• Non ci sono risultati.

La sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Trieste, 18 settembre 2009

La Corte d’Assiste d’Appello di Trieste338 ha dichiarato colpevole l’imputato dei reati a lui ascritti e, concesse le attenuanti generiche e la riduzione per la diminuita imputabilità, oltre alla riduzione per il rito, lo ha condannato alla pena di otto anni di reclusione. L’imputato era processato per il reato di omicidio premeditato, con l’aggravante di aver agito per motivi abietti e futili.

1.1.La vicenda

Il 10 marzo 2007 veniva segnalato alla Questura di Udine il rinvenimento di un cadavere, la cui morte veniva subito riferita ad evidenti ferite inferte da un oggetto da punta e da taglio presenti sul corpo. Lo stesso giorno veniva

338

Corte d’Assise d’Appello di Trieste, 18 settembre 2009, in Riv. pen., 2010, 1, 70. Commenti di: Forza A., Le neuroscienze entrano nel processo penale, in Riv. Pen., 2010, 1, 75 ss; Codognotto S., Sartori G.,

Neuroscienze in tribunale: la sentenza di Trieste, in Sistemi intelligenti, 2010, XXII, 2, 269 ss.; Marchetti

P., Il cervello a giudizio. Le lontane origini di due recenti sentenze italiane, in Psicologia e Giustizia, 2012, 2, 1 ss.

196

individuato un soggetto straniero recatosi all’ospedale per curare alcune ferite, soggetto poi rivelatosi l’imputato.

Lo stesso affermava di essere stato aggredito da un gruppo di giovani mulatti e, riuscito a scappare, si era recato a casa, ma a seguito delle ferite riportate aveva deciso di recarsi al nosocomio.

Gli agenti di servizio, però, avendo notato sul giaccone del soggetto tracce di sangue raggrumato ed, in considerazione che il medico astante riscontrava al paziente delle escoriazioni al torace, delle contusioni al volto ed un’emorragia alla congiuntiva, lo stesso veniva invitato in Questura per essere interrogato. Sin da subito risultava veritiera l’aggressione subita dall’imputato; poco compatibili, invero, le tracce ematiche sul giubbotto con la riferita aggressione.

Dopo un’iniziale reticenza, l’imputato confessava di aver accoltellato la persona il cui cadavere era stato ritrovato poche ore prima. Raccontava che mentre rientrava a casa (con gli occhi truccati per motivi religiosi, come era sua abitudine fare) notava una persona che lo fissava insistentemente facendogli dei gesti con intento provocatorio e di derisione e che lo apostrofava come gay. Da qui una discussione tra loro, degenerata con una aggressione a seguito della quale, l’imputato acquistava un coltello e si recava al sottopassaggio della stazione dove si imbatteva nella vittima e la accoltellava.

Dalla consulenza medico-legale emergeva che la morte della vittima era stata cagionata da cinque coltellate: due colpi interessavano la carotide che veniva lacerata, un terzo colpo interessava la regione posteriore della spalla sinistra alla base del collo che recideva la trachea, due colpi interessavano la regione anteriore del torace che fratturavano lo sterno e laceravano il ventricolo destro.

L’esame delle tracce ematiche effettuato portava a rinvenire sui jeans, sulla felpa, sul giubbotto e sul coltello impronte riconducibili all’imputato ed alla vittima. In sede di incidente probatorio si procedeva a perizia psichiatrica sulla

197

persona dell’imputato che era risultato essere conosciuto ed assistito in passato dai Servizi di Salute Mentale.

L’imputato, di origine algerina, riferiva di essere cresciuto in una famiglia numerosa con nove fratelli con i quali aveva sempre avuto un buon rapporto, nonostante delle problematiche relative alla condotta scolastica, non sempre brillante. Abbandonati gli studi, entrava nell’esercito algerino come militare per poi iniziare a lavorare come muratore. Successivamente si trasferiva in Italia alla ricerca di migliori opportunità di guadagno.

Nel 2005, l’imputato prendeva contatto con il Centro di Salute Mentale di Udine e, ritenuto affetto da vissuti deliranti, gli era stata prescritta una terapia che comportava la somministrazione di farmaci neurolettrici. Ancora nell’agosto del 2005 i medici curanti segnalavano come l’imputato lamentasse di vivere allucinazioni auditive. I rapporti con il Centro di Salute Mentale venivano mantenuti sino al settembre 2006.

Alla luce delle risultanze probatorie, il Giudice di primo grado riconosceva l’imputato parzialmente capace di intendere e di volere.

Escludeva il ricorrere dell’aggravante della premeditazione ritenendo che l’acquisto del coltello successivamente al litigio poteva rientrare nel novero di una normale attività preparatoria tipica di qualsiasi azione umana. Non riteneva sussistente nemmeno l’aggravante dei motivi abietti e futili dal momento che nessun motivo è, di per sé, proporzionato all’omicidio e che l’aver ucciso “per vendicarsi dalla violenta aggressione del gruppo sia stato un motivo

certamente non condivisibile, ma non futile”339.

Concludeva, pertanto, per la condanna a nove anni e due mesi di reclusione.

339

Pietrini P., Sartori G., Come evolve il ruolo della perizia psichiatrica alla luce delle acquisizioni delle

198

1.2. Le perizie sulla capacità di intendere e di volere

Il Giudice nominava un perito al fine di poter disporre di perizia psichiatrica sull’imputato per valutare la sua capacità di intendere e di volere.

Espletato l’incarico, l’esperto concludeva per ritenere l’imputato affetto da un’importante patologia psichiatrica di stampo psicotico ed, in particolare, rilevava un disturbo psicotico di tipo delirante in soggetto con disturbo della personalità con tratti impulsivi-asociativi e con capacità cognitiva-intellettiva ai limiti inferiori della norma. Al momento del fatto si sarebbe trovato in una condizione di scompenso avendo interrotto da tempo le cure neurolettiche. Sarebbe stato, pertanto, capace di partecipare coscientemente al processo, quasi totalmente incapace di intendere e, soprattutto, totalmente incapace di volere.

Veniva, inoltre, ritenuto persona socialmente pericolosa.

Il consulente della difesa perveniva a collusioni sostanzialmente conformi, ritenendo l’imputato affetto da una vera e propria psicosi schizofrenica scompensata e, dunque, totalmente incapace di intendere e di volere e, addirittura incapace di partecipare al processo coscientemente. Si concludeva, tuttavia, per la sua non pericolosità sociale.

Infine, il consulente tecnico del Pubblico Ministero riteneva che le ipotesi formulate dal perito in ordine ai moventi dell’azione dell’imputato (vendetta, isolamento sociale, cure incostanti) avrebbero infirmato la certezza delle conclusioni. Riteneva, in conclusione, che la capacità di intendere e di volere dell’imputato fosse solo grandemente scemata.

Alla luce di queste perizie, il Giudice di primo grado, rivalutando gli elementi concreti di giudizio acquisiti (comportamento antecedente ai fatti, anche nel periodo di sospensione delle cure, consapevolezza dell’antigiuridicità del proprio comportamento desumibile dal nascondimento del coltello, dal lavaggio degli abiti e dal comportamento improntato ad indifferenza successivamente al delitto) concludeva che la patologia da cui l’imputato era