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176 IL DISEGNO DELLA RICERCA: METODI E TECNICHE

5.1 Ricerca quantitativa VS ricerca qualitativa: quali differenze?

Che cos'è una ricerca sociale e cosa significa fare ricerca empirica? Una ricerca empirica si presenta come una successione di operazioni atte a produrre risposte su una realtà sociale o su uno spicchio di tale realtà. Benché la realtà sociale sia di per sé inconoscibile (Boudon 1984) ciò che un ricercatore tenta di fare attraverso il suo operato è rispondere ad interrogativi sul reale o, meglio, ad una sezione finita del reale e portare tale conoscenza all'attenzione della comunità scientifica. La ricerca empirica, dunque, non nasce da problemi teorici o come strumento per rispondere a domande astratte, bensì trova la sua origine nelle domande e nel bisogno di conoscenza tradotti in interrogativi sulla realtà (Ricolfi 1998). A questo proposito, pensiamo sia utile soffermarsi a riflettere sul rapporto che intercorre fra il lato teorico ed empirico della ricerca facendo però presente che la ricerca scientifica, quando ben sviluppata e condotta, è sempre sia empirica che teorica: le teorie servono per orientarsi attraverso l'osservazione del mondo esterno mentre i metodi servono a definire attraverso quali procedure deve avvenire questa osservazione.

Mentre per la ricerca quantitativa, sulla quale ci soffermeremo parzialmente solo in questo paragrafo, si sono sviluppati lungo il corso del tempo degli standard più o meno condivisi dalla comunità scientifica, l'approccio alla ricerca qualitativa continua ad oscillare tra la negazione di regole rigide in nome della creatività e dell'immaginazione sociologica (Mills 1959) e l'imitazione del rigore ascrivibile alla ricerca quantitativa. Affronteremo in questa breve sezione le differenze sostanziali fra i due approcci in modo da esaminarli con maggiore lucidità e chiarezza.

I metodi quantitativi (hard) sono tradizionalmente associati ad ontologie ed epistemologie di matrice positivista in quanto concepiscono la realtà come oggettivamente esistente, empiricamente conoscibile e sono mirati a costruire leggi che permettono di spiegare il funzionamento di quella data realtà. I metodi qualitativi (soft), invece, sono collegati ad una epistemologia di matrice interpretativista, la quale concepisce la realtà come conoscibile solo mediante categorie soggettive ed è tesa ad una sua ricostruzione attraverso una conoscenza contestualizzata e situata. Il quadro

177 che ne deriva sembrerebbe dunque dipingere la realtà come un'entità statica ed esterna all'attore nel primo caso, processuale e costruita dall'attore stesso nel secondo. Anche le tecniche rifletterebbero tale discrepanza: le procedure quantitative sono tese ad una conoscenza oggettiva e controllabile, quelle qualitative invece sottolineano l'aspetto soggettivo, esplorativo, orientato alla creazione di ipotesi. L'obiettivo finale sarebbe una conoscenza nomotetica in un caso ed una conoscenza ideografica nell'altro (Della Porta 2010).

Le questioni epistemologiche pongono tradizionalmente in contrasto rispettivamente la visione positivista ed interpretativista (“la falsa disputa

quali-quanti” come la definisce De Lillo 2010: 4), giustificandosi con l'esistenza di assunti

ontologici inconciliabili fra loro ma, di fatto, essi variano in gradazioni sempre più sfumate o, addirittura, divengono complementari, garantendo alla ricerca empirica un grado di completezza e ricchezza da non sottovalutare e dunque un ventaglio di concetti teorici e metodi da adottare esteso e prolifico. Nonostante ciò, è pur reale che i metodi quantitativi e quelli qualitativi si differenziano nel loro concreto uso durante le fasi della ricerca vera e propria: mentre la ricerca quantitativa procede per tappe fissate rigidamente, la seconda risulta più flessibile ed appare collegata ad un problema/fenomeno più che ad una qualche sorta di teorizzazione astratta che pre-esiste all'analisi empirica. Inoltre, nel primo caso la selezione del campione tende alla rappresentatività ed all'aggregazione per variabili mentre il secondo approccio è orientato ad una visione olistica che conferisce importanza ai processi di interazione sociale fra gli individui. Alcune differenze sono manifeste anche nella modalità di conduzione della ricerca sul campo: adottando un approccio quantitativo i contatti con l'oggetto (o gli oggetti) di studio sono perlopiù superficiali, nella seconda metodologia sono sostenuti ed intensi, implicano doti personali come l'empatia, la capacità di calarsi nei panni altrui e di guardare la realtà circostante con gli occhi dei soggetti coinvolti, suggerendo l'esigenza di una vicinanza non meramente prossemica tra ricercatore e intervistato (Melucci 1998). Infine, a differenza dell'orientamento quantitativo che predilige la ricerca di oggettività durante la raccolta dei materiali mediante l'affidamento a discipline “numeriche” come la statistica, i risultati empirici

