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Between both Sides of the Bridge. Famiglie e reti commerciali attorno a Pontebba fra

Cinque e Seicento

Premessa

1 Intendo offrire alcuni elementi di ricostruzione e interpretazione sui traffici commerciali e le famiglie di Pontebba e Pontafel che li governavano, fra la seconda metà del Cinque e la prima metà del Seicento.

2 Molte delle cose che scriverò, e molto più quelle che vorrei poter scrivere, sono ovviamente condizionate dalle fonti. Pontebba e le comunità sottoposte alla giurisdizione dell’Abbazia di Moggio, così come Pontafel e tutte le comunità della Valcanale soggette al principato vescovile di Bamberga, conoscono dal versante delle tracce documentarie residue che li riguardano una situazione peculiare. Limitatamente al versante « italiano », dal fronte del quale mi sono soffermato per l’indagine, vi è da un lato un’offerta in eccesso  : il ricco archivio della Giurisdizione di Moggio, compreso il suo versante spirituale ; dall’altro un difetto che condiziona non poco questa ricerca : l’assenza dei registri canonici per Pontebba, che residuano soltanto dal 1792, e per Pontafel, che sopravvivono appena dal principio del Settecento. Inoltre, a marcare ulteriormente i limiti intrinseci di quanto scriverò, per la fase che s’intende analizzare vi è la mancata conservazione delle carte dei notai che rogarono in questa comunità, ultima propaggine confinaria della Repubblica veneta con l’impero asburgico delle Alpi orientali1.

3 Pur tuttavia, è lo stesso territorio della Valcanale e del Canale del Ferro a presentarsi come una dura palestra per chi si accinge a studiarne la storia. Antonio Battistella nel 1924, in una delle prime ricostruzioni prodotte in lingua italiana sulla Kanaltal, credo abbia ben espresso i condizionamenti che lo storico ha di fronte a sé quando analizza le vicende degli uomini di queste comunità.

4 È facile comprendere come la storia di tutte codeste terricciole di Val Canale non possa essere ricca di fatti propri e come, se mai, essa acquisti una relativa importanza e un colore particolare per via d’avvenimenti, vorrei dire, esteriori che intorno ad essa si annodano … Più che dei paesi è la storia della strada che tutti li collega, di quella benefica e fatale ad un tempo che apporta la prosperità e la rovina e per cui passa la vita e la morte ; per dove transitano le carovane dei mercanti, operai ardimentosi del traffico internazionale ; le compagnie di lavoratori della gleba e delle officine accorrenti a fecondare terreni incolti e ad estrarre dalle viscere della montagna le ignote ricchezze minerali ; gli eserciti imperiali di lurchi lanzichenecchi e di mercenari affamati scendenti a saccheggiare l’Italia o risalenti vinti a sfogare l’ira della disfatta sugli inermi villaggi lungo il cammino2.

5 Si tratta di un suggerimento che, sfrondato dai manifesti risvolti nazionalistici, va colto, anche e soprattutto per una questione di carattere metodologico che provo a sollevare.

6 La storia dei transiti commerciali che ha sovrinteso i rapporti fra i territori imperiali e quelli veneziani e italiani in età moderna, è stata fatta e scritta sulle merci ; vale a dire, calato nel contesto, si è compreso cosa e come, e a beneficio di chi, veniva scambiato fra il Canale del Ferro e la Valcanale : legno, ferro, e bovini per i fabbisogni della Repubblica veneta e dell’area adriatica in discesa ; vino e tessuti in salita per i consumi dei territori centro-europei3.

7 Credo si possano individuare tre limiti attorno a questa modalità di procedere nella ricostruzione storica di questi scambi commerciali.

8 Il primo è una constatazione di bilancio, in saldo negativo per Venezia soprattutto dalla seconda metà del Cinquecento : era più quel che si importava rispetto a quello che si esportava. Quindi, la storia di questi transiti, vista dalla Dominante, sembra esser stata contrassegnata da un alone di crisi permanente, soprattutto dopo determinate cesure – l’apertura della strade del Plezzo nel 1562, che escludeva il territorio veneto dai passaggi daziari obbligati, a preludere la

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più fosca crisi del Seicento – superate le quali il volume precedente dei traffici non sarebbe mai più stato raggiunto ; in fin dei conti, una storia poco meritevole d’essere indagata, soprattutto se messa al confronto con altri assi commerciali ben più remunerativi per le casse della Repubblica4.

