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Lo spazio perifilmico è il centro del discorso sullo spazio dell’arte contemporanea, poiché all’interno di esso troviamo le strutture che mettono in relazione il lavoro artistico con il percorso dello spettatore e lo spazio di esposizione.

2.1 Il perifilmico: verso una definizione dello spazio dello spettatore

Lo spazio ha da sempre accompagnato le pratiche visive. Nel diciannovesimo secolo entrare in un cosmorama o in un Grande Mappamondo voleva dire fare una passeggiata immersiva nelle immagini, spostarsi, cercare, appoggiarsi e toccare. Portarsi davanti agli occhi uno stereovisore implicava un coinvolgimento corporeo superiore rispetto a quello cinematografico odierno.

If the history of precinema partakes of the field defined by Jonathan Carry as “techniques of the observer” it is because it involves an array of perceptual and spatial expansion. This is a shifting field, marked by the development of various machines of the visible, including the camera obscura and the magic lantern, anamorphosis, the baroque theater of illusion, shadow plays, viewing boxes, optical views, and, particularly, spaces for viewing that constitute apparatus of site-seeing and transport1.

La visione assume quindi delle qualità corporee, aptiche2, che ritroviamo al centro di moltissimi lavori sperimentali, videoinstallativi e di cinema esposto. Questa immersione produce un coinvolgimento che determina una percezione completamente diversa ed è certamente data dalla possibilità di navigare lo spazio secondo coordinate piuttosto libere, evidenziate dagli apparati e oggi dalla disposizione della materia filmica:

In the nineteenth century, a wide variety of apparatus turned the pleasures of flânerie into a commodity form, negotiated new illusions of spatial and temporal mobility. Unlike the confinement of the panoptic system, many protocinematic devices negotiated spatial and temporal illusion. In short, all of those forms depended on the immobility of the spectator, a stasis rewarded by the imaginary mobilities that such fixity provided3.

Il fatto che “il posto dello sguardo” venga poi relegato in una posizione predeterminata nella storia del cinema, aggiunge importanza alla libertà dello spettatore nelle forme cinematografico-artistiche contemporanee. Lo spazio espanso permette uno 1 Bruno, Atlas of emotion: journeys in art, architecture, and film, cit., p. 137.

2 Cfr. infra, p. 79.

sguardo disinteressato, laddove l’illusione di spazialità e di temporalità torna ad essere reale. Per essere più precisi, non completamente reale, ma sicuramente alla spazialità e alla temporalità filmica vengono sovrapposte dimensioni che hanno elementi reali e tangibili: il guardare disinteressato del flâneur si somma e si scontra quindi con lo sguardo attento dello spettatore nella sala.

Lo spazio della galleria che sta intorno all’opera può essere chiamato spazio

perifilmico. Con questo termine si intende portare una proposta per delineare l’articolazione

spaziale riferibile al contesto dell’arte contemporanea e dei suoi luoghi espositivi nel momento in cui accoglie immagini in movimento installate. In letteratura l’unico riferimento al termine “perifilmico” è stato trovato in François Jost (péri-film), il quale però si limita a considerare tale la complessità spettacolare della sala che stava intorno alle proiezioni del primo cinema, quali l’accompagnamento musicale, l’imbonitore, ecc.4

Con questo termine si intende invece un’articolazione spaziale riferibile alla spazio fisico e istituzionale dell’arte contemporanea.

Lo spazio perifilmico si trova in ogni forma artistica che proponga immagini

in movimento in uno spazio non classico, ma la sua analisi assume interesse solo quando queste immagini sono contestualizzate concettualmente. L’analisi delle forme cinematografico-artistiche contemporanee deve essere affrontata sotto una prospettiva che dia importanza alla spazialità dell’opera esposta, che non può quindi essere vista solamente come analisi del visivo ma piuttosto come analisi della visione. La proposta terminologica che viene fatta in questa sede sembra la più adatta a rendere la complessità spaziale e corporea che interessa lo spettatore. Nel caso del significato che si vuole dare al termine in questo lavoro, quello che sta intorno è una complessa relazione di frammenti di spazialità e temporalità sovrapposte, come si potrà vedere nel capitolo successivo riguardo alla temporalità.

