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Gli spazi riservati all’autonomia individuale: la flessibilità nell’interesse del datore di lavoro

ragionevole4. Tuttavia, tenendo presente che il contratto di lavoro non

è affatto «destinato a realizzare fini di giustizia sostanziale»5ma, piut-

tosto, è finalizzato a «regolare il traffico economico»6 in un sistema

ontologicamente caratterizzato dalla differente forza contrattuale dei due contraenti, pare piuttosto utopistico credere che nel contratto in- dividuale possa trovare spontanea concretizzazione un comune inte- resse senza che siano introdotti strumenti in grado di garantire la ca- pacità del singolo lavoratore di «effettuare una scelta veramente li- bera in ordine alla dimensione quantitativa della sua occupazione»7.

Del resto, fra i principali obiettivi perseguiti dal diritto del lavoro vi è notoriamente proprio quello di procedere all’edificazione di un apparato di norme volte a proteggere il «lavoratore dalla disugua- glianza sociale con l’altro contraente datore di lavoro»8, al fine di

«riequilibrare la sperequazione sociale» mascherata dal «mito della li- bertà di contratto»9: il diritto del lavoro costituisce infatti un confine

alla libertà contrattuale, determinato dal raggiungimento di un «dif- ficile compromesso tra il ricorso al codice civile, per definizione pri- vato, e quindi alla sua disciplina dispositiva della volontà delle parti libere ed eguali, e l’applicazione delle norme cogenti, cioè imperative, pubbliche poiché di protezione di interessi pubblici, prima ancora che di soggetti»10.

L’anima protettiva di «soggetti astrattamente e concretamente de- boli»11 del diritto del lavoro ha radici profonde: benché la nota do-

minante dei primissimi interventi legislativi in materia debba essere rintracciata nell’intento di «razionalizzazione sociale»12, l’aspetto più

genuinamente protettivo del diritto del lavoro – funzionale al riequi- librio di un rapporto di potere diseguale – non ha infatti tardato

4 Sul punto v. P. Ichino 2004, p. 459. 5 B. Veneziani 1995, p. 431.

6 V. Bavaro 2008, p. 49.

7 R. De Luca Tamajo 1987, p. 24.

8Entrambe le citazioni sono tratte da V. Bavaro 2008, p. 49. Sull’inderogabilità come caratteristica coessenziale alla normativa di tutela del lavoratore v. R. De Luca Tamajo 1976, p. 34 ss.

9 Entrambe le citazioni sono tratte da B. Veneziani 1995, p. 438.

10 A. Occhino 2008, p. 183. Cfr. anche G. Cazzetta 2007, p. 145 e R. Voza 2007, p. 18 ss.

11 A. Occhino 2008, p. 184. La stessa Corte di giustizia, in una sentenza ri- guardante proprio la direttiva n. 2003/88, non ha esitato a riconoscere che il lavo- ratore è «la parte debole nel contratto di lavoro»: v. la sentenza 25 novembre 2010, C-429/09, Fuß II, in Racc., 2010, p. 12167, punto 80 della motivazione; nello stesso senso v. già Corte di giustizia 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C- 403/01, Pfeiffer, in Racc., 2004, p. 8835, punto 82 della motivazione.

troppo a manifestarsi. Da strumento per limitare la durata della gior- nata lavorativa delle c.d. mezze forze (bambini e donne) al fine di salvaguardare le condizioni minime di riproduzione della forza-lavoro (v. supra, cap. I, § 1) e da criterio normativo per misurare i termini dello scambio fra lavoro e retribuzione13, la «giuridificazione del tempo

di lavoro» ha infatti pian piano assunto un’ulteriore ed importante funzione, mirando a garantire la «protezione di un soggetto dal po- tere di un altro»14: in un contesto storico «ancorato al dogma del-

l’autonomia contrattuale»15, l’introduzione di norme cogenti con cui

fissare limiti alla durata massima della prestazione di lavoro ha len- tamente assunto lo scopo di moderare «l’impulso del capitale a spre- mere la forza lavoro senza riguardi né misura»16.

Pare dunque stridere con la finalità protettiva – che nel nostro Paese caratterizza la disciplina dell’orario di lavoro fin dal r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692 – la scelta del legislatore dell’Unione europea di autorizzare gli Stati membri ad attribuire all’autonomia individuale la facoltà di disapplicare il limite medio massimo dell’orario di lavoro settimanale (v. infra, § 1.1): affidando uno spazio così ampio all’au- tonomia delle parti senza al contempo predisporre strumenti volti a garantire la «capacità di resistenza»17 del lavoratore nei confronti del

potere organizzativo dell’imprenditore, si rischia infatti di compro- mettere la “vocazione protettiva” del diritto del lavoro.

