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Serge Latouche, obiettore della crescita

L'analisi del mondo contemporaneo di Serge Latouche: i paradossi dell'economia

II.1. Serge Latouche, obiettore della crescita

Serge Latouche è il pensatore contemporaneo che più di ogni altro incarna il pensiero anti-economista e anti-sviluppista. Nasce a Vannes nel 1940, e quindi trascorre la giovinezza nel periodo del boom economico, durante il quale il mito dello sviluppo, della "buona" tecnologia e della crescita economica illimitata si consolidano e si diffondono in tutto il mondo. Si laurea in Scienze Politiche e in Filosofia, per poi diventare professore di Scienze Economiche. La sua formazione come economista, sociologo e filosofo avviene praticamente sul campo. Inizia infatti la sua carriera di “obiettore della crescita” in Congo, dove, fra il 1964 e il 1966, insegna presso la Scuola Nazionale di Diritto e di Amministrazione di Kinshasa.

Approfitta del periodo di insegnamento per completare la specializzazione, ultimando la tesi di dottorato in Economia sull'impoverimento su scala mondiale. Nel 1966 si trasferisce nel Laos, presso l'Istituto Reale di Diritto e di Amministrazione di Vientiane, dove organizza i primi corsi di contabilità nazionale. Tornato in Francia, intraprende la carriera di insegnante-ricercatore, prima all'Università di Lille, poi a Parigi, impegnandosi contemporaneamente in missioni all'estero, in particolare in Africa. Grazie alla sua vasta esperienza, offre un importante contributo a organizzazioni come l'INCAD di Montreal (International Network for Cultural Alternative to Development), la rete Nord- Sud Cultures et Dévelopment, con sede a Bruxelles, a istituti come l'ORSTOM e il CECOD (Centro di Studi Comparativi sullo Sviluppo). Collabora inoltre con

numerose riviste, fra cui l'italiana "Ecologia Politica" dal 1996, "L'uomo e la Società" dal 1982, e fin dalla fondazione con il "Mauss", organo dell'omonimo movimento interdisciplinare anti-utilitarista, fondato da Alain Caillé nel 1981. Attualmente insegna con la qualifica di professore emerito presso la Facoltà di Diritto, Economia e Gestione Jean Monnet dell'Università Paris-Sud; dirige inoltre il gruppo di ricerca antropologica ed epistemologica sulla povertà (GRAEEP) e presiede l'Associazione degli Amici di Entropia.

Negli ultimi anni si è dedicato in particolare agli studi sulle dinamiche socio- economiche nei Paesi del Sud del mondo, analizzandole secondo una prospettiva pluralista: studia pertanto l'auto-organizzazione, l'innovazione tecnologica endogena e la creazione atipica. Ha scritto numerose opere, in gran parte focalizzate sulla critica allo sviluppo e alla modernità, intesa quest'ultima come occidentalizzazione del mondo, ma anche sulla possibilità di creare una nuova civiltà, alternativa a quella dominante, ipertecnologica e consumistica. In effetti, il corpus della sua opera è caratterizzato da un doppio registro: da un lato la critica radicale e intransigente al sistema produttivista, accompagnata dalla cosiddetta "pedagogia delle catastrofi", un artificio da «lucida Cassandra»108 che utilizza quando si tratta di descrivere il quadro attuale e di risvegliare allo stesso tempo le coscienze, prima che avvenga l'irreparabile, perché «il mito del progresso ci porterà al collasso ambientale»;109 dall'altro, la proposta costruttiva, cioè le soluzioni macroscopiche e quotidiane per avviare il processo di decrescita. Il suo progetto è simile a quello scaturito dalla Conferenza di Rio del 2012, dove sono state presentate misure riassumibili in 6 R; il programma di Latouche ne prevede due in più, ed è chiamato, appunto, delle 8 R: si tratta di otto azioni che consentirebbero di invertire immediatamente il senso di marcia verso la distruzione del pianeta e di avviarsi sulla strada benefica della decrescita. Latouche riprende la tradizione del doposviluppo delineata da Karl Polanyi, Ivan Illich e François Partant e si ispira agli scritti di autori come Marcel Mauss,

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V. R. SPAGNOLO, Sviluppo sostenibile? Un inganno. Intervista a Serge Latouche, in: "Avvenire", http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/000212f.htm.

Jacques Ellul, Gilbert Hottois, Cornelius Castoriadis, André Gorz, Nicolas Georgescu-Roegen e Alain Caillé; il nodo della sua analisi è la critica allo sviluppo e alla crescita, intesi come progressione economica illimitata. Entrambi, sviluppo e crescita, sono responsabili della deculturazione, della devastazione ambientale, dello spreco delle risorse naturali, delle ingiustizie sociali e delle disuguaglianze fra Nord e Sud. La crescita economica è la prima causa del consumismo e della frustrazione patologica che ne consegue. Pertanto, Latouche propone quella che definisce "la via della decrescita", cioè la riduzione dei consumi, il rallentamento della produzione, il ritorno all'autoproduzione e all'autoconsumo localizzato, un rapporto ragionevole con la natura. Il programma della decrescita non può però avvenire a prescindere da una decolonizzazione dell'immaginario, sia a livello individuale che sociale, cioè dall'abbandono della logica del consumo, dell'accumulazione e del profitto. In altri termini, Latouche propone una radicale uscita dall'economia, perché questa ha invaso e inglobato il sociale, la morale e l'etica, inquinandole con le logiche del mercato, cioè con la reificazione dell'intera esistenza, umana e non umana.

Nei suoi scritti, Latouche delinea una visione apocalittica del mondo globalizzato e un progetto di decrescita utilizzando una retorica efficace e personale, da esperto comunicatore: unisce argomentazioni teoriche e approccio empirico, utilizza slogan e sarcasmo, sillogismi e metafore, esempi pratici e conoscenze interdisciplinari. Per questi tratti caratteristici e per la sua vena estremista, Latouche in Italia è stato adottato sia da gruppi intellettuali legati alla destra radicale, che dall'universo della sinistra antagonista. Il Manifesto della decrescita fornisce un esempio di questa retorica, intrisa di passione civica e lucida argomentazione, che fa definire Serge Latouche, sia dai sostenitori che dai detrattori, il guru della decrescita:

Di fronte alla globalizzazione che non è altro che il trionfo planetario del mercato, bisogna concepire e volere una società nella quale i valori economici non siano più centrali (o unici). L'economia dev'essere rimessa al

suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo. Bisogna rinunciare a questa folle corsa verso un consumo sempre maggiore. Ciò non è solo necessario per evitare la distruzione definitiva delle condizioni di vita sulla terra, ma anche e soprattutto per fare uscire l'umanità dalla miseria psichica e morale. Si tratta di una vera decolonizzazione del nostro immaginario e di una diseconomicizzazione delle menti indispensabili per cambiare davvero il mondo prima che il cambiamento del mondo ce lo imponga nel dolore.110