All’interno della messa nello spazio della materia filmica rimane generalmente quest’ultima il fulcro della visione. La visione è però irrimediabilmente modificata dalla componente spaziale, che appunto sta intorno. Il perifilmico è quindi l’ambiente che lo spettatore si trova ad attraversare e ad esperire tanto quanto il filmico, con la grande differenza che questa esperienza è immediatamente fisica. Le immagini, proiettate, diffuse su schermi, incastonate in oggetti, vivono in due spazi: quello da loro stesse prodotte e quello dove hanno spazialmente vita.

Con questo termine si vuole intendere quindi lo spazio del flâneur, luogo di visione ma anche di anti-visione (appare chiaro, ad un primo livello, se si pensa allo spazio che sta dietro ad uno schermo, che dona una diversa immagine e che considera lo schermo 4 François Jost, Le cinema dans ses oevres, in Jacques Serrano (a cura di), Après Deleuze: Philosophie et

stesso come elemento scultoreo).

Non solo. Lo sguardo dello spettatore viene indirizzato verso lo schermo anche grazie alla concentrazione che l’ambiente circostante, di solito, permette. Oppure, sempre a causa delle caratteristiche spaziali, questa può essere allontanata volontariamente. Allo stesso tempo la circumnavigazione intorno al filmico che il pubblico può esperire è quella che produce il carattere di transitorietà dello stesso sguardo, che viene attratto dalle immagini. Un movimento di entrata e di uscita dal flusso filmico che coinvolge tutto il corpo e lascia allo spettatore lo spazio per essere curioso.

La diversità delle opere non permette di definire tutti gli elementi che fanno parte dello spazio perifilmico poiché le forme cinematografiche contemporanee formano una costellazione di pratiche vastissima per varietà e complessità. Sicuramente però si può far comprendere all’interno di questo termine alcune componenti a partire da due macro-livelli di spazi: uno esterno ed uno interno, laddove l’architettura museale crea il labile confine fra il primo ed il secondo.

Dalla città, contenitore massimo delle forme dello spazio perifilmico, si passa ad una componente architettonica (museo, galleria, ecc.), una componente sempre strutturale ma interna (che si declina dal white cube dell’arte contemporanea al black box del cinema classico) ed infine una componente plastica (schermo, proiettore, pellicola, luogo dove lo spettatore può sedersi, ecc.). La combinazione di queste componenti con la materialità del filmico e le sue coordinate di spazio e tempo interni determinano l’esperienza spettatoriale e la conseguente complessità dell’analisi di opere di cinema esposto.

2.2 Lo spazio esterno

Questa serie di livelli sono il risultato della ormai ampiamente studiata proliferazione degli schermi ma soprattutto della conseguente colonizzazione degli spazi da parte degli stessi e delle immagini che riflettono: “[...] a real colonization of spaces takes place, and the moving images does not just enter new contexts but merges with them. It becomes part of it, forming its surface, allowing it to be practicable and dwelled in”5.

Per studiare la sovrastruttura che compone lo spazio esterno possono essere presi in esame metodi differenti. In questo caso, infatti, come già visto per quanto riguarda l’impostazione di questo lavoro, non è possibile allontanarsi da una trattazione che prenda

spunti e metodologie da diversi campi6.

Analizzando i vari livelli al di fuori della sala cine-museale viene in aiuto la trattazione che Giuliana Bruno fa del rapporto fra architettura, film, spettatore, città e casa7. Si tratta di una serie di collegamenti che a partire dal cinema delle origini e dalla sua fascinazione per i panorami cittadini porta allo studio di alcuni casi dell’arte contemporanee (in particolare dell’opera di Peter Greenaway) passando per l’idea di viaggio spettatoriale e soprattutto dal concetto di transito8:

Film shared much in common with this geography of travel culture, especially with regard to its constant reinvention of space. […] spectatorship is to be conceived as an embodied and kinetic affair, and that the anatomy of movement that early film engendered is particularly linked to notions of flânerie, urban “streetwalking,” and modern bodily architectures9.

Chi guarda vive in sostanza un viaggio attraverso vari elementi che non vedono più una chiara divisione tra spazi. La proliferazione delle immagini in movimento e il progressivo aumento di immagini in movimento di provenienza “artistica” porta una fortissima confusione spaziale e temporale nella struttura della visione.

