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I L SOGGETTO O L ’ ADONATO

Il FENOMENO E IL SOGGETTO

2.4 I L SOGGETTO O L ’ ADONATO

L’affermazione della completa autonomia donativa del fenomeno saturo ha permesso di mostrare la piena legittimità di una concezione della fenomenologia che voglia restituire al fenomeno il centro di gravità del proprio processo manifestativo contro ogni imperialismo del soggetto. Ciò porta con sé, tuttavia, l’esigenza di ridefinire proprio la struttura di questo soggetto, in modo da farne più adeguatamente corrispondere la figura all’incessante movimento fenomenalizzante della donazione. Giacché, se il fenomeno “si dà per mostrarsi, bisogna che esso designi rigorosamente il punto (cieco, accecato o chiaro e illuminato) in cui e al quale esso si dà”213. Non si tratta, perciò, di avviare una sorta di “distruzione” del soggetto, ma di ripensarne accuratamente il ruolo, contestando semplicemente il fatto che esso occupi il centro della fenomenalità “a titolo di ‘io’ (pensante, costituente, risolventesi in sé)” e “come un’origine, un ego in prima persona, in ‘proprietà’ trascendentale”214. La rimodulazione della figura del soggetto ha, dunque, come premessa la critica a quelle forme di egologia fenomenologica che si collocano sulla linea di sviluppo del cogito cartesiano. Una dipendenza, che Marion individua agilmente nella concezione husserliana di un Io trascendentale volto a costituire intenzionalmente il fenomeno e perciò a “regolare la donazione sull’oggettità”215, ma che si può rinvenire anche in Heidegger, sebbene in maniera più sfumata. Se, infatti, da un lato, il

Dasein mira esplicitamente a rompere con quell’ego cogito il cui essere

consiste nel pensare e nel farsi con ciò “semplicemente pensiero”216,

213 ED, pp. 343-344/304. 214 ED, p. 442/393. 215 ED, p. 50/37. 216 RD, p. 142/150.

dall’altro, la riflessività identitaria del soggetto cartesiano viene riprodotta da quella forma di stabilità del sé (Ständigkeit des Selbst) che l’ipseità del

Dasein, assunta a partire dalla cura (Sorge), determina esistenzialmente

attraverso la decisione anticipatrice. “Così sorge il prodigio del 1927: l’estasi della cura, che radicalizza la distruzione del ‘soggetto’ trascendentale (Descartes, Kant e Husserl), in qualche modo continua a mimarlo, ristabilendo un’autarchia del Dasein, al punto che la sua ipseità individuata si stabilizza in auto-posizione”217.

La via perseguita da Marion per rompere con la tradizione del soggettivismo moderno che ha in Heidegger il suo ultimo interprete consiste nell’accentuare la passività del soggetto: è la via attraverso cui

Riduzione e donazione ci consegna l’interloquito e che prosegue in Dato che con l’affermazione dell’adonato (adonné), definitivo avatar di un

soggetto interamente de-figurato dalla donazione218. Di questa via, di tale arco di sviluppo, Dato che traccia anche le tappe intermedie: si tratta, rispettivamente, del testimone (témoin) e dell’attributario (attributaire). “Sotto il titolo di testimone – sottolinea Marion – bisogna intendere una soggettività spogliata dai caratteri che vi attribuiscono un rango trascendentale”219, una soggettività costituita e non più costituente il fenomeno. In relazione ad essa si produce “un’inversione dello sguardo”,

217 ED, p. 359/318.

218 Questa operazione di Marion si è attirata diversi strali da una parte della critica. Ad esempio, Ricard stigmatizza il carattere eccessivamente passivo della nuova figura di soggetto, frutto di “un’interpretazione troppo restrittiva dell’intenzionalità in termini di rappresentazione” e di una concezione “ultra-realista” della coscienza (M.-A. RICARD, La question de la donation chez Jean-Luc

Marion, in “Laval théologique et philosophique”, 57, 2001, pp. 83-94). La Zarader rileva, invece, come

il tentativo di costituire una figura di soggetto “totalmente vuoto, passivo, senza controllo, senza potere, ecc.” sia destinato al fallimento, perché la sua funzione di garantire l’apparire dei fenomeni verrebbe alla fine ristabilita (M. ZARADER, Phenomenality and Transcendence, in J. E. FAULCONER (ed.),