178 dell'orientamento qualitativo sono per lo più ascrivibili alla ricostruzione del senso e dei significati sottesi ad una asserzione, privilegiando dunque la narrazione che i soggetti producono della loro realtà (Della Porta 2010). La caratteristica determinante della ricerca qualitativa è perciò studiare i fatti, le azioni, le norme, i valori, etc. dedicando adeguato spazio alla prospettiva di chi viene studiato. Essa non ambisce a misurare le attitudini o verificare la natura di talune relazioni tra variabili ma piuttosto consegna agli intervistati lo spazio desiderato per analizzare i temi da loro stessi sviluppati.

“I metodi qualitativi sono in primo luogo mossi da un intento scientifico conoscitivo

[…] la loro giustificazione ultima riposa essenzialmente [sulla] concezione della scienza come impresa umana, tendente a risolvere problemi e domande della società, fondata su un atteggiamento di rispetto e ascolto verso le persone [...]” (Ferrarotti 1986: 160).

L’approccio qualitativo alla ricerca non è certamente esente da limiti e considerazioni di natura metodologica e concettuale. Adottando una simile prospettiva di ricerca, Melucci (1998) ricorda che è necessario tenere conto di alcuni elementi capaci di influire sensibilmente sull’analisi dei risultati e sull’interpretazione di essi. Anzitutto, attraverso una metodologia di stampo qualitativo, diviene centrale il linguaggio del ricercatore, ma soprattutto dell’attore coinvolto: si tratta sempre e comunque di un linguaggio situato, culturalizzato, legato al genere, al luogo, ad un tempo specifico. In secondo luogo, cambia radicalmente – come peraltro accennato in precedenza - il rapporto che intercorre fra osservatore e osservato. L’osservatore si connette all’oggetto, accedendo concretamente al campo in cui gli attori si muovono. L’oggetto di studio entra in relazione con il ricercatore, il quale osserva l’oggetto da un punto di vista che si trova a sua volta inserito in un sistema di relazioni in grado di definirne la visione. Il rapporto tra osservato e osservatore diventa un nodo cruciale (e critico) di tale approccio. Un ulteriore aspetto messo in luce da Melucci (1998) riguarda la doppia ermeneutica che caratterizza la ricerca sociale. L’emancipazione dalla tendenza ad interpretare in modo assoluto la realtà sociale permette il distacco e

179 l’allontanamento dallo spasmodico perseguimento di una conoscenza oggettiva, rivolgendo invece i propri sforzi all’interpretazione e codifica della modalità attraverso la quale gli attori coinvolti danno senso all’azione compiuta o al proprio atteggiamento. Il fine ultimo sembrerebbe essere quello di perseguire la plausibilità nell’interpretazione piuttosto che l’oggettività della medesima (Melucci 1998). Infine, continuando a seguire l’ordine riportato dallo studioso, un ulteriore e quanto mai ambivalente aspetto, riguarda la presentazione dei risultati.

“Dall’idea che i risultati siano in sé trasparenti perché trasmessi attraverso il

linguaggio codificato della comunità scientifica, si passa ormai all’idea che ogni presentazione di risultati è una forma di narrazione” (Melucci 1998: 23).

Questa affermazione riflette la legittimità e la liceità di forme plurime del racconto ma richiede anche una accurata selezione della forma narrativa adottata dal ricercatore, il quale cercherà di sostenere un atteggiamento autoriflessivo.

L’obiettivo della ricerca sociale non è più quello di spiegare una realtà in sé indipendente e oggettiva, quanto trovare una forma di codifica di un sistema di relazioni verso un altro sistema di relazioni: quello della comunità scientifica. La verità scientifica non è oggettività bensì conoscenza contingente prodotta nell'osservazione di una realtà. Ogni qualvolta l'osservatore costruisca una verità, quella resterà la sua propria verità, mediante la quale egli/ella si orienterà nel mondo; questo però non significa che essa sia l'unica verità possibile (Ricolfi 1998). Il ricercatore comincia ad indossare le vesti di un traduttore, un mediatore fra due realtà sociali scollegate. La spiegazione non è più intesa come verifica oggettiva di ipotesi ma come processo di produzione di conoscenza, in continua evoluzione attraverso l’interazione fra campo osservato e osservatore.