La prima e più grande sovrastruttura è la città: contenitore, insieme,

complex and interactive network which links together, often in an unintegrated and de facto way, a number of disparate social activities, process, and relations, with a number of imagenary and real, projected or actual architectural, geographic, civic and public relations10.

La città è la vera primaria struttura che lo spettatore si trova ad affrontare, ma soprattutto, da quando le immagini in movimento contemporanee hanno colonizzato lo spazio cittadino è diventata un punto di riferimento primario per l’analisi del dispositif. La città diventa una sorta di “boîte à images”11 dove palazzi, parchi, cieli si alternano e vengono colonizzati dalle immagini dell’arte.

Si tratta del livello più complesso e inafferrabile di dispositivo perché non 6 Cfr. infra, p. 91.

7 Cfr. Bruno, Atlas of Emotion: Journeys in Art, Architecture, and Film, cit., in particolare la sezione Architecture; Id., “Bodily Architectures”, in Assemblage, n. 19, 1992.

8 A partire da Mario Perniola, Transiti: come si va dallo stesso allo stesso, Cappelli, Bologna 1985. 9 Bruno, Atlas of Emotion: Journeys in Art, Architecture, and Film, cit., p. 17.

10 Elizabeth Grotz, Bodies-Cities, in Beatriz Colomina (a cura di), Sexuality & Space, Princeton Architectural Press, New York 1992, p. 244.

11 Dubois, Cinema et art contemporain : vers un cinema d’exposition ? De la migration d’un dispositif, opera in preparazione (versione di lavoro), p. 73.

schematizzabile in nessuna forma precisa. Nell’analizzare le interazioni della città con l’arte ci si scontra immediatamente con una primaria divisione fra quello che è inseribile nell’analisi delle forme artistiche e quello che invece è piuttosto il frutto della proliferazione degli schermi12. Ma si tratta di una differenza anche in questo caso labile, che rimette in gioco i sistemi definitori presi solitamente in considerazione.

Un primo elemento per arrivare a comprenderne la complessità è l’analisi degli schermi. Screen City13, Urban Screen14, Media Architecture, Portable Media, mediafaçade, sono termini che oggi vengono comunemente usati per delineare questa diffusione di proiezioni o più in generale di immagini in movimento nelle città15. In questo si è passati da forme semplici di proiezione o di supporti a complesse interazioni tramite dispositivi mobili. Lo spazio dell’architettura e per estensione di gran parte della città diviene una superficie di proiezione e accoglie un altro livello di realtà e percezione16. Al centro di questo sviluppo alcuni pongono quella stessa convergenza e quello stesso movimento di superamento della specificità mediale di cui si è parlato nel capitolo precedente, talvolta forse esagerando nel porre l’accento sulla velocità tecnologica di questi processi17. Si tratterebbe quindi di riportare queste pratiche in un determinismo tecnologico che non troverebbe però vera eco negli esempi reali che lo sguardo può toccare.

Diviene quindi necessario chiedersi dove s’inserisce l’arte in questo contesto, o ancor meglio dove l’arte incontra la proliferazione degli schermi. Se, come dicono Gilles Lipovetsky e Jean Serroy, “on est passé d’un demi-siècle de l’écran-spectacle à l’écran-communication, de l’écran-un au tout-écran, voici l’époque de l’écran global. L’écran en tout lieu et à tout moment”18 e se siamo arrivati veramente in un momento storico di “écranocratie” anche l’arte contemporanea deve farne parte, in particolar modo nelle massicce manifestazioni urbane. Così le promenades o balades urbaines si sposano felicemente con la ricerca di un’espressione artistica inserita nel contesto cittadino, mentre

12 Will Straw, “Proliferating screens”, in Screen, n. 41, 2001. 13 Cfr. Simone Arcagni, Screen City, Bulzoni, Roma 2012, p. 43.

14 Cfr. anche De Rosa, Cinema e postmedia. I territori del filmico nel contemporaneo, cit. Come nel testo di Arcagni si pone molta attenzione alla struttura degli Urban Screens, con riferimento alle esperienze milanesi, in particolare in Piazza Duomo.

15 Cfr. Perry Bard, “Screenspace”, in Afterimage, n. 33, 2005; Karen Lury, Doreen Massey, “Making Connections”, in Screen, n. 40, 1999; Simone Arcagni, Oltre il cinema. Metropoli e media, Kaplan, Torino 2010.

