In apertura del saggio Il paradigma della traduzione, Paul Ricœur sintetizza quella che si pu`o considerare come la premessa comune a molte delle rifles- sioni contemporanee sul tema del tradurre: il termine “traduzione”, scrive Ricœur, pu`o essere inteso in senso stretto, come trasposizione di un mes-
saggio verbale da una lingua all’altra, oppure pu`o essere declinato in un
senso pi`u ampio, quale sinonimo di interpretazione di un qualsiasi insieme
significante all’interno della medesima comunit`a linguistica. I due approcci,
riconducibili rispettivamente ad Antoine Berman e George Steiner, hanno i loro buoni diritti. Il primo, scelto da Berman, tiene conto del fatto massiccio della pluralit`a e della diversit`a delle lingue; il secondo si rivolge direttamente a quel fenomeno inglobante che George Steiner in Dopo Babele riassume cos`ı:
La percezione dell’intenzione di significare `e una traduzione[21]. Partendo
dalla pluralit`a e dalla diversit`a delle lingue, notiamo un primo fatto incon- testabile: la traduzione esiste poich´e gli uomini parlano lingue differenti. `E quella diversit`a delle lingue di cui ha parlato Wilhelm von Humboldt. In que- sta molteplicit`a incommensurabile Ricœur riconosce qualcosa di “nocivo”: se lo scambio intracomunitario `e assicurato dalla potenza di integrazione di ogni lingua presa separatamente, lo scambio con l’esterno della comunit`a `e reso, al limite, impraticabile da quella che Steiner chiama unaprodigalit`a nefasta.
Un disturbo della comunicazione, dunque, che il mito di Babele, come gi`a visto in Derrida, definisce dispersione sul piano geografico e confusione su quello della comunicazione. La dispersione-confusione viene percepita, allora, come un’irrimediabile catastrofe di linguaggio [21]. Infatti, di fronte ai casi pi`u gravi e irriducibili d’incomprensione o di disaccordo, noi diciamo ordina- riamente: Parliamo due lingue diverse, e lo diciamo anche a chi parla la
nostra lingua, in senso strettamente linguistico. Quindi con la diversit`a delle lingue viene introdotta la diversit`a umana in tutte le sue forme [22]. Ma do- po quello della diversit`a delle lingue, c’`e un altro fatto incontestabile: quello, altrettanto degno di nota, che si `e sempre tradotto. Accanto alla deplorata incomunicabilit`a, c’`e il fatto stesso della traduzione, la quale presuppone che vi sia in tutti i locutori l’attitudine ad apprendere e praticare altre lingue rispetto alla propria. Gli uomini parlano lingue differenti, ma possono impa- rarne altre diverse dalla loro lingua materna. Questo semplice fatto pone la questione della traduzione nei termini di un’alternativa che Ricœur definisce “paralizzante”: o la diversit`a delle lingue esprime una radicale eterogeneit`a – e allora la traduzione `e teoricamente impossibile e le lingue sono a priori intraducibili l’una nell’altra –, oppure la traduzione, considerata quale fatto,
31 1.3. Sfida e felicit`a della traduzione: la lezione di Paul Ricœur
si spiega con un fondo comune che rende possibile il fatto stesso della tradu- zione. `E qui che incontriamo uno degli snodi fondamentali della riflessione di Ricœur [21]:
Suggerisco di uscire da questa alternativa teorica, traducibile versus intraducibile, e sostituirle un’altra alternativa, questa volta pratica, scaturita dall’esercizio stesso della traduzione, l’alternativa: fedelt`a versus tradimento, salvo a riconoscere che la pratica della traduzione resta un’operazione rischiosa, sempre in cerca della sua teoria.
La traduzione, in questo passaggio, diventa teoricamente incomprensibile, ma effettivamente praticabile, sia pure al caro prezzo dell’alternativa pratica fedelt`a versus tradimento [21]. Per comprendere meglio il dilemma proposto, ci vengono in aiuto le riflessioni di Ricœur sul tema dell’irrappresentabile nel lavoro psicoanalitico. La psicoanalisi si pu`o intendere come un esercizio di traduzione in sensi molteplici, che possono sintetizzarsi nelle due “vie d’acces- so” (viste pi`u sopra) di cui parla Ricœur: la traduzione come trasferimento e la traduzione come comprensione. Se originariamente la psicoanalisi ha privilegiato la prima via, oggi `e la seconda a ricevere maggiore attenzione, con la conseguenza che il “vocabolario” psicoanalitico `e divenuto pi`u com- plesso, pi`u aperto, ma pi`u ineffabile, riproponendosi anche in tale contesto, per certi versi, l’interrogativo se privilegiare la traduzione delle parole o del senso. Fatto `e che il problema del senso e della sua traducibilit`a chiama pi`u direttamente in causa la dimensione del non senso e dell’intraducibilit`a. Ad esempio, la traduzione di un sogno in termini di desideri edipici pu`o condur- re a entrare emotivamente in contatto con un nucleo intraducibile segnato da un’angoscia senza nome, cos`ı come l’angoscia senza nome pu`o lenirsi nel lavoro analitico assumendo la configurazione di un’angoscia edipica, e quindi disponendosi a una traduzione imperfetta e decisamente parziale, ma final- mente possibile [23]. Non `e un caso, allora, se M.-A. Ouaknin ravvisa un nesso tra guarigione e traduzione [20]:
[...] con sottigliezza, `e il senso stesso diguarireche viene proposto. Guarire`e il passaggio da una lingua a un’altra, da un sistema di
segni a un altro sistema di segni. Guarire `e tradurre.
