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ROBERTO ESPOSITO, Nove pensieri sul-la politica, E Mulino, Bologna 1993, pp. 231, Lit 24.000.

L'immagine degli intellettuali italia-ni che circola all'estero li ritrae, quan-do va bene, nel ruolo di studiosi rigo-rosi, ma che troppe volte soffocano il coraggio del pensiero. Il primo merito del libro di Esposito, Nove pensieri sulla politica, è quello di sfuggire a questo ritratto. Da esso proviene in-fatti una forte sollecitazione a riflette-re. E a riflettere sulla politica da un angolo visuale inconsueto rispetto alle tradizionali prospettive filosofico-poli-tiche: il punto di vista dal quale essa viene osservata è, ancora una volta, quello dell'"impolitico". Ma, a diffe-renza di Categorie dell'impolitico (Il Mulino, Bologna 1988), in cui i con-torni di questa nozione venivano ri-cercati attraverso la ricostruzione del-le proposte teoriche di singoli pensa-tori, ora l'impolitico viene indagato interrogando testi, o frammenti di te-sti, che spaziano dalla politica alla filo-sofia, dalla teologia alla letteratura, dall'antropologia alla storia. In queso gioco di rimandi tra molteplici riferi-menti, nella contaminazione tra vari linguaggi e diversi orizzonti concet-tuali risiede gran parte della provoca-zione e della problematicità del libro che si articola passando attraverso l'analisi di nove termini-chiave: Politica, Democrazia, Responsabilità, Sovranità, Mito, Opera, Parola, Male e Occidente. Non è però esclusivamente un diverso approccio che distingue Nove pensieri sulla politica dall'opera precedente di Esposito. In quest'ulti-ma, l'impolitico, definito come "il po-litico guardato dai suoi confini ester-ni", veniva pensato come qualcosa di essenzialmente contrapposto al politi-co. A tale categoria, insomma, per quanto già allora difficilmente riduci-bile nei soli termini di un'opposizione, era assegnato il non semplice compito di indicare la possibilità di una rifles-sione alternativa. Vale a dire, di una riflessione che non si compromettesse né con una politica depotenziata e neutralizzata a pura amministrazione o a disincantata e cinica volontà di do-minio né con una concezione che ac-carezza il sogno di una comunità orga-nica e omogenea volta a rappresentare il Bene. Soprattutto le voci Democrazia, Sovranità e Mito testimo-niano che D'impolitico" viene defini-to, anche all'interno dell'opera più re-cente, attraverso questa duplice con-trapposizione. Ora, però, ad essa vie-ne data voce senza più indulgere in

alcuna retorica delD'oltrepassamen-to", senza cedere cioè all'illusione che sia possibile fuoriuscire dalla tradizio-ne della filosofia politica e in getradizio-nerale superare la nostra tradizione di pen-siero. Questa consapevolezza, tuttavia, non smorza l'intento critico e polemi-co dell'autore che lo porta a dichiara-re finito — o quantomeno estenuato — un certo modo di fare filosofia po-litica: o come accademico esercizio di ricostruzione storica che non mette in discussione il senso delle categorie as-sunte, o come prontuario di modelli che devono trovare poi applicazione nella realtà. Assai diversa è l'intenzio-ne di Esposito, i cui Nove pensieri si incaricano di decostruire il significato immediatamente evidente di alcuni

o

due termini inizialmente contrapposti. E che, alla fine dell'operazione deco-struttiva, soluzioni e risposte non ven-gano date è implicito non solo nel me-todo, ma anche nell'intento che inner-va l'intera problematica del libro. Quello, cioè, di restituire alla politica la dimensione della fattualità — libe-rarla dai trucchi dialettici sempre in agguato che sublimano un fatto in va-lore — evitando però, al contempo, di ricadere in una pura apologia dell'esi-stente, facendo così in modo che il realismo politico non rimanga l'ultima e arrogante risposta. Questa sorta di doppio-vincolo a non tradire la fini-tezza costitutiva della realtà in un"'Alterità ad essa trascendente" e alla simultanea esigenza di non

tra-scorde" è stata realmente pensata solo da autori estranei alla corporazione dei filosofi politici. Da Machiavelli, per esempio. Ma anche da san Paolo, da sant'Agostino, da Pascal, da Burckhardt, da Nietzsche, tutti impe-gnati, ognuno a suo modo, a fissare il politico nella sua fatticità e a rifiutare, al contempo, ogni apologia del fatto come tale, e tutti tragicamente consa-pevoli dell'impossibilità di uscire da questa contraddizione, f