Tale rischio pare del resto essere ancora più grande se si consi- dera che le possibilità di deroga – collettiva o individuale – introdotte dal legislatore europeo sono volte per lo più ad assicurare «una certa flessibilità nell’applicazione di determinate disposizioni» al fine di ren- dere più agevole «l’organizzazione dell’orario di lavoro nell’impresa»18:

come si vedrà meglio in seguito, la flessibilità temporale continua in- fatti ad essere indirizzata prevalentemente in funzione del raggiungi- mento di obiettivi produttivi, mentre la soddisfazione di interessi ed esigenze del lavoratore permane sullo sfondo. Sia nella direttiva eu-

13 Come rileva V. Bavaro 2008, p. 55, l’orario è infatti «la tecnica posta dalla legge (perciò normativa) per la misurazione del(l’oggetto del contratto di) lavoro se- condo un criterio generale, universale e astratto». L’autore, utilizzando un’efficace metafora, sottolinea che l’orario «misura normativamente il lavoro allo stesso modo di come il peso misura le merci materiali; l’“ora” – con i suoi multipli e sottomul- tipli – è l’unità di misura dell’orario di lavoro subordinato, come il “grammo” – con multipli e sottomultipli – è l’unità di misura del peso dei materiali».

14Entrambe le citazioni sono tratte da V. Bavaro 2008, p. 50. 15R. De Luca Tamajo 2003, p. 547.

16K. Marx 2009 (ma 1867), p. 345. 17M. Peruzzi 2009, p. 266.

ropea che nel d.lgs. n. 66/2003 è infatti del tutto assente il ricono- scimento di specifici diritti potestativi in capo ai lavoratori, per mezzo dei quali garantire a costoro la possibilità di organizzare il proprio tempo in base alle esigenze ed alle aspirazioni personali, sociali e re- lazionali.

In attesa (e nella speranza) che l’accidentato percorso di revisione della direttiva attualmente in corso (v. supra, cap. I, § 2.1) porti al- l’adozione di una testo normativo capace non soltanto di garantire alle imprese la possibilità «di rispondere in modo maggiormente fles- sibile ai cambiamenti delle circostanze esterne», ma in grado anche di «migliorare l’equilibrio tra vita lavorativa e vita familiare, dando ai lavoratori il tempo necessario per far fronte alle loro responsabilità familiari e consentendo loro di influire sulla distribuzione del loro orario di lavoro»19, non si può dunque non rilevare che l’apertura di

credito all’autonomia individuale rischia oggi di tradursi nell’imposi- zione della volontà del contraente più forte: il lavoratore continua dunque ad essere «giuridicamente libero ma socialmente condizio- nato»20.

1.1. La clausola di opting out: lo squarcio aperto dalla direttiva co-

munitaria n. 2003/88

È chiaro che la ragione per la quale la direttiva riconosce alle parti individuali del rapporto di lavoro la possibilità di disapplicare il già flessibile limite medio massimo dell’orario settimanale non è certo ravvisabile nella forte fiducia nutrita dalle autorità europee nei con- fronti della contrattazione individuale; l’introduzione di tale eccezione nel testo normativo europeo è piuttosto frutto della necessità di con- temperare le notevoli differenze fra le regolamentazioni nazionali di partenza, nonché dell’estremo (ed infruttuoso) tentativo di arginare l’opposizione britannica all’approvazione della direttiva. Nelle inten- zioni originarie, questa discussa clausola di opting out costituiva in- fatti nient’altro che una disposizione transitoria, che avrebbe dovuto cessare di esistere non appena l’armonizzazione fra le differenti legi- slazioni nazionali fosse stata completata21 (v. supra, cap. I, § 2.1).

19 Così come auspicato dalla Commissione: v. il § 4 della Comunicazione della

Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, COM (2010) 106 def., 24 marzo 2010.

20 B. Veneziani 1995, p. 444.

21L’art. 22, ultimo capoverso del par. 1, direttiva n. 2003/88 stabilisce infatti che tale clausola avrebbe dovuto essere riesaminata entro il 23 novembre 2003 al fine di «decidere del seguito da darvi»; nello stesso senso v. già l’art. 18, secondo capoverso del par. 1, direttiva n. 93/104, secondo cui entro sette anni il Consiglio, sulla base

