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40 Il sistema educativo di Camiroi è inferiore al

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nostro… Alcuni degli edifici scolastici sono grotteschi. Abbiamo espresso meraviglia su un particolare edificio che ci sembrava incredibilmente vistoso e pacchiano. – Che cosa pretendete da bambini di seconda? – ci hanno risposto… - Volete dire che sono i bambini stessi a progettarli?...Una cosa del genere non sarebbe certo permessa sulla Terra.

Robert A. Lafferty

… un alto edificio un po’ tetro e con innumerevoli finestre che sembrava un ospedale per malattie mentali e quindi era probabilmente il liceo.

Stephen King

- Sia creativo… Pensi ad altri modi in cui le regole possono essere aggirate. Aggiunga articoli, comma, eccezioni. Poi collaudi le simulazioni e veda qual è il loro grado di difficoltà. Vogliamo che qui ci sia una progressione calcolata. Vogliamo portare avanti il ragazzo.- Quando ha intenzione di farne un comandante? A otto anni?

Orson Scott Card

Scriveva William Burroughs che “la fantascienza ha la cattiva abitudine di avverarsi”. Una professione di fede decisamente pessimista, o perlomeno disincantata, marcata da

quell’attributo, “la cattiva abitudine”. Un’affermazione, insomma, che fa immaginare che lo scrittore, riflettendo sulla relazione fra la science fiction letta in precedenza e il mondo al tempo in cui

scriveva, abbia rilevato come delle “previsioni” elaborate dai romanzi di fantascienza letti, se ne fossero “avverate” solo le più fosche e sgradevoli.

D’altra parte, se è senz’altro eccessivo affermare che la narrativa di science fiction sia in grado di predire il futuro in senso referenziale, letterale, è pur vero che spesso si è dimostrata in grado di

percepire la direzione tendenziale dei fenomeni sociali in atto, e immaginarne, forzandoli, gli esiti.

Esaltando, così, le percezioni, le paure, le ansie – anche solo i sentimenti di disagio – connesse alla percezione, anche inconsapevole, del mutamento sociale.

E vogliamo immaginare che il vero senso delle parole di Burroughs fosse questo.

Possiamo provare a testare questa affermazione applicandola agli sviluppi – e alle derive – del sistema educativo nella sua parte più istituzionale, quella che sovrintende all’educazione “formale”, a partire dall’impatto dei cosiddetti “nuovi media”, e più in particolare delle tecnologie digitali, prendendo ad oggetto l’Italia. Si tratta di un periodo di circa trent’anni, che quindi parte attorno ai primi anni Ottanta del secolo scorso per arrivare fino a noi.

Adolfo Fattori

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Usando come chiave di lettura proprio alcuni spunti che provengono dalla narrativa di fantascienza. E ricordando che, almeno per quanto riguarda l’ultimo secolo e mezzo, i sistemi educativi dei singoli paesi, e in particolare quelli occidentali, possono essere tranquillamente considerati nella sostanza simili, spesso ispirati l’uno all’altro – e che in particolare per quanto ci riguarda negli ultimi decenni le proposte di riforma a qualsiasi titolo del sistema educativo italiano, nel suo complesso e/o nei suoi singoli segmenti, spesso erano articolate richiamandosi ai sistemi esteri e alle “sperimentazioni” relative.

D’altra parte la logica del digitale1 ha avuto come cifra non solo la capacità di impregnare profondamente il sociale, ma anche quella di stimolare e accompagnare lo sviluppo dei fenomeni connessi alla globalizzazione nel suo stadio attuale. Il che rende eccentriche eventuali obiezioni – che siano ispirate al senso comune o meno – relative alla circostanza che la fantascienza sia un genere fondamentalmente anglosassone che quindi non avrebbe particolari relazioni con vicende specificamente italiane.

Proverò quindi a prendere spunto da alcuni romanzi o racconti di science fiction del passato per ragionare su alcune tendenze dell’oggi, e su come si sono sviluppate.