Transcendence in Philosophy and Religion, cit., pp. 106-119).

che pone l’Io “sotto la guardia del paradosso (fenomeno saturo)”, fino a privarlo della sua “anteriorità di polo egoico (Io polare) e a lasciarlo “sorpreso dall’evento più originale che lo distacca da sé”220. In questo senso, l’evento fa sì che “l’Io, salvo a ignorarlo totalmente, rinunci allo statuto di rappresentazione accompagnatrice ed originariamente sintetica, per assumere la semplice funzione di ricettività”221. Proprio l’idea della ricettività è l’elemento chiave su cui si gioca l’approfondimento teorico che conduce alla definizione dell’attributario. Quest’ultimo delinea, infatti, una figura di soggetto “che si esaurisce interamente nella funzione di ricevere”222, perché “non intrattiene più con il fenomeno una relazione di possesso, ma un rapporto di pura assegnazione”223. Con ciò si vuole compiere il passaggio “dall’‘io penso’ della rappresentazione di sé secondo l’intelletto, all’‘io sono affetto’ nell’intuizione”224, giacché è solo attraverso la ricettività originaria, per Marion, che si rivela la manifestazione del dato. Le aporie che caratterizzano l’Io trascendentale vengono così superate ponendo in primo piano il me empirico, ma solo in quanto perfettamente sottomesso alla donazione225.

La primazia della donazione non consiste, tuttavia, solo nel fatto che il soggetto riceve il fenomeno dato, ma che si riceve egli stesso dal darsi che riceve: “così nasce l’adonato […] come ciò che riceve se stesso

220 ED, p. 303/267. 221 ED, p. 352/312. 222 ED, p. 352/312. 223 ED, p. 344/305. 224 ED, p. 351/311.

225 Per quanto riguarda l’Io trascendentale, Marion rileva che tale forma di soggettività non è in grado, da un lato, di compiere alcuna individuazione, perché ricopre solamente la struttura di un’unità universale priva di ogni particolarità, e, dall’altro, di superare il solipsismo di un pensiero costitutivamente marcato dalla propria autoreferenzialità. Non solo, Marion stigmatizza anche lo sdoppiamento fra un Io trascendentale e un “me” empirico indipendente dal ruolo di principio della donazione (cfr. ED, pp. 348-353/308-313).

interamente a partire da ciò che riceve”226. L’adonato non determina e non pone aprioricamente condizioni al darsi del dato, perché ne deriva interamente. Tracciando una sorta di grammatica del soggetto, Marion aggiunge che non si tratta di un Io da intendersi “al caso nominativo (che mira l’oggetto – Husserl), né al genitivo (dell’essere – Heidegger), neanche secondo l’accusativo (accusato da altri – Lévinas), ma secondo il dativo”227, in quanto primariamente donato a se stesso dalla donazione che lo istituisce. Uno “strano” dativo, forse indistinguibile “dall’ablativo, poiché l’io/me rende possibile (come operaio, medio) […] l’apertura di tutte le altre donazioni di dati particolari”228. Difatti, l’adonato è ancora una forma di attributario destinato a ricevere ciò che si dà, ma un attributario che si è formato “come il polo-coscienza” che “lavora l’apertura fenomenologica in cui deve mostrarsi il dato”229. Se, infatti, un “a cui” di un attributario anonimo può ancora bastare per raccogliere il dato, solo il personale “a chi” dell’adonato “(e mai un ‘a cui’ anche cosale) può assumere l’intero ruolo dell’attributario – presentare ciò che si dà in modo che esso si mostri al mondo”230. Con questi termini, Marion ci vuole dire che solo un soggetto che abbia ancora una forma di coscienza di sé può compiere quella trasposizione del fenomeno nella piena visibilità che la ricezione del dato ha come scopo. Giacché:

Ricevere, per l’attributario, significa, dunque, niente meno che compiere la donazione trasformandola in manifestazione, accordando a ciò che si dà di mostrarsi a partire da sé. […] L’attributario, attraverso la ricettività del ‘sentimento’, trasforma la donazione in manifestazione, o più esattamente,

226 ED, p. 369/327. 227 ED, p. 371/329. 228 ED, p. 371/329* 229 ED, p. 364/323. 230 ED, p. 364/323.

permette a ciò che si dà con intuizione di mostrarsi; ricevendo ciò che si dà, l’attributario gli conferisce, di ritorno, di mostrarsi – gli dà forma, la

sua prima forma231.