Com’è noto, tuttavia, la storia è andata molto diversamente. A quasi vent’anni di distanza dalla sua introduzione, l’art. 22 della di- rettiva – che, sia pure «nel rispetto dei principi generali della prote- zione della sicurezza e della salute dei lavoratori», attribuisce agli Stati membri la facoltà di non applicare la norma che fissa la durata mas- sima settimanale del lavoro a condizione che, «mediante le necessa- rie misure», i legislatori interni assicurino che nessun datore di la- voro chieda ai propri dipendenti di lavorare più di quarantotto ore nell’arco di sette giorni, «a meno che non abbia ottenuto il consenso del lavoratore» – continua a rimanere al suo posto. Tale disposizione si è infatti rivelata un’agevole scappatoia, per mezzo della quale un numero sempre più elevato di legislatori nazionali ha cercato di ag- girare i limiti all’orario di lavoro posti dalla direttiva europea e di- venuti più stringenti grazie alla rigorosa attività ermeneutica svolta dalla Corte di giustizia, che ha considerato ricompresi nella nozione di “orario di lavoro” anche i periodi di guardia caratterizzati dalla presenza fisica del dipendente sul luogo di lavoro22. Come rilevato

dalla Commissione europea, l’adeguamento delle normative interne alla giurisprudenza della Corte avrebbe in effetti potuto produrre con- seguenze rilevanti dal punto di vista economico23: nel settore sanita-

rio, in particolar modo, la necessità di «rispettare la durata massima settimanale del lavoro di 48 ore, compresi tutti i periodi di guardia, [avrebbe comportato] per la maggior parte degli Stati membri l’as-

di una proposta della Commissione, avrebbe dovuto riesaminare la clausola di op- ting out.

22Corte di giustizia 9 settembre 2003, causa C-151/02, Jaeger, in Racc., 2003, p. 8389. In senso analogo v. anche Corte di giustizia 3 ottobre 2000, causa C-303/98, Simap, in Racc., 2000, p. 7963; 1° dicembre 2005, C-14/04, Dellas e altri, in Racc. 2005, p. 253; cfr. anche le ordinanze della Corte di giustizia 11 gennaio 2007, C- 437/05, Vorel, in Racc. 2007, p. 331; 4 marzo 2011, C-258/10, Grigore, non ancora pubblicata in Racc. Con tali pronunce la Corte ha chiarito che la direttiva «non pre- vede categorie intermedie tra i periodi di lavoro e di riposo, e che […] tra gli ele- menti caratteristici della nozione di “orario di lavoro” […] non figura l’intensità del lavoro svolto o il rendimento di quest’ultimo» (così nei punti 43 della motivazione di Dellas, 25 di Vorel e 43 di Grigore). La Corte ha inoltre precisato che, salvo per quanto riguarda l’istituto delle ferie annuali, la direttiva non si occupa di questioni retributive: i periodi di servizi di guardia possono dunque essere remunerati secondo criteri particolari purché il regime retributivo applicato «garantisca integralmente l’ef- fetto utile dei diritti conferiti ai lavoratori» dalla direttiva (punto 35 della motiva- zione di Vorel). Sulla giurisprudenza della Corte di giustizia v. G. Ricci 2009, p. 162 ss.; per ulteriori riferimenti dottrinali v. supra, cap. I, § 2.1, ove già si è fatto cenno alla questione.

23 Sul punto v. P. Pelissero 2005, p. 396, che sottolinea che l’estensione della nozione di orario di lavoro non è stata «del tutto indolore».

sunzione di un numero aggiuntivo di medici per garantire lo stesso livello di qualità dei servizi»24, con un evidente aggravio delle spese.

Dinnanzi alla prospettiva di un innalzamento dei costi, la clau- sola che permette di disapplicare del tutto il limite medio massimo dell’orario di lavoro settimanale non ha tardato ad essere conside- rata da molti Paesi come una sorta di antidoto con cui rendere inoffensiva la giurisprudenza della Corte: molti Stati membri, ob- bligati ad includere nell’orario di lavoro anche i periodi di guar- dia, hanno autorizzato la sottoscrizione di patti individuali con cui disapplicare il limite medio massimo di quarantotto ore di lavoro a settimana. Oltre che nel Regno Unito25, la sottoscrizione di un

patto individuale volto al superamento del tetto massimo fissato dalla direttiva è stata successivamente ammessa anche in Estonia26,

a Cipro, a Malta e in Bulgaria27. Il numero di Paesi che hanno per-

messo il ricorso alla clausola di opting out è tuttavia molto più nu- meroso se si considerano anche gli Stati membri che hanno scelto di autorizzare l’operatività dell’eccezione su base volontaria limi- tatamente ai soli settori che comportano il ricorso massiccio al ser- vizio di guardia. In particolare, la possibilità di superare il limite massimo dell’orario di lavoro settimanale mediante la sottoscrizione di un accordo individuale è stata ammessa nel settore sanitario in Belgio, Francia28, Lettonia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia,

24Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Co-

mitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni e alle parti sociali a livello comunitario, COM (2003), 843 def., 30 dicembre 2003.