Nel 1970 Robert A. Lafferty(1970), uno degli scrittori più scanzonati e eccentrici della

fantascienza della cosiddetta “età dell’oro”, pubblicava due racconti brevi, ambientati sul bizzarro pianeta di Camiroi (per certi versi una sorta di pianeta Gong, quello inventato dal musicista pop Daevid Allen negli stessi anni, per intenderci), dove di fatto non esistono istituzioni stabili di nessun genere. Una sorta di utopia hippie, potremmo dire. Una commissione ricercatori – ingessati e presuntuosi – spedita dalla Terra a “esplorare” le usanze del posto si trova a contatto con il modo di vivere degli abitanti del pianeta, rimanendo sempre più interdetta dal loro stile di vita (nel primo racconto, Leggi e usanze dei Camiroi, 1967), fin quando perde completamente l’orientamento nell’imbattersi nel sistema educativo del pianeta (il secondo racconto, Associazione Genitori e

Insegnanti, 1979), per il semplice motivo che su Camiroi un sistema educativo altamente

formalizzato – e autoreferenziale – come quelli cui siamo abituati nelle società occidentali moderne

non esiste.

In pratica, gli abitanti di Camiroi sono riusciti a realizzare una sorta di quadratura del cerchio: hanno sviluppato un sistema in cui l’educazione formale è un leggerissimo, evanescente

contenitore riempito di modalità pratiche e procedure tipiche dell’educazione informale. Agli scolari, alunni, studenti viene dato un compito; sta a loro poi trovare il sistema di svolgerlo senza applicare procedure standardizzate o prescritte in anticipo.

Naturalmente i risultati possono apparire a volte discutibili o bizzarri (come nell’epigrafe a inizio di questo testo), ma c’è sempre tempo di correggere le disfunzionalità (perché alla fine di questo si tratta) più evidenti, seguendo un processo per tentativi ed errori che gli adulti camiroiniani (o camiroinesi) sperano, prevedono, sanno che condurrà ad una soluzione accettabile. Facendo contemporaneamente, i ragazzi, esperienza delle procedure e degli effetti di queste. Insomma, i ragazzini di Camiroi imparano (dovrei dire “impareranno”?) per esperienza e non per sentito dire (Cavicchia Scalamonti & Pecchinenda, 1996). Il punto di catastrofe cruciale dell’educazione in tutte le società complesse.

In realtà probabilmente Lafferty non poteva avere consapevolezza delle riflessioni sociologiche sulla differenza fra i due tipi di conoscenza, effetto dell’estensione delle conoscenze e

contemporaneamente della separazione progressiva dalle fonti di queste, quanto piuttosto, da “abitante” degli anni Sessanta-Settanta del Novecento – quelli dell’«immaginazione al potere» e dell’esplosione delle istanze di libertà delle culture giovanili – sentiva tutto il peso di una

organizzazione della trasmissione dei saperi paludata, rigida, autoritaria, prescrittiva, a volte addirittura confessionale – apertamente negli Stati Uniti, subdolamente in Italia.

Adolfo Fattori

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Siamo all’alba dell’emersione diffusa dell’informatica e del digitale nella società. Le tecnologie elettroniche del calcolo e della gestione delle informazioni sono ancora appannaggio dei militari, dei centri di ricerca delle scienze hard – e della produzione, come anni dopo argomenteranno due ingegneri italiani, Giuseppe Perrella e Raffaele Strino (1980) in un testo particolarmente lucido e incisivo: “L’interdipendenza tra hardware, software e linguaggi di programmazione, i limiti

(insuperabili) dei linguaggi di programmazione rispetto al linguaggio naturale, la funzione

economica, sociale e culturale del mercato del software contribuiscono a tracciare le coordinate di una trasformazione antropologica in atto basata sulla riproduzione di un nuovo soggetto

conoscitivo ed estetico-percettivo.

