SPAZIO DI LIBERTÀ, SICUREZZA E GIUSTIZIA E TUTELA
MULTILEVEL DEI DIRITTI FONDAMENTALI Guido Raimondi*
Le indubbie difficoltà che accompagnano la cooperazione in ma-teria di giustizia e affari interni nell’ambito dell’Unione europea e le innegabili criticità, come la mancata adozione di un Programma d’azione successivo a quello di Stoccolma (2009-2014), non fanno velo nel riconoscere l’importanza del mutamento di prospettiva che il Trattato di Lisbona ha determinato, collocando la realizzazione di uno «spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne» in testa agli obiettivi dell’integrazione europea (art. 3, par. 2, TUE).
In effetti, l’art. 3, par. 2, TUE, che mira a definire gli obiettivi principali dell’UE, colloca lo SLSG in una posizione anche più emi-nente rispetto a quella assicurata dal precedente Trattato di Nizza, perché ora questo obiettivo viene evocato ancor prima di quello della creazione di un mercato interno. Parlare di una dimensione “quasi costituzionale” non mi sembra dunque esagerato.
Come abbiamo avuto modo di osservare in un’altra occasione, trattandosi di garantire «la libera circolazione delle persone, insieme a misure appropriate in materia di controllo delle frontiere esterne, d’asilo, d’immigrazione, oltre alla prevenzione della criminalità e la lotta contro questo fenomeno» con l’affacciarsi di forme di “coope-razione amministrativa”, non siamo già alla messa in comune di fun-zioni sovrane essenziali?
Le potenzialità dello SLSG sono dunque immense, in una pro-spettiva di progressivo sviluppo dell’integrazione europea.
Non c’è dubbio che la dimensione dei diritti individuali abbia in questo contesto una importanza fondamentale. Si sarebbe potuto pensare, in un primo momento, che i due piani non fossero destinati per così dire a vivere in armonia, ma oggi nessuno dubita che la di-mensione della tutela dei diritti fondamentali sia un elemento essen-ziale dello SLSG, anzi la condizione del successo di questa iniziativa.
* Già Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo – Presidente di sezione della Corte di Cassazione.
I diritti fondamentali assumono perciò una posizione centrale nel quadro dello SLSG. E oggi, quando si parla di tutela dei diritti, non si può prescindere da un approccio “multilivello”, o multilevel. Cosa vuol dire multilevel? Vuol dire che molti sono i protagonisti della tutela dei diritti fondamentali su questo terreno.
In parole povere vuol dire che ci sono più attori, tra i quali non è possibile stabilire gerarchie, se non ponendosi in prospettive partico-lari, proprie di singoli sistemi, ciascuno operante in contesti facenti capo a testi normativi di riferimento diversi tra loro, ed il cui coor-dinamento non sempre è assicurato dalle disposizioni dei differenti strumenti che vengono in rilievo.
In effetti nella protezione dei diritti umani intervengono giudici nazionali di tutti i gradi, nella maggior parte dei Paesi membri anche di livello costituzionale, giudici internazionali come la Corte europea dei diritti dell’uomo e giudici sovranazionali come la Corte di giusti-zia dell’Unione europea.
C’è quindi la necessità di un coordinamento tra le posizioni di tutti questi giudici, per evitare che un eccessivo divario tra le soluzio-ni offerte dai vari protagosoluzio-nisti si risolva in danno di una efficace ed armonica protezione dei diritti individuali.
Se l’obiettivo di una piena uniformità delle giurisprudenze dei diversi attori giurisdizionali resta evidentemente molto difficile da raggiungere, i segnali che si sono potuti raccogliere negli ultimi anni danno l’impressione che ci sia uno sforzo sincero da parte di tutti i protagonisti teso verso la ricerca di soluzioni quanto più possibile armoniche e tra loro compatibili.
In effetti negli ultimi tempi si sono moltiplicate le occasioni di dialogo tra giudici.