16 Cfr. Paul Virilio, “Dal media building alla città globale: i nuovi campi d’azione dell’architettura e dell’urbanistica contemporanea”, in Crossing, n. 1, 2000.

17 Arcagni, Screen City, cit., pp. 39-43.

18 Gilles Lipovetsky, Jean Serroy, L’écran global: culture-médias et cinéma à l’âge hypermoderne, Éd. Le Seuil, Paris 2007, p. 10.

gli interventi artistici cercano di distanziarsi da quel carattere di “vetrinizzazione”19 che il tessuto urbano ha assunto visivamente a causa delle troppe immagini in movimento in esso incastonate20.

2.3 La componente architettonica come elemento di cerniera

La componente architettonica è quindi un insieme composito di livelli che creano

una stratificazione spaziale percepibile dallo spettatore. Questo sistema complesso comprende uno spazio esterno e uno interno, determinato dall’architettura museale. L’architettura fisica del museo (o della galleria) crea la divisione primaria e più importante. In sostanza la sala funziona come separazione e si viene a creare una sorta di “question de l’enveloppe”21 partendo dalla constatazione che la sala cinematografica e la sala museale hanno la primaria funzione di isolare.

Un insieme di involucri con una primaria divisione, che, a sua volta, contiene altre divisioni interne, ma soprattutto si declina nei diversi modi espositivi contemporanei: padiglione, museo, galleria, passeggiata, percorso e risente della dicotomia fra white

cube e black box. In sostanza il dispositif museale viene avvolto da un iper-dispositif

architettonico.

Sono ormai molti gli esempi che si possono portare. Particolarmente interessante è il caso di Doug Aitken che in più occasioni ha lavorato su di un immaginario di grandi dimensioni e che ha trovato nell’architettura cittadina un supporto particolarmente adatto. In un breve percorso che attraversa le superfici di proiezione si può vedere un differente uso dello spazio della città fatto dall’artista californiano. Il primo gruppo di opere comprende una serie di lavori che si delineano sulle facciate di edifici, quasi sempre destinati all’arte contemporanea. Nel 2007 Doug Aitken in collaborazione con il Museum of Modern Art di New York e Creative Time produce Spleepwalkers (2007)22, un’installazione notturna di dimensioni enormi, che si articola per tutta la facciata del museo newyorkese. In

19 Casetti, “L’esperienza filmica e la ri-locazione del cinema”, cit., p. 34 e i rimandi nel testo: Piermarco Aroldi, Francesca Pasquali, Matteo Stefanelli (a cura di), Spazi sensibili. Pubblicità, comunicazione e

ambiente, Comunicazioni sociali, n. 3, 2006 e Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale: il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

20 Esistono altre forme relative allo spazio esterno: video-walks e sound-walks ad esempio, tra i quali alcuni splendidi esempi di Janet Cardiff e George Bures Miller, si pensi alla Alter Bahnhof Video Walk (2012) per dOCUMENTA (13) o Her Long Black Hair (2004) presso il Central Park di New York o diverse forme che vedono la città come schermo, spesso sviluppate durante avvenimenti quali le notti bianche dedicate all’arte.

21 Dubois, Cinema et art contemporain: vers un cinéma d’exposition ? De la migration d’un dispositif, cit., p. 71.

22 Cfr. www.dougaitkenworkshop.com/work/sleepwalkers; www.moma.org/interactives/exhibitions/2007/ aitken.

funzione dal 16 gennaio al 12 febbraio 2007, dalle ore diciassette alle ventidue. Si tratta allo stesso tempo di una mastodontica installazione, di un percorso spettatoriale e di una dedica alla città americana. Sette punti di proiezione divisi tra la cinquantatreesima e cinquantaquattresima strada e l’open space del museo per raccontare i viaggi notturni di cinque abitanti della città: un corriere in bicicletta (interpretato da Ryan Donowho), un elettricista (Seu Jorge), un uomo d’affari (Donald Sutherland), un’impiegata (Tilda Swinton) e un postino (Chan Marshall). Viaggi che vengono raccontati attraverso una narrativa frammentata, complicata dal viaggio che i visitatori devono fare intorno al museo. Si tratta della prima commissione pubblica di Doug Aitken negli Stati Uniti, ma soprattutto di una modalità che l’artista continuerà ad utilizzare, sebbene non con questa complessità drammaturgica. Si tratta infatti di una difficile analisi artistica della dialettica fra narrazione filmica e narrazione spettatoriale, particolarmente riuscita poiché inserita in un contesto già da solo impressionante.