Si tratta, peraltro, di quella trasformazione legata allo sviluppo della fase elettronica

dell’industrializzazione, che abbiamo già definito come una produzione e riproduzione mediante modelli generativi”.

Siamo, scrivevo, agli albori della penetrazione della logica del digitale nel corpo sociale della società ancora “di massa”, ancora basata sul modello fordista – quello che ha informato di sé l’intera gamma dei comportamenti sociali – ma il fatto che abbia colonizzato l’organizzazione della produzione è la premessa perché diventi il calco non solo dei rapporti di produzione, ma anche, in prospettiva, del modo di conoscere e dare senso al mondo – come peraltro Jean Baudrillard già aveva intuito nel 1976 (2015).

La scuola, ancora in quegli anni, era quella tipicamente fordista, in Italia ibridata con il modello ancora ottocentesco ispirato – e orientato – alla caserma (Cfr. Fattori, 2012a) descritto in testi come il Cuore di Edmondo De Amicis: rapporti gerarchici rigidi, bloccati, testi scolastici – specie per i cicli dell’obbligo – spesso ancora ispirati e infettati dalla tradizione fascista. Una scuola bloccata su di sé, che però era in quegli anni investita in pieno dall’uragano della contestazione e del “Sessantotto”.

Il conflitto ruota attorno alla distanza – sempre più profonda – fra la rigidità prescrittiva e l’autoritarismo dell’organizzazione dello studio (sul modello di quelli dominanti in fabbrica) e le istanze di indipendenza e autonomia – e di scelta dei propri modelli di vita, di gusto – da parte degli utenti della scuola (e dell’università, se è per questo…). E questo in tutto il mondo occidentale.

Dalla tempesta del “Sessantotto” la scuola italiana esce alla fine illesa, anche se acciaccata. Nella sostanza, nei termini dei bersagli che i critici avevano individuato – autoritarismo, ritardo storico, meritocrazia basata sul censo, anacronismo dei contenuti – non cambia nulla, se non qualche innovazione “vivificante” in qualche antologia per la scuola media superiore (tipo

l’inserimento di qualche raccontino di fantascienza, giusto per mostrarsi “moderni”), diventa solo più facile essere promossi, e le ottusità più evidenti vengono messe “in sonno” – ma comunque non abolite dalla normativa. Appare anche una parvenza di “democrazia”, attraverso la creazione di occasioni assembleari rigidamente regolamentate…

Ma la scuola rimane fordista da una parte, legata all’estemporaneità delle pratiche degli insegnanti, estranea spesso a qualsiasi criterio di organizzazione della gestione dei contenuti, delle verifiche sui progressi degli alunni, della valutazione dall’altra. Nonostante la liberalizzazione degli accessi all’università, le divisioni fra i vari indirizzi rimangono quelle di sempre,

sostanzialmente legate al censo, in un mercato del lavoro che nonostante tutto continua a “tirare”, per cui i liceali proseguono negli studi e si preparano alle professioni “liberali” – o a entrare al servizio dello stato – e gli altri vanno a lavorare.

Né c’è bisogno di altro, fin quando, sottotraccia, non si cominciano a sentire da un lato gli effetti della crisi energetica del 1973 (Harvey, 2010), dall’altro i primi effetti della penetrazione della

Adolfo Fattori

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logica del digitale nel complesso del corpo sociale e delle sue istituzioni: si avvicina quella “mutazione antropologica” di cui scrivono Perrella e Strino.

In pratica, delle trasformazioni che erano già avvenute nell’industria con la diffusione dei primi “calcolatori” e delle macchine a controllo numerico, nelle scuole non v’era traccia. Tanto per fare un esempio, ancora gli orari degli istituti industriali (tecnici e professionali) erano appesantiti da ore di “laboratorio” in cui gli alunni si dedicavano a levigare a mano con gli utensili tradizionali (lime ed altro) piccoli blocchi di metallo, mentre per esempio nei tecnici per ragionieri al massimo poteva capitare di trovare delle macchine per la tenuta della contabilità, spesso neanche elettriche.