È vero che recenti episodi sono stati interpretati piuttosto come occasioni di scontro tra giudici che come opportunità di dialogo. Penso, per esempio, alle cosiddette “saghe” nei casi Taricco e Varvara
- G.I.E.M., che hanno, secondo alcuni, visto la nostra Corte
Costitu-zionale incrociare il ferro rispettivamente con la Corte di Lussembur-go e con quella di StrasburLussembur-go, risultando infine vincitrice sul campo. Crediamo che queste vicende non siano apparentabili a scontri tra duellanti o a incontri pugilistici, ma siano piuttosto riconducibili a manifestazioni di una genuina ricerca di soluzioni volte al
soddi-sfacimento di necessità diverse derivanti da sistemi giuridici che en-trano in contatto tra loro e che quindi devono “parlarsi”, ma restano autonomi e devono, ciascuno per la sua parte, obbedire ai principi fondamentali loro propri.
In questa dimensione, è centrale il rapporto tra la Corte di Stra-sburgo e quella di Lussemburgo.
Conosciamo tutti la vicenda dell’adesione, o della mancata adesione, dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, de-cisa in linea di principio dal Trattato di Lisbona sull’Unione europea, ma non (ancora) realizzata, e sulla cui strada si è posto come un macigno il celebre parere 2/13 della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Non sappiamo cosa ci porterà il futuro. C’è uno sviluppo posi-tivo recente. Il 7 ottobre 2019, il Consiglio Giustizia e Affari interni dell’Unione ha adottato nuove direttive per la Commissione, alla luce del parere 2/13 della Corte di giustizia dell’Unione, in vista della ria-pertura dei negoziati con il Consiglio d’Europa per l’adesione dell’U-nione alla Convenzione europea.
Sarebbe azzardato formulare previsioni. Indipendentemente dal-la prospettiva dell’adesione, il dialogo tra dal-la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di giustizia dell’Unione è però solido e, a nostro sommesso avviso, anche leale e sincero. Le due corti si incontrano regolarmente.
Questo dialogo è emerso, si potrebbe dire plasticamente, proprio sui temi dello SLSG, in particolare su di un suo aspetto fondamenta-lissimo, e cioè sul reciproco riconoscimento delle decisioni e quindi sul principio, davvero vitale per lo Spazio, della mutua fiducia.
Certamente le due corti erano guardinghe nell’accostarsi a questo tema, ciascuna con buone ragioni dal suo punto di vista, ed è inne-gabile che si nutrisse dalle due parti una certa dose di diffidenza. Da Lussemburgo si temeva che l’attivismo della Corte di Strasburgo potesse rallentare i ben oliati meccanismi della cooperazione soprat-tutto giudiziaria, mentre da Strasburgo si poteva pensare che la solle-citudine verso il buon funzionamento di questi meccanismi inducesse la Corte di giustizia a lasciare sullo sfondo le preoccupazioni legate alla tutela dei diritti fondamentali.
Poi però si è trovato un terreno di intesa. Penso alle decisioni, di Lussemburgo e di Strasburgo, che si sono succedute a distanza di un
mese nel 2016, le sentenze Aranyosi e Căldăraru della Corte di giu-stizia e la sentenza Avotiņš c. Lettonia della Corte europea dei diritti dell’uomo1.
Le sentenze Aranyosi e Căldăraru sono state poi seguite da C.K. c.
Slovacchia2, una decisione dello stesso segno, laddove la Corte di
Lus-semburgo ha, certamente, riaffermato l’importanza fondamentale del reciproco riconoscimento e quindi del principio della mutua fiducia come architrave del sistema, ma ha anche detto che non bisogna mai dimenticare la dimensione dei diritti fondamentali, per cui il buon funzionamento dei meccanismi di cooperazione non potrà mai avve-nire a prezzo della violazione dei diritti fondamentali.
D’altra parte, un mese dopo, la Corte di Strasburgo ha risposto ad
Aranyosi e Căldăraru con la sentenza Avotiņš, che ha a chiare lettere
riconosciuto il valore in sé del principio della mutua fiducia, senza ovviamente perdere di vista la dimensione dei diritti fondamentali. Le due corti, quindi, si sono trovate sulla stessa lunghezza d’onda.
