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La seconda sezione del trattamento: Lucia e la cucitrice manzoniana

La seconda sezione, per una scelta di linearità narrativa, è interamente dedicata al personaggio di Lucia. Ad aprirla è però quel colloquio tra il Conte zio e il Padre Provinciale, che Bassani probabilmente aveva introdotto d’accordo con i suggerimenti di Guglielmo Alberti e di Archibald Colquhoun. Pur nell’immissione di una scena apparentemente non indispensabile (ma importante nella rappresentazione dello sfondo storico), altrove Bassani sa rinunciare a episodi macchiettistici e sciogliere d’un sol colpo nodi narrativi complessi. La sua esperienza pregressa di sceneggiatore, lo fa confidare nell’eloquenza dell’immagine cinematografica. Un esempio. La negoziazione del rapimento di Lucia accordata tra Don Rodrigo e l’Innominato è evitata al fine di creare un’atmosfera di suspance che solo le successive azioni dei personaggi possono risolvere. L’inquietudine di Gertrude nei confronti di Lucia, il suo tentennare nell’ordinarle di uscire dal convento, trova una risposta solo quando la giovane, fuori le mura, viene affiancata da una carrozza: «Da essa scendono degli uomini ammantellati, nei quali è facile riconoscere dei bravi. Tra essi, Egidio. Con un facile stratagemma, costoro rapiscono la ragazza. E la carrozza scompare a tutta velocità per la strada deserta».

Con un dosaggio narrativo originale e un uso accorto del fuoricampo, Egidio è eletto a braccio destro dell’Innominato al posto del Nibbio. La condensazione di due personaggi in uno garantisce la compattezza drammaturgica richiesta dal cinema. Il dialogo tra i due personaggi, nel castello, non avviene sotto il segno di quella «compassione» provata dal Nibbio del romanzo manzoniano, ma è invece funzionale a fornire i primi tratti caratteriali dell’Innominato, a preparare la sua notte e il suo soliloquio quando, contro i propositi comunicati al suo delegato, fa visita a Lucia:

È un soliloquio drammatico: esprime di volta in volta la commozione del pensiero di Lucia; il tentativo di soffocare questa stupida commozione; lo smanioso bisogno di distrarsi immaginando altre imprese nefande, il cui pensiero non ha più presa su di lui;

l’angoscia che ne deriva; il senso di liberazione che prova all’idea di lasciare andare, l’indomani mattina stessa, la povera ragazza; il rancore per Don Rodrigo, che lo ha convinto a quell’impresa.

Con l’obiettivo di comprimere le vicende facendole rispondere a nuovi stati di consequenzialità, Bassani introduce Donna Prassede e Don Ferrante direttamente in casa del cappellano crocifero. Da subito sono prescelti dal Cardinale Borromeo a prendere sotto la propria cura Lucia. Nonostante il bisogno di laicizzare l’intreccio, l’autore non compie la scelta azzardata di De Santis e De Libero che del Borromeo avevano fatto a meno.

Un altro efficace effetto di sorpresa è ottenuto non svelando il voto della protagonista, se non quando, a liberazione avvenuta, Lucia stessa lo confida alla madre. È in quella circostanza, inserita dopo l’incontro tra il Cardinale e Don Abbondio («passerotto tra gli artigli del falco» come definito da Manzoni e ripreso da Bassani), che Lucia viene rappresentata seduta, in casa di Donna Prassede, accanto a una finestra. Il suo profilo, come già la sua sagoma vicino al desco o al focolare casalingo, è simile a quello di Lida Mantovani (già Debora Abeti in Una città di pianura pubblicato nel 1940) nell’omonimo racconto poi

entrato nelle Storie ferraresi del 1956103. Dell’integrità di Lucia, Lida

pare la negazione. Ma ne ha raccolto il capo chino, la rassegnazione, la testardaggine, la tendenza a rimuginare il passato... e persino quel tanto di pinguedine, una volta sposata con Oreste Bonetti, che la fa parere più bella. Come la Lucia manzoniana sulla barca che l’avrebbe condotta lontano dal suo paese, così Lida «col gomito puntato nella coltre e la guancia appoggiata alla mano» si abbandona ai suoi pensieri. Lucia, a dispetto o in ragione dei commenti di Donna Prassede, faticava a scacciare dalla testa quel «manigoldo» di Renzo; ugualmente Lida torna spesso all’immagine del primo compagno, David, nonostante gli ammonimenti sulla sua «storia» da parte del legatore Oreste.

