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4. Il mobbing in area sanitaria: i risultati dell’indagine sul persona-

4.1 Sguardo dall’alto

Ospedali, fabbriche, ministeri, aziende, università, aule scolastiche e luoghi di lavoro e di relazione in genere. È qui che il mobbing può trovare il proprio humus potenziale per nascere, crescere, svilupparsi e in qualche caso ingigantir- si fino all’emarginazione di uno o più individui. Ma in quale misura questo feno- meno dipende da cause contingenti, imponderabili, determinate dall’incontinen- za aggressiva del singolo o di un gruppo e quanto invece può essere attribuito a fattori di natura sociologica che, in quanto esito di interrelazioni umane, potreb- bero essere in qualche misura controllati?

Nella prima parte di questo lavoro abbiamo visto che le variabili sociop- sicologiche possono – come sembrerebbe dimostrare il concatenamento di diverse ipotesi teoriche – in qualche misura influenzare l’innesco di un’azio- ne mobbizzante che non sia meramente il frutto dell’imponderabile crudeltà del singolo. Proprio le origini etimologiche del termine mobbing rimandano ad una definizione tenacemente ancorata all’estrinsecazione di impulsi aggressivi che deflagrano soprattutto in presenza di condizioni socio-ambien- tali particolari. Se nel mondo animale la carenza di risorse, la difesa del ter- ritorio e della prole possono scatenare azioni di gruppo contro il “nemico” esterno, è possibile ipotizzare che esistano delle condizioni analoghe anche tra gli uomini? Eccellenti divulgatori come lo psicanalista Erich Fromm (1973), il biologo Henri Laborit (1976) e l’etologo Konrad Lorenz (1963) hanno già fornito delle risposte in questo senso in una prospettiva disciplina- re che tiene tuttavia conto di punti di vista ben diversi da quello sociologico. I sociologi hanno cominciato a guardare al mobbing soltanto sul finire degli anni Ottanta, in concomitanza con l’inizio della «fine del lavoro» (Rifkin, 1995), i drastici e rapidissimi cambiamenti del mondo aziendale e i massicci

4. Il mobbing in area sanitaria: i risultati

tagli nell’impiego in seno al terziario. Il fenomeno – come abbiamo visto più volte – assumeva le sembianze di una vera e propria strategia aziendale per il taglio dei posti di lavoro in esubero, assumendo una propria particolare dizio- ne come forma organizzata di mobbing, detta bossing.

A dispetto di ciò, continuano a latitare – anche nell’ambito delle sociolo- gie speciali – analisi sistematiche sulla nascita per così dire “spontanea” del mobbing, mentre i pochi contributi esistenti sembrano indirizzati maggior- mente verso una prospettiva di tipo puramente descrittivo (quante persone vengono allontanate, che tipo di aggressioni subiscono, come valutano i rap- porti con i superiori, eccetera). Ci si domanda allora se sia possibile indivi- duare dei fattori di rischio di ordine sociologico che, qualora venissero messi a fuoco, possano diventare oggetto di più accorte politiche aziendali o, come nel nostro caso, di una più scrupolosa e vigile dirigenza sanitaria nei confron- ti di un problema, che, come abbiamo osservato nella prima parte di questo lavoro, trova nell’ambito ospedaliero una delle sue punte più elevate. In quel- la che con un pizzico di magniloquenza viene presentata come «la prima ricer- ca italiana» sul mobbing, Ege (1998, p. 27) ci ricorda appunto che l’ambiente ospedaliero è uno di quelli presso i quali il mobbing attecchisce maggiormen- te, presumibilmente a causa della «presenza di due gruppi che tendono a mescolarsi poco: il personale medico e quello paramedico. Per questa sorta di rivalità – precisa ancora Ege – esiste all’interno di ciascun gruppo un certo “codice” professionale, per cui chi non segue le regole del gruppo si pone automaticamente in una posizione rischiosa».

Vediamo dunque in quale misura, per dirla con Popper (1963), le congettu- re operate nella prima parte di questo lavoro trovano effettivo riscontro sul piano empirico.

Prima, però, è necessario spendere due parole per motivare l’assenza dei risultati relativi alla dimensione psicologica nelle pagine che seguono. Come è già stato ampiamente documentato, la psicologia non dispone di un test ad hoc, validato34, concepito appositamente per dare conto della propensione al ruolo di

mobber ovvero a quello di mobbizzato. Per ovviare a questa carenza, ci si è orientati verso un test – quello di Schuler, peraltro esso stesso non validato – che consentisse un’approssimazione teorica accettabile al modello adottato in occa- sione della presente ricerca. La scelta è stata ovviamente operata facendo riferi- mento a più soluzioni possibili. Che cosa, allora, non ha funzionato? Come si ricorderà, il test elaborato da Schuler presenta quattro atteggiamenti psicologici (assertività, fuga, manipolazione e aggressività) che, stando alle ipotesi espresse nella prima parte di questo lavoro, avrebbero potuto fornire delle indicazioni in merito all’eventuale propensione degli intervistati a rivestire il ruolo di vittima.