Nell’atto di trascorrere attraverso il polo-coscienza dell’adonato, la donazione del dato viene trasformata in manifestazione visibile del fenomeno. Ciò è illustrato da Marion attraverso l’immagine del prisma:

L’attributario si propone dunque come un filtro o un prisma che fa sorgere la prima visibilità, precisamente perché non pretende di produrla (come farebbe, se lo si potesse ammettere, uno schema senza sintesi), ma si

applica a sottomettervisi senza interferenza né perturbazione232.

Quale attributario affetto dalla donazione, l’adonato non ne crea la dinamica, ma si limita a riceverne l’impatto, filtrando ciò che in essa si dà per conferirgli una prima forma visibile. Questa funzione di mediazione fenomenologica da parte dell’adonato non deve, tuttavia, essere interpretata come segno di un’attenuazione della sua passività. Al contrario, l’adonato resta totalmente soggetto alla donazione, perché è da essa che si trova originato. È ancora all’idea del prisma che dobbiamo rifarci per comprendere come ciò avvenga:

L’attributario non precede tuttavia ciò che forma secondo il suo prisma – egli risulta, piuttosto, da tutto ciò. Il filtro si dispiega inizialmente come uno schermo. Prima che si dia, il dato non ancora fenomenalizzato non è atteso da nessun filtro. Solo l’impatto di ciò che si dà fa sorgere, con un solo ed unico choc, il lampo da cui esplode la sua prima visibilità e lo schermo stesso in cui esplode. Il pensiero sorge dall’indistinzione pre- fenomenica, come uno schermo trasparente si colora di colpo sotto

231 ED, pp. 364/322-323.

l’impatto di un raggio luminoso fino ad allora rimasto incolore nel

traslucido e che vi esplode improvvisamente233.

Marion non ci presenta l’adonato come uno schermo che precede il dato e pronto ad accoglierlo, perché ciò significherebbe restaurare un soggetto capace di predisporre un a priori inevitabilmente limitante per ciò che si vuole far giungere a manifestazione. Per mantenere il primato della donazione, occorre che la nascita dell’adonato sia contestuale al darsi del dato stesso: in questo senso, anche l’adonato si pone come un dato arrecato (a-donné) dalla donazione. Nell’atto di ricevere il dato, l’adonato conquista il proprio sé e, di rimando, grazie all’apparire di questa stessa ipseità, consente al dato di rendersi manifesto. L’attività di fenomenalizzazione del dato rappresenta un momento di un unico processo che ha un’origine esplicitamente passiva, perché non è determinato dalla coscienza del soggetto, ma proviene dall’avvento della donazione.

L’articolazione fra la ricezione del dato e la sua trasformazione in manifestazione è descritta da Marion come rapporto fra appello (appel), proveniente dal fenomeno e risposta (réponse) dell’adonato. La legittimità di tale descrizione viene sostenuta con riferimento a Heidegger, per la tematica dell’Anspruch des Seins, e a Levinas, per il motivo della contro-intenzionalità del volto di altri, che si esercita al modo di una chiamata, di una convocazione ed esortazione alla responsabilità234. A differenza di questi autori, tuttavia, Marion non mira

233 ED, pp. 365/323-324*.

234

Secondo Levinas, infatti, “la relazione con altri o discorso è non solo la messa in questione della mia libertà, l’appello che viene dall’Altro per richiamarmi alla mia responsabilità, non solo la parola con la quale mi privo del possesso che mi imprigiona, enunciando un mondo oggettivo e comune; ma anche la predica, l’esortazione, la parola profetica” (E. LEVINAS, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. it. a cura di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980, p. 218). Per un approfondimento sul tema rimando

