Herano anchora li nitenti raggi dil sole nel celeste Aquario et vedevasi le frede nive a la sumità de li alti monti, taceano li vaghi uceleti abandonati da la dolce aura et spogliati de le amorose ombre de le verdi fronde, più non se udivano le fistole et siringe pastoralle, né vedevasi in sasosi lochi le uberose capre levarsi a’ salici per pascer le tenere et amare frondelle, né più si vedea le timide, quete et simplice pecorelle in prati cum loro saltanti agnelli. Erano le vitelle da loro pastori riducte a le humil case, correano le aque turbide et fangose li vagabondi pessi, più si vedeano et erano l’opre dilectevole de l’agricultura et li piacer de li culti agrestici manchati, quando a me piaque
insieme cum Sebastiano ritornare a Bologna, dove la morte de Antonio da Cento125 et
di Piero su fratello a me manifesta fu molto noiosa et nom mancho a Sebastiano, che le recenti piaghe per l’obito de la sua amata sostenea e certo potriano li celestial dei duo sì virtuosi fratelli in ciel stelificare nel luoco di Castor et Poluce et posso dire per vero a tempi nostri che in versi materni non si trovasse il simile como era Antonio moralissimo, facile da natura doctato de la vernacula lingua et vedessi per l’opere sue non molte, per che morte a tempo d’anchor fruire l’interpose. Era l’altro fratello de un’altra virtù ornato, ché di sonare di leuto sapea tanto che ceder li potea in simil instrumento ogni sonatore, ma ponendo le finte poesie da lato, l’onnipotente Dio a sé habia chiamati i spirti loro.
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125 Per il Frati trattasi di Antonio de’ Buonandrei, poeta e barbiere di cui ci resterebbe un solo sonetto trascritto nel codice Isoldiano 1739 (FRATI 1908).
Capitolo 33
LVIII
Chi serà ma’ più quel che in prosa et in versi mostri como dal ciel gratia s’aquisti
e ne i dicti d’amore et moral misti, chi serà più, ché tuti li habian persi? Ma chi serà che non venga a dolersi
tanto cum nui e in tal modo s’atristi? Ché s’alcun cor crudel ma’ foron visti, non possan pianto per pietà tenersi. Pianga Bologna e più piangan li amanti,
ché ’l cantor vago de lor canzonette et di sonetti il dicitore è spento.
Po’ stiano in contemplar doppo gli pianti se ’l ciel missi tanta gratia o mette in altri como in Antonio da Cento.
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Capitolo 34
LIX
Non chi zià corse l’infernal pendice sonando lira sua per la buia aura,
non quel Francesco126 per madona Laura,
non Dante che nel ciel vide Beatrice como Antonio cantò, onde infelice
nostra speranza più non rintesaura: se ’l perduto cantor non si ristaura, nostro bisogno no’ ha quel che lice. Dove è le tempie che zià sono efebe? Dove è chi sul telfin novo Aryone127
era non per fugir verso Corinthio? Dove è chi rinovar poteva Thebe
col suo dir vago più che d’Anphïone128
et laureato fu dal biondo Cinthio?
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126 Petrarca.
127 Poeta e musico, inventore del ditirambo: a lui è legata una leggenda per la quale sarebbe stato salvato dall’affogamento da un delfino.
Capitolo 35
LX
Fatal corso crudel, che mosse morte a privar gli ochi mei di quella luce che poco tempo al mondo mi fu duce tanto fide et lëal cum le so scorte, lassò che ita a la celeste corte
et ivi più che ma’ questa riluce
et se ben alta anchor par, mi cunduce vano li passi mei per questa sorte. So ch’a fruire il ciel sta cum l’altr’alme
et li spiriti mei quivi a lagnarsi, inmaginando lei sotto il bel velo; ma iubilar dovrian cum verde palme,
facendo festa et ciò per alegrarsi, se lassò il mondo per fruire il cielo.