“La ricerca sociale perde il suo privilegio sacrale e diventa una pratica sociale fra le

180 La ricerca assume le caratteristiche di una pratica sociale, capace di mettere in connessione azione, linguaggio, vita quotidiana dei soggetti interagenti.

Per giungere ad una sintesi, gli attributi riconducibili allo studio sociologico qualitativo sono principalmente i seguenti, immaginando un continuum in cui essi si posizionano:

 l'immersione nel contesto oggetto di esame (lo studioso vive in mezzo alle interazioni che gli attori sociali pongono in essere, nel senso che è coinvolto in esse);

 l'acquisizione di familiarità a tale contesto;

 un'analisi in profondità al fine di conoscere meglio il fenomeno da studiare;  comprendere quel contesto nei termini il più possibili vicini a quelli delle

persone che in quell'ambiente vivono e operano (Strati in Ricolfi 1998).

La conoscenza sociologica deve dunque continuamente interfacciarsi apertamente con una discussione multiparadigmatica e multimetodologica in continua evoluzione. L’analisi sociale assume come inevitabile il carattere contestuale e mediato delle conclusioni cui perviene e nel contempo “la riflessione metodologica […] non

consiste più nel certificare la validità scientifica del procedimento, né nel produrre forme di controllo dell’attore sociale, quanto diviene un insieme di procedure finalizzate a chiarire ed articolare il punto di vista del ricercatore” (Ranci in Melucci 2008: 54).

Se da una parte il metodo delle scienze sociali richiede lo sviluppo di un’attività riflessiva che consente di “pensare a noi stessi con distacco” (Elias 1990: 10), dall’altra la sfida sembra ormai appartenere al singolo ricercatore che, se in possesso di caratteristiche come la lungimiranza e la competenza nell’ambito di studio, dovrà misurarsi con la capacità di scegliere la strada più adeguata da percorrere in relazione al fenomeno di interesse.

5.2 Come conoscere la realtà? La metodologia femminista

All’interno del panorama di ricerca appena delineato, e per gli obiettivi fissati in questa sede, si fa spazio un approccio teorico-metodologico più ampio e fluido, entro il quale

181 ci siamo mossi per rispondere alle domande che hanno guidato il presente lavoro: la cosiddetta “metodologia femminista”. Pur avendo preferito assegnare prelazione all’interrogativo del “cosa conoscere?”, crediamo sia utile esplicitare in cosa consiste tale metodologia e come ha favorito il nostro orientamento nel processo di avvicinamento e analisi dell’oggetto di studio, in modo da giustificare il demonizzato coinvolgimento umano ed emotivo entro i confini del tema prescelto.

Il principio di base ispiratore della metodologia adottata è certamente la volontà di criticare, seppure con discontinuità, i modelli di scienza dominanti e dunque i tradizionali statuti scientifici (Terragni in Melucci 1998). Una simile volontà sottende in maniera palese la necessità di trovare un punto di contatto fra pratica di ricerca (mente) e pratica politica (corpo). Il senso comune scientifico, affondando le proprie radici nel positivismo e nel comportamentismo, ha esercitato una enorme influenza sulla pratica sociologica del ventesimo secolo. Questa ideologia ha prosperato e continua ad esistere da un lato perché fornisce un criterio di demarcazione dell'annosa questione tra ciò che è scienza e ciò che non lo è, dall’altro perché fornisce l'appiglio a cui ancorare la nozione di “metodo scientifico”, sollevando gli studiosi dalla responsabilità legata a questioni morali o altre problematiche valutative, connesse alle emozioni (Rollin 2011).

Grazie ad una sollecitazione pervenuta ad opera del movimento femminista dei primi anni ‘70, la sociologia tradizionale comincia pertanto ad essere posta in discussione sia a causa di apparati concettuali maschili (Kelle 1985), sia perché erettasi a sapere imparziale e universale, fuori dalla dimensione dell’esperienza. I primi passi della sociologia (così come della scienza in generale), infatti, sono letteralmente intrisi di paradigmi androcentrici per i quali l’oggetto da conoscere è femminile (la natura) mentre il conoscente è maschile (la cultura, il raziocinio) (Adams 1990, Sydie 1987). A causa di questa prospettiva dicotomica, è stato possibile eludere l’esperienza sociale delle donne (Kandall 1988), conformandosi e appiattendo la ricerca secondo canoni aderenti alla norma maschile. La metodologia femminista si inserisce dunque in una falla creata dallo stesso statuario edificio della sociologia tradizionale: “la ricostruzione

182 1993: 17). Held, con queste parole, si riferisce alla contrapposizione fra una disciplina spenta e costretta nei limiti dello spauracchio di un’oggettività impossibile da perseguire, ed il coinvolgimento espresso dalle donne determinato dall’esperienza del pensare, sentire, ricevere impressioni dalla realtà vissuta in prima persona. “La

metodologia femminista è chiaramente politica” (Roberts 1981: 16).

