomincia, ricombina i tasselli. L’impossibile identificazione della verità è il vero tema del romanzo: la finzione che ruota intorno a un centro vuoto, a un buco. La tela di Penelope che tesse Mathilde è il lavoro del romanziere. Il suo incaponirsi corrisponde a quello dello scrittore che vuole costringere il reale nel suo mondo di carta. Al centro resta quel buco, del reale che si sottrae all’identificazione, alla rappresentazione. Una soluzione c’è, per il romanziere come per Mathilde. Dopo quasi trecento pagine, e passando per fasi che vanno dall’evocativo al sentimentale, al doloroso, al cinico, la giovane donna riesce nel suo intento. O meglio, accetta una verità che non corrisponde a quella da lei cercata, che non è riempimento di quel buco, ma il suo simulacro. Ritrova, insomma, il suo Manech. Non si può dire che sia morto, non si può dire che sia vivo. Però è. Il romanzo è riuscito ad accerchiare quel vuoto e a sostituirgli qualcosa di accettabile. È la verità? Il bersaglio centrato? No. È, però, la risposta, l’unica possibile che il romanzo dà all’impossibile del reale. Mathilde, personaggio finzio- nale, ci dice che serve.

Dalla metropolitana di Parigi una nuova partenza Patrick Modiano, Bijou

Ancora una storia al femminile, per Patrick Modiano, dopo le tre di

Sconosciute. Sviluppando uno spunto narrativo appena abbozzato in un

romanzo di una ventina di anni fa, De si braves garçons, che era come sempre a impianto autobiografico, divagazione a partire da brandelli di memoria, Modiano racconta in Bijou (Einaudi) la vicenda di una ragazza, Thérèse, che da piccola chiamavano Bijou e che, anche lei, ha vissuto un’infanzia doloro- sa, solitaria, e un po’ misteriosa. Adesso, ma è un presente imprecisato, in una Parigi moderna ma indefinita, Thérèse ha diciannove anni. Vede in una stazione della metropolitana, confusa tra la folla di un’ora di punta, una donna che le sembra assomigliare in maniera impressionante alla fotografia di sua madre, svanita da molti anni, forse morta in Marocco. L’episodio scatena in Thérèse una crisi d’identità che la porterebbe a sprofondare nell’incubo, se alcune figure salvifiche non emergessero dalle spire cittadine a farsi carico della sua deriva. Una farmacista dolce dagli occhi verdi, un giovane che traduce trasmissioni radiofoniche da lingue straniere (vaga evocazione di Armand Robin). Il puzzle dei ricordi angosciosi – l’ap- partamento deserto nel sedicesimo arrondissement, il luna park di porte Maillot, il garage del falso zio vicino alla gare de Lyon – che stentano a ricomporsi in un’immagine unitaria, e il soffocamento che provoca in Thérèse vedere nella bambina di cui ha cominciato a occuparsi come saltuaria baby sitter un doppio di sé, il riprodursi di un identico disperato destino, stanno per trascinarla in un vortice senza ritorno. Ed ecco che invece, con uno scatto che ha del fiabesco e non sorprenderà i lettori abituali di Modiano, diventa possibile una rigenerazione. Una nuova partenza, come fosse da zero. La storia potrà essere raccontata ancora, in un altro modo.

19 02 2005 Guarda la Francia che perde l’onore

Irène Némirovsky, Suite francese

Avrebbe dovuto essere un grande libro di mille pagine costruito come una sinfonia, diviso in cinque parti in base ai ritmi, alle tonalità. Modello,

la Quinta sinfonia di Beethoven. La Francia trasformata dall’occupazione tedesca. Il divenire storico attraverso la vita quotidiana, affettiva. Ma il tempo fu troppo breve. Solo i primi due momenti della Suite francese erano finiti, Temporale di giugno e Dolce, quando Irène Némirovsky fu costretta a fermarsi. La grandezza di Cechov e la spregiudicatezza di Colette. Così dicevano della sua scrittura nella Francia degli Anni Trenta, quando di colpo diventò famosa per un romanzo, David Golder, pubblicato da Grasset. Il grande editore, incredulo che quel libro potesse averlo scritto davvero la giovane donna che glielo aveva mandato, aveva pensato che si trattasse dell’opera di uno scrittore molto noto, ricorso al paravento della sconosciuta Irène per la tematica ebraica. Con il padre Léon e la madre Faiga, Irène Némirovsky era approdata in Francia all’età di tredici anni, dopo una lunga fuga iniziata nella San Pietroburgo del 1918 incendiata dalla Rivoluzione. Ebrei, ricchi banchieri, i Némirovsky erano scappati in extremis attraverso la Finlandia e la Svezia per poi giungere a Rouen in nave, sopravvivendo a un’ennesima tempesta. Lì erano riusciti a rico- struirsi una vita da borghesi benestanti, integrandosi nel milieu mondano della Parigi delle années folles. Irène – dopo aver superato, rifugiandosi nei libri, un’adolescenza molto difficile per le intemperanze della madre, donna anaffettiva terrorizzata dall’idea di invecchiare e che annegava le sue ossessioni in una vita sregolata, incurante della figlia – si laureò brillantemente alla Sorbona e, dopo una fase a sua volta di sovreccitazio- ne mondana, si sposò con Michel Epstein, divenne madre di due bam- bine e si dedicò a tempo pieno alla scrittura riscontrando un immediato e clamoroso successo. Per far fronte al fosco addensarsi di nubi spavento- se, l’inizio delle persecuzioni contro gli ebrei, Irène si convertì e si fece battezzare con le bambine. Ciò nonostante, il 13 luglio del ’42 venne arrestata, portata al campo di Pithiviers e da lì a qualche giorno trasferita a Auschwitz dove sarebbe stata eliminata il 17 agosto. Il marito fece la stessa fine nel giro di pochi mesi, mentre le bambine Denise e Elisabeth si salvarono grazie alla dedizione della governante che le nascose prima in un convento, poi in fattorie e granai della campagna francese. La nonna Fanny (così si faceva chiamare), che sarebbe morta più che centenaria, le disconobbe, finita la guerra, e non volle saperne di loro. In quella fuga dalla follia, le due sorelline si portarono sempre dietro una valigia contenente un grosso manoscritto, l’ultimo lavoro della mamma, l’unico modo per sentirsi ancora in contatto con lei. La Suite francese. Diventate

grandi, leggere quel manoscritto fu per loro dolorosissimo. Solo nel 2004 Denise, sopravvissuta alla sorella più giovane, diede il consenso alla pubblicazione. Esce ora da Adelphi, nella bella traduzione di Laura Frausin Guarino, a cura della stessa Denise Epstein e di Olivier Rubinstein, con una preziosa postfazione di Myriam Anissimov e un ricco apparato di documenti, note e lettere dell’autrice. “Sono seduta sul mio maglione blu

Nel documento Il romanzo francese contemporaneo (pagine 43-200)

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