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SINESTESIE REALI? Sinestesie personificate o personificazioni sinestetiche

SINESTESIE NEI CANTI DI CASTELVECCHIO

3.2 SINESTESIE REALI? Sinestesie personificate o personificazioni sinestetiche

I casi di dubbia sinestesia persistono pure nella raccolta dei Canti di Castelvecchio. Esse sono della stessa natura di quelle già illustrate nei paragrafi relativi alle precedenti raccolte. Spesso riguardano vocaboli che Pascoli adopera copiosamente, adattandoli di volta in volta al contesto, facendo in modo che la resa possa risultare differente (come il caso di tremulo). Si notano, comunque, alcune figure retoriche ambigue, che sembrano contemplare la metafora, la metonimia o la sineddoche ma paiono includere pure la sinestesia.

Un componimento disseminato di metafore che trasmette una intensa musicalità, L’uccellino del freddo, contiene una figura ambigua che riguarda la sfera uditiva (ma coinvolge anche quella tattile), nella tua voce/ c’è il verno tutt’arido e tecco (vv. 8-9), dove il senso di gelo suggerito dal poeta viene avvertito attraverso la tattilità.

54 Riportano ai cirri di porpora e d’oro (v. 20) de La mia sera. 55 Cfr. G. Pascoli, Myricae; Canti di Castelvecchio, cit., p. 923.

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A seguire, ne Il ciocco, una forzatura linguistica non dissimile da quella presente ne la famiglia del pescatore, avente come protagonista il pensiero e il suo movimento, anche se in questo caso esso serve come termine di paragone: […] stelle; che accese in un attimo e spente,/ rigano il cielo d’un pensier di luce (canto secondo, vv. 77-78) dove vengono assimilate la velocità della luce e del prodotto della mente. Poco dopo, l’esile strido (canto secondo, v. 123), di natura visiva e uditiva, emesso dall’oltretomba, il quale ha già dei precedenti nei poeti antichi come Virgilio56, ripreso nuovamente alla fine dei Canti di Castelvecchio, in una forma leggermente differente.

Pure nella breve silloge Il ritorno a San Mauro, precisamente all’interno de Il bolide, avente come oggetto le anime ormai defunte, salgono gli esili gridi della torma dei morti contrapposta alla congrega dei vivi. L’ambiguità emerge dal fatto che l’esilità riferita alla sfera uditiva ha significato fortemente metaforico ormai molto radicato nel parlare comune e risulta quasi una figura spenta.

Pascoli riveste di epicità le vicende che contornano la morte del padre in Un ricordo, dove la sorellina Maria è presentata come un novello Astianatte. Pascoli scrive: sapea di latte il suo gran pianto lungo dove alla natura uditiva dei singhiozzi si potrebbe forse associare il senso del gusto. È ovviamente una figura, forse multisensoriale, che precisa l’età infantile della protagonista.

Altre particolarità che interessano questa raccolta sono rappresentate da un tipo di figura retorica, principalmente una metonimia o sineddoche, la quale rientra però in parte anche nel campo della personificazione. Ne sono esempi la garrula cena (v. 28) de La mia sera, poi la querula cuna (v.54) de Il mendico e il nido che geme (v. 39) di In ritardo. A ben guardare le espressioni sfociano tra l’animato e il non animato, o meglio, Pascoli tende, come spesso accade nelle sue poesie, a vivificare ciò che nella realtà è senz’anima.

3.3 CONCLUSIONI

La raccolta più variegata dal punto di vista sinestetico sono i Canti di Castelvecchio, nonostante le figure retoriche aumentino la loro frequenza in un punto ormai inoltrato dell’insieme poetico. Ciò significa che viene coinvolta in larga parte, dal

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momento che il mondo viene percepito da Pascoli attraverso la mediazione dei sensi a lui più congeniali, la figura retorica caratterizzata da vista e udito ma si assiste ad un netto calo della stessa e se ne annoverano molte che coinvolgono altri sensi. Avviene un cambio di direzione rispetto alle raccolte analizzate in precedenza, Poesie varie e Myricae, nelle quali le impressioni pascoliane si concentravano quasi esclusivamente sui due sensi nominati nelle righe precedenti. È l’udito (distaccato dalla vista) che nei Canti aumenta notevolmente le presenze nelle figure retoriche intersensoriali. Nei sintagmi retorici maggiormente significativi, sono anche i sensi del tatto e del gusto a contendersi un buon numero di presenze. L’udito riveste tendenzialmente il ruolo di destinazione, gusto e tatto sono presenti come fonti, tendenza che segue la regola generale illustrata da Stephen Ullmann nelle sue ricerche. La fantasia retorica di Pascoli si sbizzarrisce in quest’ultima raccolta dove sembrano essere argute e non banali le sinestesie presentate, probabilmente pure a causa dei temi trattati, molto simili a quelli presenti in Myricae (non a caso i Canti pascoliani sono considerati un proseguimento della raccolta precedente) ma l’approccio ai quali risulta differente; il tono a volte sembra maggiormente distaccato, vengono introdotti quadretti che esulano dalle memorie famigliari (ad esempio in La servetta di monte, componimento in cui si spande un forte realismo, dove il poeta si mette nei panni di una giovine lontana da casa e immedesimandosi rileva il suo stato d’animo, descrivendo ciò che la circonda come se fosse realmente lei a raccontare quel che accade), le memorie d’infanzia sono presenti ma meno invasive, aumenta la riflessione oltre all’impressione, la quale risulta mediata dal filtro della razionalità e ciò è dimostrato in parte dai temi filosofici che interessano alcune poesie. Prestando attenzione ai sensi impiegati nei testi, essi sembrano riportare a memorie di tipo diverso rispetto a quelle ricordate in Poesie varie e soprattutto in Myricae. Le memorie di Myricae caratterizzate da rimembranze eteree, tanto da sembrare lontane, inafferrabili, irrecuperabili; quelle dei Canti sembrano memorie più materiali, più concrete, come i sensi che le raccontano. Si tratta di sensi ‘palpabili’ come il tatto e il gusto, verificabili in misura maggiore, non troppo vaghi. Come nell’insieme myriceo, anche nei Canti molte figure retoriche sono ispirate ad espressioni precedenti, sia pascoliane sia di altri autori, contemporanei e antecedenti al poeta di San Mauro. Si nota, inoltre, un maggiore

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accentramento di sinestesie in alcune poesie rispetto ad altre: nelle Varie e in Myricae, invece, erano distribuite omogeneamente: quasi nessun testo ne era esente (ovviamente con le rispettive particolarità). Nei Canti di Castelvecchio, invece, le sinestesie si concentrano in maniera elevata in determinati componimenti (come si può rilevare in La mia sera, l’esempio più pregnante) ed è una peculiarità della raccolta. Come altre volte, le sinestesie si affollano nei testi densi di altre figure del discorso come la già nominata personificazione.

APPENDICE CONCLUSIVA

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