Che cosa si intende, allora, per metodologia femminista? Come nota Terragni (in Melucci 1998), la metodologia femminista si riferisce ad un concetto ampio, in cui teoria e prassi si intrecciano, talvolta confondendo i piani di lettura ed i ruoli di osservato- osservatore, e purtuttavia mantenendo un contatto dialogico e fertile fra di essi. La specificità di questo approccio è data dalla centralità che assume l’esperienza personale femminile durante il processo di ricerca (Stanley e Wise 1983). L’esperienza, dunque, non riguarda più solo l’oggetto di studio, ma anche lo scienziato sociale che sarà stimolato a produrre nuovi interrogativi e ad assumere un atteggiamento riflessivo nei confronti della propria posizione rispetto al fenomeno di studio. Allontanandosi dunque dalla tradizionale figura di un osservatore esterno, neutrale, avulso dal campo di ricerca che indaga i nessi causali con l’obiettivo di pontificare sulla realtà che lo circonda, si tende così a prediligere un approccio più descrittivo, profondamente legato al ricercatore, alle sue conoscenze, al suo essere, alle dimensioni che lo costituiscono.

Un secondo elemento che caratterizza la metodologia femminista è sicuramente la critica ai concetti di obiettività e di distacco, requisiti essenziali per operare entro il paradigma scientifico tradizionale. Provare emozioni è inutile e velleitario ai fini del processo di conoscenza, per cui risulta invece indispensabile mantenere un certo grado di separazione e distanza rispetto al fenomeno di interesse.

“Coloro che sono capaci di separare i sentimenti dalle emozioni diverranno

scienziati, quelli che non lo sono usciranno presto dal gioco” (Halpin 1989: 286).

A rovesciamento di una logica così obsoleta, interviene la ricerca femminista, per la quale il distacco dello scienziato sociale viene piuttosto considerato un limite al

183 perseguimento della conoscenza. La vicinanza con l’oggetto di analisi e il riconoscimento delle proprie emozioni di fronte ad esso, cominciano così a diventare due facce complementari alla comprensione del fenomeno (Rubin e Rubin 1995; Reinharz 1983).

Anche la relazione tra scienziato sociale e individuo osservato viene scardinata dalla prospettiva femminista. Non si tratta più di un rapporto gerarchico, in cui il potere (della conduzione, della parola, dell’analisi, del risultato) si trova esclusivamente nelle mani del ricercatore mentre l’oggetto studiato rimane in una posizione di passività e, per così dire, sfruttamento: tutt’altro. Il ricercatore diviene partecipe alla ricerca stessa, con la mente e con il corpo, riuscendo così ad istituire un rapporto paritario e significativo con il campo di ricerca in tutta la sua complessità.

Un ultimo elemento distintivo può essere individuato nell’importanza assegnata alla forma della narrazione, al racconto costruito sulla e per la ricerca: la contestualizzazione dei problemi rilevati durante le fasi del lavoro, le difficoltà riscontrate, le sollecitazioni intervenute sul campo, il rapporto instaurato con gli individui, nel divenire e nel vivere la ricerca (Sclavi 1991). Tutti questi ingredienti compongono l’indagine e concorrono alla raccolta di dati ed elementi fruibili dalla comunità scientifica cui ci si rivolge. Secondo Terragni (in Melucci 1998), la capacità di rottura di questo approccio è determinata principalmente dalla sua connotazione politica che si esplica in modo manifesto (e senz’altro più esteso di ciò che è stato fatto in questa sede), nelle caratteristiche sin qui descritte.

La ricerca femminista può essere inscritta nel novero delle metodologie qualitative e, per raggiungere i suoi fini, si è orientata verso l’utilizzo di interviste in profondità, osservazione partecipante, ricerca-azione (Mies 1983), storie di vita, raccolta di materiali biografici. Nonostante l’eterogeneità delle tecniche potenzialmente utilizzabili, per il lavoro qui intrapreso, abbiamo scelto di avvalerci della tecnica dell’intervista semi-strutturata. Tuttavia, prima di addentrarci nella giustificazione delle scelte effettuate, ci preme analizzare le sue caratteristiche e le possibilità da essa offerte ai fini dall’analisi.

184 5.3 Muoversi nel mondo qualitativo. Cosa significa fare un’intervista?