In situazioni come quella newyorkese, dove la proliferazione di immagini in movimento, soprattutto pubblicitarie, è massiccia, un progetto che vede l’utilizzo di immagini “cinematografiche” (per stile, mezzi, riferimenti attoriali e culturali) all’aperto assume un significato ulteriore, dà a queste immagini una potenza di dialogo enormemente superiore rispetto ad altri luoghi e infine pone l’opera in una tradizione che non gli appartiene, ma nella quale riesce a situarsi, almeno per spettacolarità. Il “transito” spettatoriale è circolare, parte da un luogo per ritornarci, ponendo chi guarda all’interno di una mise en abîme spaziale ma soprattutto temporale.

Spleepwalkers è l’inizio di una modalità che l’artista riprenderà fin da subito23. L’anno successivo, con Migrations, per la mostra Life on Mars della 55th Carnegie International, Aitken prepara una grande proiezione esterna al Carnegie Museum of Art. Altro tema, articolazione diversa, ma simile spettacolarità.

Risale al 2012 un altro progetto paragonabile per dimensioni e complessità al progetto newyorkese: Song1. Si tratta ancora una volta di una proiezione multipla, esterna alla facciata di un museo, questa volta l’Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Washington. La peculiarità di questo lavoro sta nel suo adattarsi perfettamente alla forma convessa dell’edificio, portando le proiezioni a svilupparsi per 360 gradi. Per Aitken “the Hirshhorn 360-degree projection is a new form of film... one that defies categorization”, che crea una “liquid architecture”24.La canzone del titolo fa riferimento a I Only Have Eyes

For You, scritta da Harry Warren e Al Dubin per il film Dames (Abbasso le donne, Ray

23 In realtà già nel 1998 con Glass Horizon a Vienna e nel 2001 con New Ocean a Londra l’artista aveva lavorato con immagini su facciate o incorporate nel’architettura della mostra ma mai con la complessità e spettacolarità di Sleepwalkers.

Enright, Busby Berkeley, 1934) e gli undici proiettori necessari a coprire la superficie del museo sviluppano una serie di video musicali che ruotano tutti intorno a questa canzone. Anche in questo caso si tratta di un lavoro che riprende le modalità delle installazioni dell’arte contemporanea (come la durata limitata nel tempo, dal 20 marzo al 22 maggio, con orari di proiezione ben precisi) ma che porta all’esterno queste modalità, in un certo senso invertendo due canoni museali: gli orari di “accesso” all’opera, che, per ovvi motivi di luce devono essere speculari a quelli di accesso e di uscita dallo spazio museale verso quello cittadino, mantenendosi però attaccati alla superficie fisica dell’istituzione.

Nel 2009 Aitken realizza in Italia, a Roma, un lavoro a metà fra la piena accettazione dello spazio cittadino e quello chiuso museale e santificato dall’arte contemporanea.

Frontier, curata da Francesco Bonami e commissionata da Enel Contemporanea, è

un’installazione filmica e performance situata sulla punta dell’Isola Tiberina composta da un ambiente immersivo semichiuso. Il lavoro filmico è composto da una passeggiata metropolitana compiuta da Ed Ruscha, con immagini filmate non solo a Roma, ma anche in Israele, Sud Africa e Stati Uniti. Le finestre che si aprono verso l’esterno emanano colori e luci mentre all’interno si animano le immagini e la performance.

Doug Aitken non è l’unico artista a lavorare su questa direttrice, ma il suo è un percorso insistito, che diventa poetica personale. Soprattutto, l’artista ricorre in maniera continua alla creazione di ambienti o all’utilizzo, al contrario, dell’architettura museale e istituzionalizzata per affacciarla verso l’esterno cittadino.

Pipilotti Rist e Rosa Barba, in modalità ben differenti tra loro si sono cimentate in lavori simili ma in contesti molto diversi. Vale la pena però ricordare due loro opere. L’artista svizzera anima la piazza del Centre Pompidou con una proiezione gigante A la

belle étoile (Under The Sky), commissionata nel 2007 dal museo parigino in collaborazione

con il Seattle Art Museum e in seguito riproposta all’interno di una collettiva, Elles:

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