103

Il racconto Lida Mantovani, abbozzato nel 1937, fu rifatto da Bassani nel 1939 per

Una città di pianura e poi rimaneggiato nel 1948 per essere pubblicato in «Botteghe

Oscure», nel 1953 per il volume Una passeggiata prima di cena, Nistri Lischi, Pisa; e, fermandoci agli anni Cinquanta, poi per le Cinque storie ferraresi, Einaudi, Torino 1956.

Da quella finestra, nel trattamento cinematografico, la Lucia dei Promessi sposi osserva sollevarsi le foglie in vorticosi mulinelli. Anche la vecchia Maria Mantovani, madre di Lida, non distante, per spirito pragmatico e buon senso, dall’Agnese manzoniana («Oh, gli uomini erano tutti uguali, tutti così!»), quando è costretta nel letto in fin di vita «non staccava gli occhi dalla finestra. Di là dai vetri, attraverso i quali la luce filtrava a stento, scorgeva la neve cadere fitta,

a vortice»104. Prima di lei, nella sala d’ospedale in cui aveva trascorso

cinque mesi, in attesa di dare alla luce il figlio, anche Lida Mantovani aveva rivolto lo sguardo all’esterno: «Da una finestra che dava nel giardino della Maternità, i suoi occhi si posavano sulle foglie lustre di

una grande magnolia»105. Poi, dalla sua postazione di sarta –

un’equivalente del lavoro con l’aspo di Lucia («cucendo cucendo, ch’era un mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in mente il suo aspo; e dietro all’aspo, quante cose!»): «Talvolta Lida smetteva di lavorare; i suoi occhi cercavano la finestra, il suo sguardo si perdeva oltre i vetri»106.

Lida è un esemplare della «cucitrice manzoniana», figura che Bassani enuclea quasi a mo’ di paradigma iconografico nella sua recensione al racconto Il taglio del bosco di Cassola – non a caso nel

1956. E le foglie di magnolia107 osservate dai suoi personaggi, da Lida,

ma anche da Geo Jozs del racconto Una lapide in via Mazzini, sono quelle della poesia Leggi razziali contenuta in Epitaffio:

La magnolia che sta giusto nel mezzo

del giardino di casa nostra a Ferrara è proprio lei la stessa che ritorna in pressoché tutti

i miei libri

La piantammo nel ’39

pochi mesi dopo la promulgazione delle leggi razziali con cerimonia

che riuscì a metà solenne e a metà comica

104

Giorgio Bassani, Lida Mantovani in id., Cinque storie ferraresi, Einaudi, Torino 1956, p. 39. 105 Ivi, p. 11. 106 Ivi, p. 17. 107

In una sua lettera dal carcere, Bassani chiede ai genitori: «Ma la mia magnolia sta bene, vero? Innaffiatela spesso, mi raccomando...» in Da una prigione, in id., Opere cit, p. 956.

tutti quanti abbastanza allegri se Dio vuole

in barba al noioso ebraismo metastorico

Costretta fra quattro impervie pareti piuttosto prossime crebbe

nera luminosa invadente

puntando decisa verso l’imminente cielo

piena giorno e notte di bigi passeri di bruni merli

guatati senza riposo giù da pregne gatte nonché da mia

madre

anche essa spiante indefessa da dietro il davanzale traboccante ognora delle sue briciole

Dritta dalla base al vertice come una spada

ormai fuoresce oltre i tetti circostanti ormai può guardare

la città da ogni parte e l’infinito spazio verde che la circonda ma adesso incerta lo so lo vedo

d’un tratto espansa lassù sulla vetta d’un tratto debole nel sole

come chi all’improvviso non sa raggiunto che abbia il termine d’un viaggio lunghissimo la strada da prendere che cosa

fare

Anche le foglie secche che nel trattamento Lucia osserva sollevarsi vorticosamente sono un’immagine che Bassani vuole caricare di significato metastorico: «presagio di sventure, di guerre, di calamità, che coinvolgono umili e potenti in questa storia, travolgendoli insieme, come le foglie secche, nella loro rapina»: «prepara» – si legge nella nota che accompagna l’ultima sezione – «la poesia patetica e amara del ritorno, dopo tanto tempo e tanto dolore, ai propri monti, al proprio paese: che è il tema fondamentale della Terza Parte».