Il dialogo quindi esiste e continua, su tanti versanti. Come testi-monia, inter alia, la recente sentenza Dorobantu della Corte di Lus-semburgo, del 15 ottobre 20193. Con questa decisione la Corte di giustizia fa un passo ulteriore verso quella di Strasburgo, fondandosi sulla giurisprudenza forgiata da quest’ultima con la sentenza Muršic c. Croazia4 in materia di sovraffollamento carcerario: una giurispru-denza che ha superato il criterio dell’automatismo del riconoscimen-to di una violazione dell’art. 3 della Convenzione europea (che come sappiamo corrisponde all’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione) tutte le volte che ci si trovi in presenza di uno spazio “vitale” concesso al detenuto inferiore ai tre metri quadri, criterio che era stato seguito in precedenza, per esempio, nella celebre sentenza
1 Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 5 aprile 2016, Pál Aranyosi e
Robert Căldăraru, cause riunite C-404/15 e C-659/15 PPU, ECLI:EU:C:2016:198;
Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza del 23 maggio 2016, ricorso n. 17502/2007, Avotiņš c. Lettonia.
2 Corte di giustizia, sentenza del 16 febbraio 2017, C.K. c. Slovenia, causa C-578/16 PPU, ECLI:EU:C:2017:127.
3 Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 15 ottobre 2019,
Dumitru-Tu-dor Dorobantu, causa C-128/18, ECLI:EU:C:2019:857.
4 Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 12 marzo 2015, ricorso n. 7334/13, Muršic c. Croazia.
Torreggiani c. Italia5. Si trattava, evidentemente, di un’applicazione in tema di mandato di arresto europeo.
L’invito rivolto dalla Corte di Strasburgo a quella di Lussemburgo con la sentenza Avotiņš, senza troppi infingimenti, di non “dimenticare” l’art. 52, co. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cioè la norma “passerella” tra i due sistemi, è stato a nostro sommesso avviso raccolto dalla Corte di giustizia, che nel seguirla si preoccupa di assicurarne il rispetto, e quindi di fare in modo che il livello di protezione dei diritti previsti da entrambi gli strumenti riceva nell’ambito del diritto dell’Unione una protezione non meno intensa di quella garantita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Certamente, diverse difficoltà permangono, e il percorso del dia-logo può essere a volte impervio ed accidentato.
Un esempio è quello del modo nel quale è stato recentemente affrontato, nel dialogo triangolare tra le due corti europee e quelle nazionali, il tema della garanzia del ne bis in idem in materia penale.
Anche questo tema, nell’ambito dell’Unione europea, rischia di creare tensione tra l’esigenza della tutela dei diritti fondamentali ed il corretto funzionamento dei meccanismi del diritto dell’Unione.
Il problema si è posto a causa della nota giurisprudenza Engel del-la Corte di Strasburgo6, secondo cui il concetto di sanzione penale è autonomamente determinato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e non è determinato dalla qualificazione data dal diritto nazionale, per cui anche per le sanzioni da quest’ultimo considerate amministrative, o comunque non penali, si applicano le garanzie con-venzionali previste per le sanzioni penali tutte le volte che esse, in ap-plicazione dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte EDU, siano da considerare “penali” alla stregua della stessa Convenzione.
È intuitivo che questa giurisprudenza “garantista” rischia di cre-are un problema quanto all’efficacia degli apparati sanzionatori posti a tutela degli interessi dell’Unione, specie in considerazione della tec-nica del “doppio binario” sanzionatorio che contraddistingue molti
5 Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza dell’8 gennaio 2013, ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10,
Torreggiani e altri c. Italia.
6 Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza dell’8 giugno 1976, ricorsi n. 5100/71, 5101/71, 5102/71, 5354/72 e 5370/72, Engel e a. c. Paesi Bassi.
sistemi dei Paesi membri, in particolare in materia tributaria e in ma-teria di disciplina dei mercati finanziari.
Già con la sentenza Fransson del 2013 – a proposito del “doppio binario” sanzionatorio in tema di IVA – la Corte di Lussemburgo ha escluso che i sistemi nazionali possano assicurare una tutela dei diritti fondamentali più ampia di quella apprestata dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (ai sensi dell’art. 53) tutte le volte che questo possa nuocere alla «effettività, proporzionalità e dissua-sività della sanzione» ovvero al «primato, all’unità e all’effettività» del diritto dell’Unione, così mostrando una certa insofferenza verso un’eccessiva espansione delle garanzie in materia di ne bis in idem7.