a porre l’appello come caratteristica propria unicamente dell’essere o del volto altrui, ma la estende a tutti i fenomeni, in particolare ai fenomeni saturi. L’iniziativa rivendicativa dell’appello si esplica, infatti, nell’invertire l’intenzionalità in una contro-intenzionalità che il fenomeno saturo esercita nei confronti dell’adonato, determinandolo secondo quattro caratteristiche (convocazione, sorpresa, interlocuzione e fatticità) che sviluppano, senza radicali mutamenti, quelle dell’interloquito, così come venivano presentate in Riduzione e donazione. Rispetto all’opera del 1989, Dato che approfondisce, tuttavia, non solo la forma e l’origine dell’appello, ma anche la modalità di relazione con l’adonato che è destinato a riceverlo. L’esito è la definizione di una struttura differita, in base alla quale l’appello, pur essendo precedente la risposta, attende quest’ultima per poter essere riconosciuto come tale: “la risposta viene dopo (fa eco, ritorna, corrisponde), eppure, per l’Io divenuto un adonato, essa fa intendere il primo suono dell’appello, lo libera dal silenzio originale e lo consegna alla fenomenalità evidente”235. Di questo paradossale “primato nella/della secondarietà”236, l’analisi del quadro di Caravaggio La vocazione di S. Matteo offre un esemplare illustrazione: in esso vediamo, infatti, come l’appello, la vocazione in questo caso, viene mostrata figurativamente, dunque visibilmente, non tanto nella postura del Cristo – il “braccio teso e l’occhio quasi dissimulati che puntano verso sinistra”, dove “un gruppo seduto intorno ad un tavolo si occupa di contare delle monete” – ma “nello sguardo” di Matteo, che “toglie i suoi occhi dal tavolo e si distoglie dalle monete”, assumendo su di sè “lo

alla ricca introduzione di G. FERRETTI., La filosofia di Levinas. Alterità e trascendenza, Rosenberg & Sellier, Torino 1996.

235 ED, p. 397/353*.

sguardo del Cristo che lo mira”237. Uno sguardo ed un gesto che anche gli altri astanti hanno visto, ma che solo Matteo legge come un appello, perché soltanto lui lo sente come rivolto a se stesso. “Solo Matteo si è chiesto ‘È mio? È per me?’ – egli si è subito consacrato come l’‘a chi’ di ciò che si donava e, per questo stesso, intimava un appello”238. Ciò che il quadro indica, per Marion, è che l’appello, ontologicamente primo, si mostra fenomenologicamente sempre come in seconda battuta per l’adonato che vi corrisponde. L’appello, considerato di per sé, resta infatti “sempre non udito ed invisibile, perché non l’attende né l’accoglie nessuna istanza di ricezione”; ad esso si può, dunque, aprire “un campo di manifestazione”239 solo attraverso la risposta di un soggetto che se ne riconosce destinatario e se ne fa responsabilmente carico.

Da ciò segue un altro paradosso: la risposta rende visibile l’appello, ma sempre in ritardo rispetto al suo originario donarsi. Questo ritardo fa emergere “l’eccesso irrimediabile”240 dell’appello su ogni possibile risposta. Eccesso che l’adonato cerca di ridurre, riassorbendolo in sé, ma senza mai esaurirne l’infinita apertura: ecco perché, più che di risposta, singola, finita, presuntivamente esaustiva, Marion parla di responsorio (répons), di una dilazione della risposta. Come indica l’originario significato liturgico del termine, nel responsorio è insita l’idea della ripetizione, dunque dell’esigenza di rispondere, non in un istante, ma continuamente, nell’intero arco del tempo fatto di istanti incessantemente ripetuti. La corresponsione all’appello non si fa per l’adonato in un’unica risposta, ma nella serie di risposte che durano tutto il tempo della vita dell’adonato, tempo mai sufficiente a ricolmare un ritardo infinito, perché

237 ED, p. 392/348. 238 ED, p. 393/349*. 239 ED, p. 396/352. 240 ED, p. 398/354.

originario e già sempre mancato. “Infatti, ogni responsorio conferma un possibile appello, una delle facce possibili dell’appello, senza mai giudicare ciò che l’appello riserva ancora; lo sfinimento della fenomenalità non concerne mai la donazione dell’appello – invisibile per definizione – ma solo la fatica di colui che risponde – limitato nella sua potenza a manifestarsi”241. Fatica che è, innanzitutto, difficoltà, o meglio, impossibilità a eguagliare il ritardo della nascita, tempo iniziale, tempo di un sé che non si è fatto da sé, ma sulla scia di ciò che a lui è stato donato, dei doni che accadono lungo un’intera esistenza e che la coscienza tenta di riassorbire nella dimensione della propria ipseità. Già sempre in ritardo rispetto a ciò che gli si dona e che lo singolarizza, imprimendo nel suo stesso essere i tratti di questo ritardo originario, l’adonato configura così la propria vita come un incessante responsorio ad un appello che lo convoca prima e oltre se stesso.