34Un test può essere ritenuto valido (o “validato”) quando – come chiarisce la Anastasi (1954, p. 56) – «misu- ra in realtà ciò che dice di misurare». Per ottenere questo risultato è necessario ricorrere ad una somministrazione su grandi campioni e sottoporre il test stesso ad opportune procedure di controllo.

Dei 48 item iniziali ne sono stati espunti, dopo il pretest, ben 12. Il modello sta- tistico prevedeva che gli item rimanenti, equamente ripartiti in termini di nume- ro tra i quattro atteggiamenti da rilevare, correlassero tra loro all’interno di cia- scuna dimensione in misura maggiore rispetto alle dimensioni esterne. In breve, ci si aspettava, ad esempio, che tutti gli item sottostanti la dimensione “aggres- sività” correlassero tra loro meglio di quanto non potessero correlare con item della dimensione “fuga”. In termini tecnici, si parla in questi casi del requisito per cui la validità convergente deve presentare misure di associazione maggiori rispetto a quelle presentate a livello interfattoriale (validità discriminante; Cfr. Campbell e Fiske, 1959).

Il test di Schuler non soltanto presentava questo manifesto difetto tecnico (alcuni item appartenenti alla stessa dimensione presentavano misure di associa- zione minore rispetto a quella con item afferenti a dimensioni esterne), ma aggiungeva a questa veniale lacuna un più marcato handicap. I risultati hanno infatti mostrato l’altissima desiderabilità della dimensione “assertività” (l’84% degli infernieri si polarizza su questa dimensione) che rende impossibile ogni tentativo di analisi (Figura 4).

Gli intervistati sembrano dunque in larghissima parte (85,5%) franchi (58,2%) e altruisti (27,2%), dato che – senza nulla volere togliere a chi eser- FIGURA4 - I quattro tipi di atteggiamento ricavati dal test di Schuler

100- 80- 60- 40- 20- 0- 14 84 - Manipolazione - Aggressività - Fuga - Assertività Tipi di atteggiamento V alori percentuali

cita la professione infermieristica – pare lontano da ogni possibile buon senso.

Si sarebbero potuti ottenere risultati più edificanti salendo di un gradino lungo la scala di astrazione del test progettato da Schuler, passando cioè dai quattro atteggiamenti alle quattro dimensioni che li compongono (franchezza, vivo interesse verso gli altri, dissimulazione e ripiegamento su se stessi).

In questo modo, è possibile rintracciare almeno parzialmente la relazione supposta teoricamente nelle pagine precedenti: la Tabella 3 mostra infatti che le persone meno a rischio hanno un atteggiamento che oscilla tra l’interesse verso gli altri e la franchezza; al contrario, coloro che più risultano esposti alle mole- stie morali hanno come tratto peculiare il ripiegamento su se stessi, in una per- centuale che è largamente maggiore rispetto a quella riferita alle altre dimensio- ni degli atteggiamenti psicologici.

Tuttavia, non è rintracciabile una relazione sufficientemente marcata da avvallare ulteriori analisi. Quanto leggibile dalla Tabella 3 suggerisce comun- que che la componente psicologica andrebbe in qualche modo “decurtata” dal modello, a conferma di quanto ipotizzato in sede teorica. Ciò significa che la potenziale esposizione al mobbing – governata essenzialmente da elementi di matrice sociologica – è condizionata almeno in parte da un atteggiamento dimesso, chiuso, evitante. Un test più mirato avrebbe probabilmente potuto cir- costanziare meglio le caratteristiche psicologiche che possono intervenire in questo processo.

Chiarito ciò, possiamo passare all’esposizione dei risultati della ricerca, cominciando con una panoramica sulle caratteristiche generali presentate dagli infermieri del nostro campione, proseguendo con una valutazione del modello TABELLA3 - Mobbing e dimensioni dell’atteggiamento secondo il test di Schuler

(valori in percentuale) Esposizione ad azioni mobbizzanti Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Soggetti protetti Soggetti a rischio Soggetti altamente esposti 80,6 10,7 8,6 Franchezza

Tratto dominante della personalità

82,6 9,5 8,0 Vivo interesse verso 79,2 14,3 6,5 Dissimu- lazione 70,0 10,0 20,0 Ripiega- mento su se stessi 80,6 10,7 8,7 Totale

sociologico e chiudendo con l’analisi delle implicazioni stressogene del mob- bing.