Ed è la stessa tensione tragica che Esposito fa emergere, nel capitolo Responsabilità, dalla lettura delle pagi-ne weberiapagi-ne sulla Politica come pro-fessione, dedicate al difficile, forse im-possibile, compito di tenere unite, senza confonderle, convinzione e

re-emancipatori. Per quanto riguarda poi il funzio-namento dei diversi pacchetti di diritti, Zincone prende in considerazione la quantità dei diritti ri-conosciuti, la loro estensione, la facilità di godi-mento, il potere reale che tali diritti conferiscono ai singoli e i perduranti meccanismi di esclusione e inclusione. Nonostante la cittadinanza appaia un attributo universale di tutti i cittadini, in realtà, se per cittadinanza non s'intende solamen-te il diritto di voto e se, d'altra parsolamen-te, per cittadini non s'intendono solamente i nazionali, in ogni società ci sono gruppi che non godono pienamen-te dei diritti di cittadinanza (donne e immigrati, per esempio) e ci sono aree dove l'accesso ai

di-ritti è più d i f f i c i l e (il nostro sud o le inner cities americane). Cosi la promessa di inclusione non è mai compiuta e i meteci sono ancora fra noi. Ma

proprio il f a t t o , moralmente riprovevole, dell'esclusione, anziché sfociare nel lamento

sul-le promesse non mantenute della democrazia, in-duce l'autrice a riflettere su come includere, visto che la cittadinanza migliora i prospetti di vita del-le persone che vi sono incluse. Le possibilità di inclusione sono infatti vincolate al contesto, allo specifico modello di cittadinanza in cui l'inclusio-ne deve avvenire. Se il contesto è un modello sta-talista non è possibile importarvi direttamente le forme di inclusione dei modelli societari e

vice-versa. Nonostante Zincone dichiari la sua prefe-renza per i modelli dal basso, tuttavia ricorda che i modelli statalisti, più f r a g i l i , più differenzianti dietro l'universalismo che li anima, invadenti nei controlli e poco liberali nel complesso, sono la ri-sposta a condizioni sociali d i f f i c i l i , a un'alta con-flittualità che non ha trovato una sua

composizio-ne sociale. Il giudizio pertanto va calibrato non solo sugli e f f e t t i , ma anche sui vincoli; analoga-mente le possibilità di riforma devono fare i conti con i vincoli, senza necessariamente appiattirsi sull'esistente, né restando impermeabili ad altre esperienze.

In questo bel lavoro che dà persuasivamente conto dei diversi modi in cui la democrazia si è articolata nei diversi contesti, manca, a mio giudi-zio, una variabile che probabilmente non è tanto rilevante per la comprensione dei modelli, ma che è certamente decisiva per le ipotesi di riforma, e cioè l'etica pubblica, con cui intendo il comune sentire in una società ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ciò che è tollerabile e ciò che non lo è, che caratterizza una cultura pubblica, che articola le argomentazioni e i discorsi pubblici, che sostie-ne le aspettative e anima le ipotesi di cambiamen-to. Se, per esempio, in generale è vero che egua-glianza e efficienza non sono compossibili, è però anche vero che i livelli rispettivamente di dise-guaglianza e di inefficienza che una società è di-sposta a tollerare variano con l'etica pubblica. Quest'ultima infine, se per un verso è parte della tradizione culturale e costituisce dunque un vin-colo del contesto, è, per un altro, riformabile e in modo specifico grazie all'affermarsi di argomenti migliori nella discussione pubblica. È su questo che ora, consapevoli del peso della storia, delle strettoie delle circostanze, dei vincoli delle istitu-zioni, secondo quanto abbiamo imparato da Zincone, dovremmo riflettere per ricostruire un patto di cittadinanza che tutti in Italia sentiamo pericolante.

sponsabilità. Di tale tensione rendono inoltre testimonianza tanto lo "scritre" di Canetti — che deve essere to-talmente soggetto al suo tempo, ma deve mettersi contemporaneamente "contro il suo tempo" — quanto l'uo-mo di Bonhoeffer — che "prende po-sizione contro il mondo, nel mondo". Ciò che accomuna autori tra loro tanto diversi, così come altri protago-nisti del libro, quali Barth, Blanchot, Bataille, Derrida, Lyotard, è la convin-zione che l'agire umano non possa pretendere di realizzare alcun "com-pimento d'opera". In altre parole, in tutti è presente la consapevolezza che l'Idea, la Verità, la Giustizia, il Bene, la Libertà non possono mai del tutto realizzarsi nel concreto svolgimento della storia, non possono farsi veri grazie all'Opera dell'uomo. Non solo, ma proprio in questo "umanesimo del compimento", che pretende di pre-sentificare l'Assoluto, sta in agguato — come la storia del XX secolo ci ha insegnato — il male politico.