9 Il secondo è l’assenza del numero : si sa che l’ammontare dei transiti fu notevole, pur con contraccolpi decisivi al punto da compromettere il rilievo economico di questa arteria, ma non sappiamo ancora per bene quanto fu importante e per cosa. Su questo fronte, sia per le merci in ingresso che per quelle in uscita, le fonti non ci aiutano, se non sporadicamente. Come si sa, uno degli indicatori principali per stabilire il peso dei transiti sarebbe il valore dell’appalto delle mude, i dazi riscossi lungo il tragitto, in particolare quella di Venzone, il passaggio obbligato all’imbocco del Canale del Ferro. Il suo ammontare ci è noto soltanto frammentariamente, ed il suo peso nella Camera fiscale di Udine lo conosciamo in forma continuativa soltanto a partire dal 17365. Non sappiamo granché nemmeno del pontasio, la gabella riservata ai nobili di Prampero in cambio della manutenzione della strada, riscossa all’altezza della Chiusa (Chiusaforte)6, che comunque sulle quantità ci direbbe poco.

10 Il terzo limite è l’assenza del nome. A lungo l’interesse verso chi contribuiva a costruire le reti di relazioni necessarie ad unire Vienna e Venezia, è stato marginale. Il ruolo dei mercanti e delle loro famiglie, così come dei mediatori – gli agenti – al loro soldo, è rimasto all’ombra delle merci che scambiavano. È soprattutto attorno a questo aspetto che intendo soffermarmi per questo contributo. Credo si tratti di un tema sul quale la storiografia recente sul sistema dei mercati – specie quelli tessili – e delle fiere nella Repubblica veneta, e più in generale sulla circolazione dei beni e la mobilità degli uomini nell’area alpina, si sia soffermata non poco7. È bene che anche attorno a quel che avveniva in questo lembo dell’estremo oriente d’Italia questo interesse cresca. Analizzando il caso di Pontebba/Pontafel, proverò a spiegare il perché.

Ruberie

11 Valcanale e Canal del Ferro sono vallate strette e impervie. Il Fella che le solca ha carattere bizzoso, irascibile. La strada che lo costeggia, pur percorribile con carri, subiva il pericolo costante della rovina. Eppure, i transiti c’erano, e quotidiani. E con essi la minaccia, altrettanto frequente, dell’azione dei malvagi. Su di loro, come per tante altre aree alpine, è permeata la leggenda dell’origine dei villaggi di queste valli. San Leopoldo, ovverosia Leopoldkirchen/ Lipalja Vas/La Glesie, il villaggio immediatamente successivo a Pontafel, si vuole abbia avuto origine da un brigante, Leopoldo, e i suoi malvagi seguaci che, pentiti e riappacificati con gli uomini e Dio, trovarono spazi e ragioni per fermarsi non lontano dal Vogelbach, il torrente che attraversa il paese, coltivare la terra e costruire la chiesa. Si erano convertiti grazie ad un pellegrino diretto a Roma. Chiestogli se avesse ancora qualcosa, una volta che l’avevano spogliato di tutto, negò. Nel prosieguo del viaggio, si ricordò di aver cuciti nell’orlo del mantello alcuni ducati. Allora tornò indietro e li consegnò a Leopoldo e ai suoi compari. Edificati da tanta cristiana onestà, lì dove abbandonarono il peccato fondarono un villaggio8.

12 I furti, quelli concreti e con scarso afflato leggendario per chi li subiva, c’erano eccome. Testimoniano, di riflesso, l’esistenza, se non l’ampiezza, dei transiti.

13 Nell’autunno del 1642 al seguito di Gerolamo Crassowsky, nobile della corona polacca in viaggio lungo il Canale del Ferro verso Venezia, c’era l’italiano Bartolomeo Bolzoni. Originario di Cremona, cittadino di Cracovia fin dal 1640, il Bolzoni va incluso in quel foltissimo gruppo di uomini d’affari italiani attivi in territorio polacco durante il Seicento, anch’egli probabilmente protagonista in quei transiti che univano i mercati del Mediterraneo orientale al Baltico9. Bartolomeo era «  solito far viaggi per questa strada  » in qualità di « agente del serenissimo re di Polonia ». Giunsero a Pontebba con al seguito un servitore nella mattinata del 18 ottobre e chiesero l’ausilio di due uomini per proseguire almeno fino a Venzone, ottenendo consulenza dal custode della sanità, vale a dire il responsabile del lazzaretto, l’udinese Bartolomeo Pilosio.