Se non c’`e un testo da comprendere (nel senso di spiegare), ma da costruire, se la traduzione non si esercita a partire da una rappresentazione che segue
le leggi del principio di non contraddizione, bens`ı deve pescare in una dimen- sione di irrappresentabilit`a per condurla alla pensabilit`a, allora l’esperienza affettiva della condivisione e dell’empatia nel rapporto analitico viene a porre le basi per la fedelt`a, laddove il rispetto dell’alterit`a pu`o risolversi in un lascia- re l’altro solo, nella solitudine delle sue angosce irrappresentabili, e dunque in un tradimento. Dinnanzi ad un testo che `e chiuso, estraneo, la traduzione si sforza di produrre un testo che non `e identico al testo d’origine, bens`ı gli `e simmetricamente equivalente, ma di una equivalenza senza identit`a [23].
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E quel dire quasi la stessa cosa che ha dato il titolo al libro di Eco, `e il
problema del quasi che diventa centrale nella questione della traduzione poe- tica [24]. Ci`o che allora la psicoanalisi ci porta a riconoscere `e un’inevitabile tensione tra il desiderio di fedelt`a e il sospetto di tradimento, tensione insita in ogni processo di traduzione. Il desiderio di tradurre deve essere pagato sempre al prezzo di questo dilemma, poich´e non esiste un criterio assoluto della buona traduzione. Per rendere disponibile tale criterio sarebbe neces- sario che si potessero paragonare il testo di partenza e il testo di arrivo a un terzo testo (un tertium comparationis, come lo chiama Eco [24]), ritenu- to capace di veicolare il senso identico, che si presuppone circoli dal primo al secondo. Tuttavia, come si esprime Ricœur, occorre prendere atto che a sconvolgere l’ordine del discorso `e la propensione del linguaggio all’enigma,
all’artificio, all’ermetismo, al segreto, in breve alla non-comunicazione[21].
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E proprio qui, nell’indicibile segreto, che ritroviamo quell’intraducibile che credevamo di aver eliminato a vantaggio della coppia fedelt`a/tradimento: non c’`e un senso identico da veicolare, c’`e piuttosto un segreto da mantenere fedelmente. Alla luce di ci`o, si pu`o pensare la traduzione come il tentativo di mantenersi fedeli all’intraducibilit`a di un segreto che non deve essere tradito (tradotto). Questo perch´e nel voler comprendere, nel voler spiegare, siamo portati continuamente a tradire il segreto, il carattere non-comunicativo del nostro linguaggio. La traduzione si bilancia quindi non tanto fra la possibilit`a o impossibilit`a del tradurre, quanto fra la fedelt`a o il tradimento del segreto della propria lingua. Dunque la traduzione perfetta, per Ricœur come per Steiner, non esiste, e non esiste nemmeno una lingua universale, pura, nei termini di Benjamin [25]. Con le parole di Ricœur:
[...] il sogno della traduzione perfetta equivale al desiderio di un gua- dagno per la traduzione, un guadagno che sarebbe senza perdite. `E proprio di questo guadagno ab-soluto che si deve sperimentare la per- dita, fino all’accettazione della differenza insuperabile del “proprio” e dello straniero. Infatti, l’universalit`a ritrovata vorrebbe sopprimere la memoria dello straniero e forse l’amore della lingua propria, in odio
33 1.3. Sfida e felicit`a della traduzione: la lezione di Paul Ricœur
al provincialismo della lingua materna. Una simile universalit`a, can- cellando la propria storia, farebbe di tutti degli stranieri a se stessi, degli apolidi del linguaggio, degli esiliati che avrebbero rinunciato alla ricerca dell’asilo di un linguaggio d’accoglienza. In breve, dei nomadi erranti. [22]
L’universalit`a di cui parla Ricœur ha assunto nella storia varie forme: dal so- gno cosmopolita inaugurato dall’Illuminismo di costruire la biblioteca totale che sarebbe stata, per accumulazione, il Libro, ove tutte le intraducibilit`a sarebbero state eliminate, al sogno incarnato nell’attesa messianica di una
pura lingua [22]. Per assumere il compito del traduttore bisogna invece
seppellire il sogno o desiderio della perfezione: il lavoro di traduzione compor- ta sempre una qualche perdita. La parola “lavoro” `e qui intesa nel doppio senso dato da Freud, come lavoro del ricordo e lavoro del lutto. L’incon- tro con l’estraneo comporta una resistenza, come il ricordo in Freud, sia da parte della cultura di arrivo che da quella di partenza. La resistenza all’at- to traduttivo nella cultura di arrivo si manifesta come la pretesa di una