Allora il Male, lungi dall'essere, co-me Hegel argoco-mentava contro Kant, l'ostinazione del finito a restare tale, mette le proprie radici ovunque si ri-chiede al singolo di annullarsi in un tutto che ontologicamente lo trascen-• de e lo precede, ovunque si "distrugga

ogni legge, in nome di una legge che sta al disopra di ogni legge". E al male assoluto, riassumibile nel nome di Auschwitz, sono dedicate forse le pa-gine più intense del saggio. Senza to-gliere al lettore il piacere di seguire lo snodarsi dell'argomentazione, che procede rovesciando ogni luogo co-mune sul totalitarismo, basti accenna-re al fatto che l'autoaccenna-re giunge a defini-re il male non come assenza di bene, ma come mimesi del Bene, "mimesi dell'Assoluto", arrivando così a indivi-duare nel male non la semplice sop-pressione della Libertà, ma la contrad-dizione della Libertà con se stessa. Il male radicale, il cui paradigma è Auschwitz, è sì la soppressione dei presupposti della libertà, ma una sop-pressione fatta in nome della realizza-zione "micidiale" di un'Idea, di un Modello, di un Assoluto, in una paro-la in nome d e l l ' i d e a di Libertà Suprema. Eppure, proprio alla libertà — a cui, alla fine della lettura, si è ten-tati di far corrispondere D'Impolitico" — che non può essere nominata senza venir tradita, a questa sorta di "afasia" insuperabile, bisogna prestare un "interminabile ascolto", cosi sembra suggerire Esposito, per non finire nell'idolatria di ciò che è.

dei principali concetti politici, al fine di far emergere le antinomie su cui es-si riposano. Come il lettore avrà modo di osservare, molto spesso l'autore procede esponendo dapprima un'op-posizione concettuale, per poi smon-tarla pezzo per pezzo, sino a mostrare tutte le complicazioni possibili tra i

MOSORROFA 0 DELL'OTTIMISMO

Melologo con canzoni

Musica di Nicola Campogrande, testi di Dario Voltolini

Tiziana Ghiglioni Laura Ponti Ivo De Palma Teresa Nesci Roberta Invernizzi Silvia Piccono Piero Cresto-Dina Daniele Tione Enrico Matta "Orazio" VoxPC' MOSORROFA o dell'ottimismo Mefocoo w . conccn, di itola Cornee-grande e Dario voltolini

roana Gnigiicni. Lauta Par* wo De Palma

Tcujowre Ensemble - tìucrietto ci Asti

Marco Sillettl Gianni Nuti Maria Grazia Reggio Gianpaolo Bovio Francesca Gosio Michele Mo Luigi Picatto Piergiorgio Rosso Silvia Sandrone • Aldo Sardo

Mosorrofa è una cosa senza nome. Non è un'opera, non è un oratorio, non è un LP di canzoni, non è un ciclo di Lieder, non è. D'altronde II famoso "nuovo che avanza" me lo sono sempre immaginato così: lo riconosci quando dovendolo raccontare ti accorgi che non hai uno straccio di parola esatta per nominarlo.

Mi immagino l'imbarazzo nei nègozì di dischi. Dove mettere Mosorrofa'?

O v u n q u e . ' 1 Alessandro Baricco

DDT via Santorre diSantarosa IP. -10131 Torino. Distribuzione Sound & Music. Lucca

sformare il qui e l'ora nel migliore dei mondi possibili, esclude di per sé la possibilità di un superamento. Esso comporta piuttosto un modo radicale di sostare nella contraddizione, inter-rogandola, che ritroviamo in ognuna delle trattazioni che Esposito dedica ai nove termini-chiave.

La prima voce, Politica, che potreb-be essere letta quasi come un'indi-spensabile premessa di ciò che viene detto nel corso del libro, si interroga proprio sulla contraddizione costituti-va della filosofia politica: di essere la disciplina deputata a pensare la politi-ca, ma di dimostrarsi, invece, la sua vera e propria occultatrice. La filoso-fia, infatti, riconduce il politico al pro-prio ordine categoriale, quasi che l'or-dine della polis derivasse direttamente dall'ordine del concetto. Esposito non vuole certo affermare con questo che esiste una continuità interrotta nel percorso che va da Platone a Hegel, sino a Heidegger. Ritiene però impor-tante sottolineare il fatto che, al di sot-to delle discontinuità tra le diverse concezioni politiche e al di sotto delle svolte concettuali, si mantenga inalte-rata una "continuità paradigmatica": l'esclusione, da parte della filosofia che persegue l'ordine, della pluralità, del conflitto, della differenza, costitu-tivi del politico. Così come intende enfatizzare che "la politica, il suo fat-to, la sua anima irriducibilmente

di-NARRATORI G I U N T I

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