14 La custodia di Pontebba, governata centralmente dai Provveditori alla Sanità, era stata ultimata nel 1626, qualche anno prima dell’epidemia disastrosa che falcidiò Venezia10, ma era stata attivata già diversi anni prima. Questa, come tante altre, era una delle porte d’accesso

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Mélanges de l’École française de Rome - Italie et Méditerranée modernes et contemporaines, 125-1 | 2013 epidemiche, oltreché commerciali, ai territori della Repubblica, e come tale andava sottoposta ad un vaglio rigido11. Anche la comunità di Pontebba ne era consapevole e, in attesa che il lazzaretto fosse ultimato, già nel 1624, per ringraziare dello scampato pericolo, aveva eretto una chiesa intitolata a san Rocco, nella quale vi confluivano d’oltreconfine devoti da Pontafel e Leopoldkirchen12.

15 Il Bolzoni, dunque, conosceva bene « le cative strade … in questi monti » ; preferiva farsi accompagnare da qualcuno del luogo. Dopo una contrattazione a vuoto con due uomini di Pontebba che chiedevano troppo – pretendevano «  un scudo della croce  » ciascuno – raggiunsero un accordo con altri due trovati in prossimità del ponte sul torrente Pontebbana (« in capo del ponte avanti la casa del signor custode »), il confine che suddivideva i territori imperiali da quelli veneti  : Giacomo Croatino di Pontafel e Giorgio Buzzi di Pontebba  ; avrebbero ricevuto « un tallero per uno senza le spese »13.

16 Partirono nel pomeriggio. Con le due carrozze sulle quali viaggiavano, giunsero a Pietratagliata, il villaggio immediatamente successivo a Pontebba, leggermente distaccate, al punto che dovettero consentire, in tempi diversi, il passaggio di alcuni carri tedeschi carichi di vino che procedevano in senso inverso. Così facendo, aumentarono le loro distanze e si persero di vista. Il giovane servitore polacco Alessandro Raberzon raggiunse quelli avanti, chiedendo assistenza e, assieme al Croatino, tornarono indietro. Giunti alla carrozza la trovarono vuota : Giorgio Buzzi di Pontebba non c’era più ; « È andato via quella bestia, che non val niente », disse il servitore. Dalla carrozza mancava un fagotto14.

17 Partì l’inseguimento, che riuscì nell’intento. Alessandro Raberzon scovò il Buzzi poco prima di arrivare di nuovo a Pontebba e con le buone – « Perché non voi tu venir appresso il carro vieni, che ti pagarò » – lo convinse a seguirlo. Ma questi con un espediente proprio della più trita commedia dell’arte – « fece finta di scioglier le bragasse, et disse : Con licenza voglio andar a far un servitio » – fuggì lesto verso la montagna, dove nemmeno col cavallo era possibile inseguirlo15.

18 Con la probabile complicità di parenti alla lontana che aveva in Pietratagliata, come Giacomo Buzzi e sua moglie – « Zorzi Buz po esser nostro parente un puoco, perché tutti siamo Buzzi, et nati dalli nostri vecchi, che sono stati sette fratelli » – si allontanò, probabilmente col malloppo. Fu condannato in contumacia dal tribunale dell’Abbazia di Moggio al bando perpetuo e alla galera e, se rotti i confini, all’impiccagione. Il dettagliatissimo inventario del contenuto del fagotto – berrette, camicie, fazzoletti, lenzuoli, federe, e 100 ongari racchiusi in una vescica di bue – stimava il maltolto in 400 ducati16.

19 A valle di Pontebba c’è Dogna, un piccolo villaggio che alla fine del Cinquecento contava poco meno di 200 anime. Tutti i carri in transito doveva necessariamente passarvi e alcuni di questi, assieme ai carradori che li guidavano verso i territori imperiali, vi sostavano, magari soltanto per una notte.