In effetti il problema era stato acuito con la sentenza
Zolotoukhi-ne della Corte EDU del 2009, che, Zolotoukhi-nell’intento di ricondurre ad
uni-tà la giurisprudenza di Strasburgo, che in passato aveva conosciuto alcune oscillazioni in tema di cosa debba intendersi per idem factum ai fini della garanzia del ne bis in idem, prevista dall’art. 4 del Pro-tocollo n. 7 alla Convenzione europea, ha precisato che “medesima infrazione” significa che si tratta di “fatti identici” o di fatti che sono sostanzialmente gli stessi di quelli che hanno dato origine alla prima infrazione, così escludendo ogni influenza, quanto alla riconoscibi-lità dell’idem factum, della qualificazione giuridica degli stessi fatti, ciò che ha indubbiamente determinato un irrigidimento del sistema e serie difficoltà ai sistemi basati sul “doppio binario” sanzionatorio8.
Successivamente, la sentenza Grande Stevens, molto nota, che ha dato luogo ad un vasto dibattito soprattutto in Italia, è stata conside-rata un’applicazione particolarmente rigorosa del principio affermato da Zolotoukhine9.
Con la sentenza A. e B. c. Norvegia, del 2016, la Corte di Stra-sburgo è tornata sul tema e, riprendendo alcuni spunti presenti in precedenti sentenze, non ha escluso la compatibilità convenzionale di regimi sanzionatori basati sul “doppio binario”, purché tra le due
7 Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 26 febbraio 2013, Åkerberg
Fransson, causa C-617/10, ECLI:EU:C:2013:105.
8 Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza del 10 febbraio 2009, ricorso n. 14939/03, Zolotoukhine c. Russia.
9 Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 4 marzo 2014, ricorsi nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10, Grande Stevens c. Italia.
procedure in questione vi sia un legame «sufficientemente stretto dal punto di vista materiale e da quello temporale», cioè che esse siano
sufficiently connected in substance and in time10.
A proposito delle difficoltà nel dialogo tra le corti, va detto che non pochi equivoci sono sorti in seguito a quest’ultima sentenza della Corte di Strasburgo.
Per esempio, la Corte Costituzionale italiana ha considerato i criteri di A. e B. come “tratti del tutto nuovi” rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza11. Si tratta di una con-clusione che, a nostro sommesso avviso, non è giustificata.
La Corte di giustizia dell’Unione europea, con tre notissime sen-tenze pronunziate il 20 marzo 201812, non ha accolto l’impostazione dell’Avvocato generale, il quale l’aveva invitata a non seguire A. e B., che secondo la sua lettura costituiva un passo indietro della giuri-sprudenza di Strasburgo, e ad assicurare la massima espansione della tutela, ai sensi dell’art. 52, co. 3, della Carta, che permette al diritto dell’Unione di assicurare una protezione più estesa di quella della Convenzione, e ha risolto la questione considerando, l’applicazio-ne del doppio binario sanzionatorio l’applicazio-nei tre casi, una limitaziol’applicazio-ne del principio del ne bis in idem consentita ai sensi dell’art. 52, co. 1, della Carta. È interessante notare da una parte che la Corte di Lussem-burgo si è concentrata sull’aspetto sostanziale quanto alla valutazione
10 Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza del 15 novem-bre 2016, ricorsi nn. 24130/11 e 29758/11, A. e B. c. Norvegia. Secondo questa sen-tenza la close connection si articola sotto il profilo sostanziale e sotto il profilo tem-porale. Per il primo aspetto, occorre: 1) che le finalità dei due procedimenti siano complementari; 2) la concreta prevedibilità di una doppia procedura sanzionatoria; 3) la non sussistenza di duplicazione nella raccolta delle prove; 4) la previsione di un meccanismo di compensazione tra le sanzioni complessivamente irrogate. Per il se-condo aspetto è sufficiente che vi sia un nesso di natura cronologica, senza però che sia necessario che i due procedimenti debbano per forza procedere parallelamente dall’inizio alla fine. La Corte ha precisato che «più flebile è la connessione tempo-rale, maggiore è l’onere per lo Stato di chiarire e giustificare il ritardo riconducibile alle modalità di svolgimento dei procedimenti».
11 Corte Costituzionale, sentenza del 2 marzo 2018, n. 43.
12 Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenze del 20 marzo 2018, Luca Menci, causa C-524/15, ECLI:EU:C:2018:197; Garlsson Real Estate et al., causa C-537/16, ECLI:EU:C:2018:193; Di Puma e Zecca, cause riunite C-596/16 e C-597/16, ECLI:EU:C:2018:192.
della proporzionalità della limitazione, essenzialmente sotto il profilo della valutazione della ragionevolezza complessiva delle sanzioni cu-mulate e, d’altra parte, che l’operazione compiuta dai giudici dell’U-nione, permessa dalla trasversale limitabilità di tutti i diritti previsti dalla Carta, non sarebbe stata consentita alla Corte di Strasburgo, giacché la garanzia del ne bis in idem è inclusa tra i diritti assoluti, addirittura inderogabili anche in tempo di guerra o di altre situazioni di emergenza ai sensi dell’art. 15 della Convenzione.