Se quindi la finalità dichiarata di questi istituti è la formazione al lavoro, già la scuola italiana è in ritardo: qualsiasi punto di vista si abbia sull’organizzazione di fabbrica, delle burocrazie e della produzione nel passaggio dal fordismo al toyotismo, va da sé che i diplomati che la scuole sfornano partono già, largamente, ad handicap.

Il procedere e i risultati dell’educazione formale erano insomma in gran parte legati a processi casuali e intuitivi, non discretizzabili e non numerabili nel loro sviluppo, se non – necessariamente – nello sbocco finale: il voto.

Pure, ma in particolare per i cicli dell’obbligo, esistevano dei tentativi di organizzazione formalizzata dei procedimenti di valutazione, che ruotavano attorno a griglie e tabelle

tassonomiche che provavano a distinguere e classificare – un’intenzione lodevole, ispirata dal desiderio di ridurre discrezionalità, “effetto alone”, casualità, ma in una dimensione che

assomigliava in modo preoccupante a quella delle scienze naturali, quella di Carl Nilsson Linnaeus per intenderci, e che però in qualche misura già applicava una logica attigua a quella della

programmazione digitale: classificare significa distinguere e separare, attraverso l’uso di un sistema di opposizioni, in fondo binarie.

Contemporaneamente, per effetto dell’onda lunga delle agitazioni degli anni precedenti e del diffondersi di una cultura più “progressista” e “democratica”, comincio a diffondersi fra gli

insegnanti il desiderio di praticare strade nuove, più “coinvolgenti” per gli alunni, di far riferimento a metodi come il problem solving, per intenderci, che, a pensarci bene, già avevano in nuce un altro elemento tipico dei paradigmi della programmazione, l’if, then, il “se, allora”.

Se ci si pensa, questi timidi – e inconsapevoli – sfioramenti della sfera del digitale riguardavano comunque le pratiche dei docenti, non toccavano gli alunni: l’esempio dei blocchetti di metallo lavorati a mano dai futuri meccanici o tornitori la dice lunga: l’idea di “fabbrica” che aveva l’apparato della Pubblica istruzione era ancora addirittura prefordista, per certi versi.

Ma è proprio dagli istituti tecnici che parte una – prima timida, poi sempre più convinta – trasformazione nello sguardo verso i processi di formazione che si svolgevano nelle scuole italiane.

All’inizio degli anni Ottanta, con la prima vera messa sul mercato di quelli che poi ci saremmo abituati a chiamare “pc”, i personal computer, avviene una vera, profonda mutazione nella diffusione dell’informatica nelle imprese. Dai reparti produttivi – la gestione

dell’approvvigionamento di scorte, i reparti di trasformazione delle materie in prodotti, la gestione della distribuzione – l’elettronica passa ai luoghi dove si crea la memoria dell’impresa, il suo essere un organismo misurabile nel suo valore economico: i reparti di gestione della contabilità. I luoghi in cui si registrano i valori – il valore dell’impresa nelle sue parti, in termini qualitativi, sì, ma

prima di tutto quantitativi. In termini discreti, numerabili, come solo il denaro può essere, e come il

computer tratta i suoi dati.

In effetti, prima della commercializzazione di massa, quella rivolta al comsumatore finale, il computer si diffuse negli uffici di contabilità, un luogo di elezione, per le sue potenzialità: niente più errori di calcolo, o di interpretazione, e una riduzione decisamente significativa dei tempi di lavoro

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necessari a aggiornare tutti i registri contabili – e quindi una straordinaria riduzione dei costi del lavoro.