20 Nel maggio 1591 una serie di furti culminò con un fatto increscioso. Dalla chiesa di San Nicolò fu sottratto « lo facciol zoso della testa della Madonna ». Era troppo. Ne sortì un processo che brancolò a lungo alla ricerca di conferme di voci e mormorazioni che servissero ad individuare i ladri. I testimoni evidenziarono altre sottrazioni, in diversi tempi, di uva passa, mandorle, pepe, cera, vino, olio e malvasia. Alla fine, per questo tipo di furti i sospetti si concentrarono su Giacomo Cappellari detto Bravet. In casa sua ospitava carradori e le loro mercanzie che, come affermò, « per gratia di Dio » continuavano a passare per la valle17. Teneva anche alle sue dipendenze dei carradori, certamente uno proveniente da Wolfsbach/ Valbruna, in Valcanale. Aveva poi un cugino a Saifnitz/Camporosso, il villaggio precedente a Tarvis/Tarvisio, col quale intratteneva in tutta probabilità rapporti commerciali. Era stato visto, il cugino, a Pontebba a vender cera, probabilmente fornitagli dal Cappellari stesso, frutto, si sospettava, dei furti perpetrati in casa sua. Nicolò Perolo di Venzone testimoniò di aver incrociato la sua strada con quella del Cappellari nel mentre si portavano a Pontebba, e l’incalzò : « Bravetto intendo che sei diventato mercadante di cera, et lui disse : Io ? Non si trovarà mai questo, et io dissi : Dio voglia che’l non sia. Esso poi disse : Essaminarano, trovarano ben la verità, chi sarà stato »18.

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21 Dai due casi credo possano emergere molti elementi che illustrano la natura di questi traffici. Mi limito a segnalarne tre.

22 Il primo riguarda la pena comminata a Giorgio Buzzi. Poco conta sapere se fu o meno eseguita, quanto invece evidenziare come un delitto perpetuato sulla strada – fonte vitale per tutti, ma ancor di più per l’economia di scambio che univa i territori prima e dopo la vallata – dovesse trovare punizioni esemplari e severissime. I poteri di giudizio attribuiti alla giurisdizione abbaziale di Moggio, a lungo ritenuti stancamente sottomessi al regime lassista della commenda19, si dimostravano quanto mai solerti nel contrastare gl’impedimenti al normale svolgimento dei traffici ; o, almeno, provavano a dimostrare di esserlo.

23 Ancora, val la pena segnalare le monete che circolavano : ongari, scudi, ducati, fiorini. Una ricchezza che, nel suo senso discendente, andava ad alimentare i banchi di prestito di Venezia, una delle maggiori piazze creditizie europee ; nonostante tutto, anche in quegl’anni20.

24 La terza riguarda l’opportunità economica, mai valutabile nel calcolo minuto, del contrabbando per le popolazioni che vivevano in prossimità del confine21. Lo scambio illegale, e tacito ; o il furto e il trasferimento illecito delle merci, era pratica pressoché quotidiana. Per quanto conteso, il territorio liminare fra le comunità di Pontafel e Pontebba, e di tutte le altre comunità che con i loro beni goduti collettivamente, in particolare le malghe, ossia i pascoli alpini in quota, insistevano sul confine, era permeato da passaggi continui. Cristoforo Micossi di Pontebba – sul quale mi soffermerò in seguito – il 16 settembre 1592 nel mentre si difendeva dall’accusa di portare abitualmente l’archibugio e di averlo usato contro un pastore, disse che sì, effettivamente poteva anche essere che l’avesse portato con sé, ma, da buon patriota, l’aveva

tolto ad impresto per andare sopra quei monti per diffender le ragioni, et iurisdittioni del serenissimo prencipe nostro di Venetia contra li arciducali, quali hanno più volte cercato di turbare, et usurpare i confini di sua Serenità, onde io insieme con altri sudditi veneti siamo andati a difesa dei confini, et iurisdittione, et li habbiamo tolti per pegnora diversi animali de grossi, et de menuti22

25 Non soltanto attraverso la strada principale, dunque, e non solo per le merci trasportabili con some e carri, si potevano evadere senza grandi fatiche i controlli ai passaggi. Il caso di Giacomo Cappellari, che dei carri e del loro contenuto doveva essere il custode ma si dimostrò essere il ladro, offre alcune spie su come questi traffici potessero meglio funzionare per chi riusciva a governarli. Giovava, per dire, avere un parente al di là del confine ; un cugino a Camporosso bastava per amplificare guadagni immediati e reciproci.

La strada

26 La ricostruzione di casi analoghi potrebbe moltiplicarsi. Illustrano bene, ricorrendo alle altre ricostruzioni peraltro già fatte mirabilmente23, molti degli aspetti che regolavano e governavano i transiti, di persone e di cose lungo queste due vallate. Dimostrano la tenuta dell’asse, che nei suoi sviluppi declinava da Venezia all’Europa centrale e orientale, fino in Polonia (per i polacchi la Valcanale ed il Canale del Ferro rappresentavano la «  porta d’Italia  »24, il transito attraverso il quale raggiungere Venezia, oppure Roma in occasione dell’anno santo).