La giurisprudenza dei giudici comuni italiani si è poi orientata verso una lettura riduttiva dei criteri enunciati in A. e B., nel senso di considerare la garanzia convenzionale del ne bis in idem concen-trata nella sua dimensione sostanziale, affermando più o meno che il doppio binario sanzionatorio è sempre consentito purché la risposta sanzionatoria, derivata dal cumulo delle pene inflitte nei diversi pro-cedimenti, sia complessivamente proporzionata alla gravità del fatto e
prevedibile13. Si tratta di un approccio che nella sostanza conferma
quello della Corte di Lussemburgo.
Evidentemente in questo modo si finisce per trascurare la dimen-sione temporale, che pure viene considerata essenziale dalla giuri-sprudenza di Strasburgo, come è stato recentemente ribadito dalla Corte EDU con la sentenza Nodet c. Francia del 201914, con la quale i giudici dei diritti umani hanno riaffermato la giurisprudenza A. e B., ripetendo che il doppio binario sanzionatorio non integra di per sé una violazione del ne bis in idem, ma sono stati chiari nel dire che la discrezionalità del giudice nazionale non è illimitata, così dando una lettura stringente del requisito della close connection, insistendo sulla necessità del ricorso a tutti gli indici di questa condizione di conven-zionalità del doppio binario sanzionatorio e dunque dell’applicazione piena del test fissato con A. e B.
* * *
Non è questa la sede per prendere posizione sulla questione del
ne bis in idem e del suo impatto sui sistemi sanzionatori a doppio
bi-13 V. Corte di Cassazione penale, sentenza del 16 luglio 2018, n. 45829.
14 Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 6 giugno 2019, ricorso n. 47342/14, Nodet c. Francia.
nario, tema di grandissima attualità specialmente in Italia. Abbiamo solo voluto mostrare come a volte il dialogo sia difficile e impervio.
Questo rilievo, però, non contraddice la premessa di fondo, che resta quella, a sommesso giudizio di chi scrive, dell’esistenza di una sincera volontà, in tutti gli attori di questo dialogo triangolare, di perseguire con spirito di leale collaborazione la ricerca di soluzioni armoniche che permettano di conciliare le esigenze della tutela dei diritti fondamentali con quelle del buon funzionamento del diritto nazionale e del diritto dell’Unione, in particolare di quello relativo allo SLSG.
In questo quadro, che come si diceva vede la frammentazione del tessuto normativo, che non è comune a tutti i giudici che agiscono nel sistema multilivello, è evidente che, almeno nella prospettiva di chi scrive, le iniziative volte alla almeno parziale ricomposizione di tale tessuto, come l’idea dell’adesione dell’Unione europea alla Conven-zione europea, vanno nella giusta direConven-zione.
Forse però, più ancora della tendenziale reconductio ad unum dei testi di riferimento, è importante la consapevolezza negli attori del sistema multilivello della loro comune responsabilità nella difesa dei diritti fondamentali. Un atteggiamento culturale che dovrebbe per-mettere, al di là della diversità dei testi, di procedere verso una pro-gressiva armonizzazione delle soluzioni, grazie ad un comune sentire in tema di diritti umani che, dopo oltre sessant’anni di giurisprudenza europea, è oramai penetrato nelle coscienze, ma che va ulteriormente coltivato.
Per questa ragione sono importanti i network di corti nazionali messi insieme dalle due corti europee, ed assumono un rilievo asso-lutamente eminente – anche nell’ottica dello SLSG – strumenti come il Protocollo n. 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che come sappiamo consentirà una sorta di istituzionalizzazione del dialogo tra la Corte di Strasburgo e le corti superiori nazionali. Il di-segno di legge di autorizzazione alla ratifica di questo strumento – già entrato in vigore sul piano internazionale e già utilizzato dalla Corte di cassazione francese nel delicato campo della maternità surrogata –