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LXI
Non pensi trare Amor di sua faretra ma’ più saette per voler ferire il fredo cor ch’i’ sento divenire o che venuto è zià porfirea petra129.
Veggio che in quello ogni colpo s’aretra, né pò più d’or o di piombo colpire e in tal dureza mi penso fugire
qualuncha gratia da lui chiama e impetra.
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Non più rosee guanze o fronte bella, non più vaghi ochi o labra di coraglio, non denti o collo o pecto pur di neve. Spetacul mi serà como fu quella
che tronchò morte e in me rimase un taglio che i·ricordar del ben perduto è greve.
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LXII
Già non dhovëa morte in poco spacio di tempo torme lei, che a pena vidi, né cuntemplar anchor quilgli ochi fidi, che pria fu sciolto che stringise i·laccio. Ai morte, tuo voler ma’ non è sacio!
O, qual nodo sì streto non dividi! Et si sun presti mei lamenti et cridi, in una parte Amor et te rengracio, che pria si volse al ciel che ’l dolce pasto
gustato havesse, che seria forse amaro hor al disio che zà ne bramo tanto. Quant’è felice amor d’un fonte casto!
Quant’è il voler in fin che dura chiaro in più virtù se accente e iusto et santo.
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LXIII
Il tempio glorïoso di quel sacro
santto che tolse dal signor le piaghe130
è facto casa de le membra vaghe, che mi son for di quello un simulacro. Ma chiuse poi ch’io non le vide macro
divento ognihora et par che d’arte maghe i’ viva, anci mi par ch’al focho apaghe intorno al stizo un novo Meleacro131.
O, infelice giorno, ove zià il sole nel sagitario segno undeci volte havea girato, como passasti il segno132
ch’ è luce a gli ochi mei, che più parole serà mistier che le mie orechie ascolte, o qual più sicur porto al stancho legno.
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131 Meleagro, personaggio mitologico: fu uno degli argonauti; la sua vita era legata, per la leggenda, a un tizzone che, se bruciato, l’avrebbe ucciso.
LXIV
Miserel cor che non ti parti homai da loco dove è il to tesor sepulto et ivi lacrimosi ochi, se ’l v’è occulto, pur ivi dhovresti haver zà pianto assai. Et tu, alma dolente, i tanti guai
finissi e li suspir che fan tumulto, rivolgiti a guardar che in altro culto per tempo et per pensier ti vederai. De’, non voler che in lacrimoso stile
cunssumi gli anni mei che van corendo et tante cose anchor sun da vedere. Dovevi nel principio il bel piacere
venir pensando, com’hora comprendo quante mortal speranze alfin son vile.
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LXV
Se drieto al mie pensier venisse effecto, seria la causa mia del ver cumpita et vederia lasù l’alma salita,
lassando il corpo qui pien di difecto. Et più che mai rinoveria dilecto
che partì morte quando fu sì ardita e tolseme colei che la me invita, lassando vivo me per mio dispecto. Et vo smarito et non sum como i’ soglio
e viene i’ me talvolte una lecticia, cum un pensier ch’i la imagino viva. Po’ presto torna la vera nocticia
e rimango in dolore et più mi doglio et quest’è il punto che a l’extremo ariva.
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LXVI
Non è bastante homai se tuto il giorno sento dolor che la nocte radopia et cum falso veder spesso me accopia cum lei et parmi haver l’aspecto adorno. Poi su la verità mi sveglio et torno
e veggiomi di quello havere inopia et più cresce il dolor che ’l cor mi scopia, ch’a un tratto è la passion il danno e ’l scorno. Et cussì giorni et nocti sto in affanni,
da po’ che morte, dispietata et ladra, mi tolse quella ch’altri forse gode. Finischa aduncha il resto di mie’ anni
in pianti et in suspiri et non più in lode d’una pietosa donna et sì lezadra.
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