27 La strada, dunque, come ricordava Antonio Battistella, era una delle basi materiali che garantiva la sopravvivenza di queste comunità.

28 Il tratto di congiunzione fra la Valcanale e il Canale del Ferro era la porzione ultima di quella « strada maestra che viene de Allemagna », come fu definita dalle autorità veneziane almeno fino al tardo Cinquecento25. Nonostante le difficoltà intrinseche che impedivano frequentemente i passaggi, il ricorso ai carri per le merci in uscita, come e soprattutto il vino, favorì questa arteria rispetto ad altre vie che nel lembo orientale dei territori repubblicani si dimostravano, in fin dei conti, troppo impervie.

29 Anche in senso discendente il carro poteva ben prestarsi per i trasporti, soprattutto di un materiale del quale la Repubblica era affamatissima : il ferro e, più in generale, i minerali che si ottenevano dallo sfruttamento delle miniere carinziane e stiriane, oppure quelle più prossime al confine, come Raibl e Idria, sulle quali progressivamente stavano investendo diversi mercanti, anche italiani, stanziatisi in Valcanale o lungo l’alta valle dell’Isonzo. Oppure, più semplicemente, per l’importazione del ferro e dell’acciaio che si acquistava alla

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Mélanges de l’École française de Rome - Italie et Méditerranée modernes et contemporaines, 125-1 | 2013 fiera di Villach/Villacco. Da qui un complesso infrastrutturale costituito dalle fucine e dai forni fusori per la lavorazione del metallo, che caratterizzavano tutti i villaggi delle due vallate, da Malburghet/Malborghetto (in particolare), fin oltre Pontebba Veneta26.

30 Ancora, un’altra merce essenziale per Venezia e la sua Repubblica, giusta la sua vocazione commerciale marittima e la sua natura di metropoli, discendeva lungo la vallata, ma senza poter ricorrere al percorso stradale, visto il suo ingombro : il legname, attorno al quale si intrecciavano interessi plurimi, di mercanti tedeschi e locali, così come di famiglie patrizie della Dominante27.

31 Il percorso che congiungeva Pontebba a Latisana attraverso le acque, e a Portogruaro, i termini di scalo per queste specifiche merci, aveva in Venzone uno dei passaggi daziari obbligati. La permeabilità del confine orientale, lungo i territori soggetti dal 1500 alla Contea di Gorizia, non compromise le entrate della muda, e quindi i passaggi di merci (ferro soprattutto) almeno fino al 1562. Con la conclusione della strada di Plezzo, vale a dire il tratto che congiungeva Tarvisio a Raibl e da lì lungo la vallata dell’Isonzo in direzione di Gorizia, oppure fino allo sbocco sul mare di San Giovanni di Duino, le fortune di Venzone e del Canale del Ferro cominciarono a scemare. Si tratta di una storia ben nota28 : l’ammontare degli appalti dei dazi a Venzone cominciò a scendere ; non immediatamente, ma è certo che alla metà del Seicento il suo valore era ridotto alla metà rispetto ad un secolo prima. Sulla certezza di questa cesura, quindi, non ci sono dubbi, ma è bene ridestare una dovuta cautela nel considerare i suoi immediati e duraturi effetti.

32 Pontebba e Pontafel rappresentavano lo snodo di questo percorso, la congiunzione delle due compagini statali, divise in quel tratto soltanto da un ponte, quello sul rio Pontebbana, anch’esso elemento di distinzione fra due mondi che si volevano – ma, ancor più, si son voluti interpretare – distinti.

33 Edward Brown, infaticabile viaggiatore ed esploratore di miniere in tutta l’Europa centrale per conto della regina d’Inghilterra, vi si soffermò meravigliato nel giugno del 1669. In arrivo dalla Chiusa, il tratto più stretto della vallata dove i veneziani avevano costruito un forte e mantenevano un presidio a difesa delle eventuali incursioni, turche soprattutto, ne diede una eloquente descrizione.

Ponteba or Ponte Fella upon the River Fella, the exact Confines between the Venetian and

Imperial Dominions, and surely a man can seldom pass more clearly from one Contry unto another then in this Town; on one side of the Bridge live Italians Subjects unto the State of Venice, on