25 Sull’utilizzo dell’opting out in Gran Bretagna v. supra, cap. I, § 2.2. 26La clausola di opting-out è stata recepita in Estonia a partire dal suo ingresso nell’Unione europea. Nel 2009 il legislatore Estone è nuovamente intervenuto in ma- teria, stabilendo che per coloro che abbiano sottoscritto la clausola di opting out l’o- rario di lavoro non possa eccedere le cinquantadue ore settimanali, calcolate come media in un periodo di quattro mesi.

27 La normativa in materia di orario di lavoro è entrata in vigore nel 2006, un anno prima dell’ingresso del Paese nell’Unione europea. Misure a protezione del la- voratore che accetti l’opting out sono previste dall’art. 113 del Codice del Lavoro.

28Ove il 6 febbraio 2002 sono stati emanati cinque decreti (nn. 1421, 1422, 1423, 1424 e 1425) che hanno modificato le normative relative alle diverse figure di per- sonale medico, prevedendo la possibilità per questi lavoratori di prestare ore di la- voro aggiuntive (temps de travail additionnel) che danno luogo ad un indennizzo o ad un riposo compensativo. Tuttavia, come sottolineato dalla Commissione, poiché la necessità di innalzare l’orario di lavoro «è dovuta alla carenza di personale ed alla necessità di mantenere la continuità del servizio, non sempre lo svolgimento di ora- rio di lavoro addizionale rappresenta una libera scelta per i medici»: European Com- mission, Study to support an Impact Assessment on further action at European level regarding Directive 2003/88/EC and the evolution of working time organisation, fi- nal report, 21 dicembre 2010, p. 103.

Slovenia, Spagna29, Ungheria; oltre che ai dipendenti del settore sa-

nitario, il superamento dell’orario di lavoro settimanale mediante la sottoscrizione di un accordo individuale può inoltre essere richiesto ai vigili del fuoco sia nei Paesi Bassi che in Germania30, Paese – que-

st’ultimo – nel quale l’eccezione su base individuale può essere uti- lizzata anche dalle forze di polizia e dai funzionari federali31.

La clausola di opting out non è invece stata recepita nell’ordina- mento italiano32: da tale scelta non possono tuttavia trarsi conclusioni

affrettate. Pur non avendo seguito l’esempio di altri Paesi europei, anche il legislatore italiano ha infatti cercato di evitare l’innalzamento dei costi nel settore sanitario derivante dall’estensione della nozione di orario di lavoro anche ai periodi di guardia. Proprio a tale logica sono infatti ispirate due disposizioni di dubbia legittimità comunita- ria, emanate a pochi mesi di distanza l’una dall’altra: all’esclusione dell’applicazione delle disposizioni in materia di riposo giornaliero nei confronti del personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale (introdotta nell’art. 17, comma 6 bis del d.lgs. n. 66/2003 dall’art. 3, comma 85, l. 24 dicembre 2007, n. 244) il legislatore ha dopo poco tempo aggiunto un’ulteriore e rilevante eccezione, stabi- lendo che gli artt. 4 e 7 del d.lgs. n. 66 in materia di durata massima 29Con la ley 16 febbraio 2003, n. 55, è stato infatti introdotto un regime spe- ciale di durata dell’orario (jornada especial), che permette il superamento del limite massimo di quarantotto ore settimanali di lavoro in presenza di giustificate ragioni organizzative.

30In Germania la clausola di opting out ha trovato ampia applicazione soprat- tutto nel settore sanitario: secondo le statistiche presentate dalla Commissione, la sottoscrizione di tale patto è infatti richiesta nel 90% degli ospedali. Sull’utilizzo della clausola di opting out nel servizio tecnico antincendi v. Corte di giustizia 14 ottobre 2010, C-243/09, Fuß I, in Racc., 2010, p. 9849: in questa sentenza, tuttavia, la Corte si è occupata di tale contestata clausola solo indirettamente, poiché all’e- poca dei fatti di causa l’art. 22 della direttiva non era ancora stato recepito nell’or- dinamento in questione. Su tale pronuncia v. J. Tomkin 2012, p. 1423 ss. Per ulte- riori riferimenti alla normativa tedesca v. supra, cap. I, § 2.2.