Che cos'è un'intervista? Cosa significa intervistare una persona? Come si conduce concretamente l'incontro? Come si interpretano i risultati ottenuti? Quando è utile adottare questo genere di tecnica per una ricerca?

Quelli presentati sono solo alcuni degli interrogativi che un ricercatore si pone prima di iniziare ad operare sul campo e, a volte, anche prima della definizione del disegno di ricerca. Ma perché problematizzare una pratica così semplice quando viviamo a tutti gli effetti in una “interview society” (Atkinson e Silverman 1997)? La maggior parte delle persone pensa di sapere che cosa significhi intervistare qualcuno e di possedere le doti giuste per farlo: basti pensare ai giornalisti negli show televisivi, alle interviste riguardanti politici, attori, personaggi famosi in genere che possiamo leggere quotidianamente sui giornali o ascoltare alla radio. Siamo letteralmente sommersi da opinioni, commenti, interpretazioni, distorsioni, strumentalizzazioni di ciò che la gente afferma, di ciò che gli individui dichiarano di fare o di avere detto, di ciò che sostengono di pensare, di ciò che capiscono o che pensano di avere capito entro uno spazio comunicativo talmente caotico da risultare quasi imperscrutabile. Tuttavia è necessario distinguere questo genere di comunicazioni e conversazioni che coinvolgono gli attori durante la loro vita quotidiana – potremmo definirle “conversazioni popolari” - dall'approccio scientifico (ci si passi il termine!) di un ricercatore che decide consapevolmente di adottare l'intervista come metodo precipuo per giungere agli scopi conoscitivi che si è preposto di ottenere.

Infatti, se ci fermiamo a riflettere, quando gli studiosi utilizzano le interviste per i propri scopi di ricerca, ciò che stanno realmente compiendo è, in un'ottica più ampia, un atto di conoscenza o, meglio, l'implementazione di una conoscenza in un ambito che richiede di essere approfondito. In questo caso, rivestirà importanza non solo l'atto comunicativo in sé, ma anche lo stile e la personalità dell'intervistatore nonché le caratteristiche del rispondente in un circolo ermeneutico denso di significati e rappresentazioni. Da un simile punto di vista, riteniamo che la matassa sia complicata da dipanare eppure proveremo a chiarire alcune delle principali caratteristiche

185 dell'intervista qualitativa e a giustificare l'adozione di tale metodo per i fini conoscitivi di un progetto di ricerca che intenda indagare le pratiche di vita quotidiana degli individui a fronte dell'adozione di un determinato stile di vita e dell'etica che ad esso soggiace.

Prima di proseguire, una specifica ci pare d'obbligo: è necessario richiamare qual è la distinzione tra “metodi”, ossia gli specifici strumenti impiegati per accedere/creare dati attraverso differenti forme di interazione, e “metodologia” ovvero la più generale discussione circa le assunzioni teoretiche, filosofiche, politiche che sostengono l'uso di un determinato metodo e le implicazioni, le sfide, le possibilità offerte da esso per una buona ricerca. Per riprendere Silverman (2006), il metodo si riferisce ai mezzi di raccolta delle informazioni mentre la metodologia riguarda l'approccio generale che implica la preferenza per talune tecniche e per alcune teorie sulla conoscenza scientifica. In questo senso, la metodologia indica la strategia su cui si basa la scelta del metodo, collegando il metodo allo scopo della ricerca; la metodologia è poi collegata ad una prospettiva teorica ed a un'epistemologia, ovvero una teoria della conoscenza o, più nel dettaglio, a come sia possibile conoscere la realtà.

5.4 Orientamenti teorici ed intervista qualitativa

Negli ultimi quarant'anni l'intervista è diventata un legittimo e fecondo oggetto di studio, trasversale a differenti discipline: tra gli anni '60 e '70 sono comparse oltre 1000 pubblicazioni sul tema, in particolare fra gli eredi dell'interazionismo simbolico (Trentini 1980). L'espressione “intervista qualitativa” designerà in questa sede sia le interviste strutturate, sia l'insieme eterogeneo delle interviste non strutturate. Ma andiamo con ordine e affrontiamo la questione di come alcuni approcci teorici adoperino l'intervista qualitativa con particolare agevolezza.

Come ci ricordano Marradi e Fideli (1996: 71-82) il termine “intervista” deriva dall'inglese “interview” che a sua volta proviene dal francese “entrevue”, participio passato del verbo “entrevoir” (intravedere). Esso indica sia il processo che il prodotto di quell'attività. Intesa nell'accezione più ampia, l'intervista costituisce una forma di

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