autosufficienza, il rifiuto della mediazione dello straniero, alimentando l’et-
nocentrismo linguistico e la pretesa di un’egemonia culturale; la resistenza nella cultura di partenza sta tutta nella supposizione di una non traducibi- lit`a: il testo fonte si resiste a essere tradotto perch´e ogni lavoro di traduzione inizia sotto il presagio dell’intraducibilit`a e della certezza dell’inferiorit`a della traduzione rispetto all’opera originale. La traduzione dunque necessita, come la perdita di una persona cara, dell’elaborazione del lutto, ossia un lavoro
della coscienza sui ricordi: per accettare l’impossibilit`a di una traduzione perfetta, bisogna portarne il lutto [22]. Pi`u in generale, ogni capacit`a umana `e accompagnata o minacciata da una forma di incapacit`a: la cifra dell’esi- stenza `e allora la finitudine, la vulnerabilit`a, l’incompiutezza. Il lavoro del lutto ci aiuta, in questo senso, a liberarci dalle illusioni di onnipotenza, a ricondurci a una consapevolezza realistica della condizione umana; in breve, d`a il coraggio di assumere la problematica ben conosciuta della fedelt`a e del tradimento: insieme, auspicio e dubbio [23]. Per usare le parole di Eco:
La conclamata “fedelt`a” delle traduzioni non `e un criterio che porta all’unica traduzione accettabile [...] La fedelt`a `e piuttosto la tenden- za a credere che la traduzione sia sempre possibile se il testo fonte `e stato interpretato con appassionata complicit`a, `e l’impegno a identi- ficare quello che per noi `e il senso profondo del testo, e la capacit`a di negoziare a ogni istante la soluzione che ci pare pi`u giusta. Se consul- tate qualsiasi dizionario vedrete che tra i sinonimi di fedelt`a non c’`e la
parola esattezza. Ci sono piuttosto lealt`a, onest`a, rispetto, piet`a. [24]
Ecco, per Ricœur, la felicit`a della traduzione:
La felicit`a del tradurre diviene un guadagno allorch´e, legato alla per- dita dell’assoluto linguistico, accetta lo scarto tra l’adeguazione e l’e- quivalenza, l’equivalenza senza adeguazione. Qui sta la felicit`a. Ri- conoscendo e assumendo l’irriducibilit`a della coppia del “proprio” e dello straniero, il traduttore trova la sua ricompensa nel riconosci- mento dell’intrascendibile statuto di dialogicit`a dell’atto di tradurre come orizzonte ragionevole del desiderio di tradurre. Di contro al- l’antagonismo che drammatizza il compito del traduttore, questi pu`o trovare la sua felicit`a in ci`o che amerei chiamare l’ospitalit`a linguisti- ca. [22]
L’ospitalit`a linguistica `e il piacere di abitare la lingua dell’altro, di ricevere presso s´e, nella propria dimora d’accoglienza, la parola dello straniero. Si vede bene in quale senso la traduzione costituisca, nel pensiero di Ricœur, un modello adeguato per il problema specifico posto dalla costruzione eu- ropea. A livello prettamente istituzionale, incoraggia l’insegnamento di due lingue vive che non siano in una posizione dominante nell’ambito della comu- nicazione. A livello spirituale, invita a estendere lo spirito della traduzione al rapporto tra le stesse culture: di qui il bisogno di traduttori da cultura
a cultura, di bilingui culturali, in grado di accompagnare quest’operazione di trasferimento nell’universo mentale dell’altra cultura, tenendo conto dei suoi costumi, delle credenze di base, delle convinzioni principali – dei suoi riferimenti di senso [22]. Nella traduzione lavorano il proprio e l’estraneo,
il s´e e l’altro, l’altro che ritroviamo dentro di noi e che non si riduce all’al- terit`a dell’altro uomo: quella della persona `e una totalit`a sempre aperta che ricompone s`ı in s´e il conflitto, ma mai in modo assoluto (e qui anche Ricœur prende le distanze da una concezione di totalit`a di stampo hegeliano), poich´e l’essere umano come il mondo sono opere sempre e costitutivamente aperte. Nella traduzione `e all’opera un concetto di umanit`a plurale unificabile sul modello dell’ospitalit`a e della convivenza, della coabitazione in un mondo reso abitabile da una prassi di convivialit`a. In un brano recente, in dialogo con il neurobiologo Jean-Pierre Changeux, Ricœur chiarisce [22]:
La pluralit`a delle lingue [...] `e coestensiva ad un’attitudine comune alla specie umana, l’attitudine al linguaggio: in altre parole, le lingue