Arrivare agli uffici contabili significò per il paradigma digitale arrivare a occupare il cervello e il cuore delle imprese, lì dove si descrive nella lingua che gli è propria la loro identità e la loro memoria: la gestione del flusso della documentazione e dell’informazione aziendale. Quella cui pensava Harold Innis – non a caso, forse, un ingegnere – quando cominciò a riflettere

sull’importanza vitale dei documenti nella vita delle società complesse, delle loro burocrazie. Ed è proprio nello stesso periodo che dalla Direzione Tecnica del ministero2 – quella che si occupa appunto degli istituti tecnici – e in particolare da chi al suo interno ha una cultura tecnico- aziendale3 – parte una proposta di innovazione nel modo di insegnare. La proposta riguarda solo gli istituti tecnici, comunque: evidentemente il monolite della trasmissione delle basi della cultura

vera, quella umanistico-scientifica, quella che forma le élite – i licei, insomma – non aveva bisogno

di modificarsi, di “innovarsi”: il greco, il latino, l’arte classica certo non cambiano, né cambiano la fisica newtoniana, la chimica, l’astronomia… “Kuhn? Chi era costui?”4 probabilmente si sarebbero chiesti i custodi ministeriali del sapere, se gli fosse capitato di sentirne il nome…

In ogni caso, lanciando la parola d’ordine “dal programma alla programmazione” questo gruppo di operatori dell’istruzione provò ad attuare una piccola rivoluzione copernicana, sostenendo che il “programma” scolastico come elenco ordinato di nuclei di contenuto non implicava nessuna attenzione all’alunno, era “docentecentrico” per così dire, perché chiedeva solo di essere “svolto” in successione, senza che si dovesse badare alla reale quantità, ritmo, qualità dell’apprendimento da parte degli alunni, e apparteneva quindi ad una logica superata e disfunzionale, autoritaria e prescrittiva. Passare – convertirsi, se si vuole – alla “programmazione” significava dividere i contenuti dell’insegnamento delle varie discipline in nuclei omogenei (le “Unità didattiche”), per quanto possibile autoconclusivi, organizzabili secondo una scansione diversa da quella dei vecchi elenchi ministeriali – che spesso finiva per essere identificata con l’indice del libro di testo – per i quali il processo di insegnamento/apprendimento doveva essere organizzato secondo modalità nuove – che avevano come calco i procedimenti tipici della programmazione informatica: il modello era il “diagramma di flusso” o “diagramma a blocchi”.

L’insegnante era invitato intanto a dichiarare – scandendoli con precisione – quali sarebbero stati i contenuti, gli obiettivi didattici che avrebbe perseguito, i tempi necessari, il metodo, gli strumenti che avrebbe messo in opera per ogni singola unità didattica. Ed era tenuto a verificare periodicamente se gli obiettivi che si era prefisso erano stati raggiunti o no, per tornare indietro e replicare il processo se non fosse andato a buon fine (il “se-allora” dei diagrammi a blocchi). Insomma, si immaginavano pratiche per quanto era possibile centrate sugli alunni, piuttosto che sui tempi standard della scuola, imposti dalla logica del programma. A questa cornice si

aggiungeva naturalmente – necessariamente – l’incoraggiamento a usare tassonomie via via più articolate per misurare e valutare il processo di apprendimento, i progressi degli alunni, nel suo farsi – e nei suoi esiti.

Come si può percepire, già qui era presente una dimensione che andava verso la

discretizzazione dei processi educativi, in termini di procedure, in un andamento che se da un lato faceva attenzione ai tempi degli alunni, dall’altro introduceva logiche sì, razionalizzanti, ma a rischio di automatizzazione.

È una soglia sottile, quella che viene a definirsi: da un lato, c’è il tentativo di vincolare il processo educativo a una logica che in tendenza dovrebbe ridurre le disparità fra gli alunni e rendere gli insegnanti più consapevoli della loro azione; dall’altro, la strada che si intraprende razionalizzando e organizzando riduce in tendenza l’incommensurabilità di alcuni aspetti della crescita culturale, conoscitiva e personale degli alunni. Discretizzare, misurare, valutare significa

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