31Gran parte dei dati qui riprodotti sono tratti da European Commission, DG for Employment, Social Affairs and Equal Opportunities, Study to support an Im- pact Assessment on further action at European level regarding Directive 2003/88/EC and the evolution of working time organisation, cit., in particolare p. 15 ss. e p. 97 ss., a cui si rinvia per ulteriori riferimenti. Di grande interesse è anche la Relazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e so- ciale e al Comitato delle regioni sull’applicazione da parte degli Stati membri della direttiva n. 2003/88/CE, COM (2010) 802 def., 21 dicembre 2010, par. 3.7.

32Sebbene la Commissione Lavoro alla Camera avesse suggerito al Governo (con parere del 16 giugno 2004) di inserire nello schema di decreto legislativo recante mo- difiche al d.lgs. n. 66/2003 «una disciplina derogatoria al limite massimo delle qua- rantotto ore settimanali per i lavoratori impegnati in attività di guardia o sorveglianza o portierato», tale indicazione non è stata accolta dal d.lgs. n. 213/2004.

dell’orario di lavoro e di riposo giornaliero non si applichino nei con- fronti del personale delle aree dirigenziali degli Enti e delle Aziende del Servizio Sanitario Nazionale (art. 41, comma 13, del d.l. 25 giu- gno 2008, n. 112, convertito in l. 6 agosto 2008, n. 133); unico tem- peramento operato da tale norma è la devoluzione alla contrattazione collettiva del compito di definire le «modalità atte a garantire ai di- rigenti condizioni di lavoro che consentano una protezione appro- priata ed il pieno recupero delle energie psico-fisiche». Fin dalla loro entrata in vigore tali disposizioni hanno destato non poche perples- sità in ordine alla loro conformità alla direttiva europea33, che sem-

brerebbero ora destinate a trovare conferma: il 26 aprile 2012, la Com- missione europea34 – non considerando lecita l’esclusione del perso-

nale medico pubblico dal campo di applicazione della direttiva – ha infatti messo in mora l’Italia, invitando il nostro Paese a modificare la normativa in questione entro l’ormai scaduto termine del 29 giu- gno 2012.

Al di là della peculiare vicenda italiana, è comunque chiaro che la clausola di opting out, pur essendo disegnata su misura delle esigenze del legislatore britannico, non ha avuto difficoltà nell’adattarsi alle istanze dei datori di lavoro operanti in altri Paesi; la sua diffusione a macchia d’olio non può tuttavia che acuire le perplessità che hanno accompagnato, fin da subito, il riconoscimento della possibilità di de- rogare la durata massima dell’orario di lavoro su base volontaria. Preoccupa, innanzitutto, la vacuità delle condizioni e delle cautele po- ste a protezione dei lavoratori a cui sia richiesta la sottoscrizione di tale discusso accordo: il legislatore europeo, infatti, non soltanto si è limitato a prevedere vincoli di carattere per lo più procedurale35, che

si rivelano spesso incapaci di garantire la tutela e la salute dei lavo- ratori coinvolti36; ma non ha neppure affiancato all’eccezione su base

33 Sul punto si v. l’analisi di V. Leccese, A. Allamprese 2009, p. 366 ss. 34 V. la lettera n. 2011/4185 del 26 aprile 2012.

35L’art. 22 della direttiva si limita infatti ad imporre allo Stato membro che au- torizzi il ricorso alla clausola di opting out il rispetto di poche regole: i legislatori nazionali devono introdurre misure capaci di garantire che nessun lavoratore possa subire un danno per il rifiuto di sottoscrivere l’accordo; che il datore di lavoro tenga registri aggiornati di tutti i lavoratori che accettino il superamento del limite setti- manale all’orario di lavoro; che tali registri siano messi a disposizione delle autorità competenti, alle quali spetta il potere di vietare o limitare, per ragioni di sicurezza e/o di salute dei lavoratori, la possibilità di superare la durata massima settimanale del lavoro; che il datore di lavoro, su richiesta delle autorità competenti, fornisca informazioni sui consensi dati dai lavoratori all’esecuzione di lavoro in misura ec- cedente le quarantotto ore settimanali.

36La stessa Commissione ha infatti dichiarato che «le attuali disposizioni conte- nute nell’articolo 22, paragrafo 1, sono rimaste essenzialmente inefficaci»: v. par. 5.2,

volontaria la norma di chiusura che accompagna molte delle possibi- lità di deroga previste dalla direttiva, garantendo ai lavoratori coin- volti il diritto ad «una protezione appropriata»37. Né un’effettiva tu-

tela per i dipendenti è prevista dai legislatori nazionali: gran parte de- gli Stati membri – oltre a non fissare alcun limite all’orario di lavoro settimanale valido per coloro che abbiano sottoscritto il patto previ- sto dall’art. 22 della direttiva38– non prevedono infatti espressamente

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