Questa sorta di dialettica fra appello e risposta, così efficacemente delineata da Marion, rende bene l’idea dello scarto fra l’eccesso invisibile della donazione, specialmente se satura e lo sforzo di una sua ritraduzione nei termini visibili della manifestazione fenomenica. In questo scarto, si colloca e si definisce la costituzione di un soggetto, l’adonato, anch’esso strutturato dall’articolazione fra una passività originaria, determinata dalla preliminare ricezione della donazione del dato e l’attività, conseguente e seconda, di trasformazione manifestativa di questo stesso dato242. L’idea

241 ED, p. 398/354.

242 Si tratta di una concezione della soggettività che è tradizionalmente presente nel panorama della fenomenologia francese e che trova degli evidenti punti di tangenza, ad esempio, con la scelta di Levinas di subordinare l’autonomia della libertà del soggetto ad una responsabilità intesa come “passività più passiva di ogni passività” (E. LEVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, tr. it. di S. Petrosino e M. T. Aiello, Jaca Book, Milano 1991, p. 20) o con il tentativo di Henry di fondare l’esercizio di ogni potere intenzionale dell’Io sull’autodonazione affettiva della Vita, che precede la

di soggetto che ne emerge permette di misurare tutta la distanza rispetto all’egologia metafisica: al ruolo di un Io monolitico e sostanziale, perché costituente e padrone del fenomeno, succede la forma di un adonato dis- articolato dallo scarto fra l’eccesso, mai suscettibile di essere riassorbito, dell’appello e il differimento della risposta.

In questo modo, la nuova strutturazione della figura soggettiva consente a Marion di operare un profondo rovesciamento del trascendentalismo moderno, in generale, e husserliano, in particolare. Da una soggettività arroccata nell’evidenza del cogito e in grado di costituire, in virtù di sue intrinseche capacità, l’ambito di ogni esperienza possibile, si passa ad un io de-figurato e costituito dalla donazione, dunque dal darsi stesso della fenomenalità. In questo senso, la struttura dell’adonato si trova ormai al di là non solo dell’orizzonte di pensiero heideggeriano, ma anche di quello levinassiano, dove pure la relazione paradossale fra ordine e risposta, ai fini della costituzione di una soggettività totalmente destituita in senso etico, aveva trovato ampio spazio243. Non si tratta più, infatti, per Marion, di stabilire l’egemonia tautologica di un Io autocosciente e costituente, ma nemmeno, solamente, di determinare una soggettività costitutivamente aperta all’accoglienza dell’essere o dell’alterità, bensì di arrivare a concepire la figura di un io destituito da ogni possibilità di dominio nei confronti di ciò che a lui si dà e in grado di farsi effettivamente tramite fra la donazione dei fenomeni e la loro piena manifestazione. La de-figurazione della soggettività realizzata da Marion è, quindi, una diretta e coerente conseguenza di quella radicalizzazione

“venuta dell’io a sé” (M. HENRY, Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo, tr. it. di G. Sansonetti, Queriniana, Brescia 1997, p. 165).

243 Si veda, ad esempio, l’analisi del profetismo quale peculiare modo di significazione di un ordine etico che non si manifesta se non nella risposta ad esso rivolto, attraverso il segno della responsabilità per altri (cfr. E. LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., pp. 187-191).

della fenomenologia che egli ha operato ripensando la dinamica della fenomenalità in termini di donazione: così come quest’ultima non concerne una regione fenomenica differente da altre, ma indica quella dinamica processualità che delinea l’apparire di ogni fenomeno in quanto tale, così l’adonato non rappresenta la costituzione di un Io determinato in senso ontologico, gnoseologico, etico, o, in qualsivoglia altra maniera, ma la figura di un soggetto interamente caratterizzato dalla disponibilità ad accogliere ogni fenomeno, quale che esso sia e in qualsiasi modo esso si doni. In questo risiede, allora, propriamente, quella responsabilità che, ad avviso di Marion, scandisce il legame dell’adonato con il darsi della fenomenalità. “La questione pertinente non consiste nel decidere se l’adonato è innanzitutto responsabile verso altri (Lévinas), o piuttosto in debito di sé (Heidegger), ma nel comprendere che questi due modi della responsabilità derivano dalla sua funzione originaria di dover rispondere di fronte al fenomeno in quanto tale, cioè in quanto si dona”244.

244