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LA SPECIAL INVESTIGATIVE TASK FORCE: L’UNIONE EUROPEA COME NUOVA ATTRICE

Nel documento Prefazione (pagine 121-130)

NELLA GIUSTIZIA PENALE INTERNAZIONALE

Matteo Costi

SOMMARIO:1. L’antefatto. 2. L’Unione europea. 3. Le basi legali. 4. Cosa è, cosa sarà. 5. Le domande e le risposte.

1. L’antefatto

Il 9 giugno 1999 viene firmato dallo Stato Maggiore delle Repubbli- ca Federale Jugoslava (oggi Serbia) e dalla NATO l’accordo di Kuma- novo. Con esso si stabilisce il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo, la cessazione dei bombardamenti NATO e il dispiegamento di una forza di sicurezza internazionale (“KFOR”, in larga parte costituita da paesi NATO) chiamata a verificare l’effettivo ritiro delle forze Iugoslave ma anche a garantire la sicurezza fino all’arrivo della missione civile ONU. Il 10 giugno del 1999 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adotta la riso- luzione n. 1244 che istituisce quello che si può definire il primo protet- torato ONU. Con tale atto si stabilisce infatti che l’ONU amministrerà la regione del Kosovo.

La fine della guerra con il ritiro delle forze di polizia, militari e pa- ramilitari serbe segna la fine dell’oppressione della popolazione albane- se e il rientro dei profughi. Segna però anche l’inizio di un’altra violen- za: quella ai danni delle minoranze etniche e di quella serba in partico- lare. Una violenta campagna persecutoria di rapimenti, torture, omicidi, espulsioni e devastazioni di case serbe e chiese ortodosse. Migliaia di civili serbi abbandonano il Kosovo. Poi tutto tace, l’UCK, il movimento di resistenza albanese che aveva combattuto e contribuito alla libera- zione del Paese, diviene una forza politica, fornendo gli amministratori del futuro Kosovo indipendente; ancora oggi buona parte della classe dirigente kosovara viene da quel contesto.

Nel 2008 Carla Del Ponte scrive una autobiografia in cui afferma che durante le indagini compiute in Kosovo sarebbero emersi degli elementi che lasciano intendere l’esistenza di un traffico di organi. Al- cuni prigionieri serbi detenuti da forze dell’UCK sarebbero stati portati in Albania dove gli sarebbero stati asportati gli organi poi venduti sul mercato occidentale.

Il Consiglio Europeo incarica Dick Marty, senatore svizzero, di fare una verifica sul campo per accertare se i fatti affermati sono fondati. Dick Marty conclude il suo report alla fine del 2010. In tale documento non solo si confermano le ipotesi avanzate da Carla Del Ponte, ma si sottolineano altre due circostanze di centrale importanza per la genesi della SITF: innanzitutto, serbi e altre minoranze sono stati sottoposti a campagne persecutorie sistematiche che hanno comportato la sparizione e la morte di centinaia di persone e l’espulsione di migliaia. Questa campagna era di natura organizzata – non si trattava di una semplice spontanea vendetta – e in particolare era stata organizzata da quelli che erano i vertici dell’UCK o comunque persone collegati a questi. Perso- ne che nel 2010 al tempo del report rivestivano importanti ruoli nel Ko- sovo. Tali soggetti avrebbero goduto di una totale impunità, in quanto i testimoni furono messi a tacere, uccisi, minacciati, corrotti; vi sarebbe stato un clima di terrore che avrebbe portato a una situazione di omertà assoluta.

La seconda sconcertante conclusione del report è che la comunità internazionale avrebbe fatto finto di nulla, ignorando e insabbiando le indagini che avevano ad oggetto tali vertici. In un’ottica pragmatica di

Realpolitik si sarebbe privilegiata la stabilità rispetto ad esigenze di

giustizia. Perseguire i responsabili avrebbe potenzialmente significato decapitare la classe dirigente kosovara formatasi nell’UCK e alleata della NATO in chiave anti Serba. La politica internazionale avrebbe deciso dunque di non intervenire dando luogo a una sostanziale immu- nità – o impunità.

È dunque alla luce di questo quadro che l’Unione Europea (UE) ha ritenuto improrogabile la creazione di un meccanismo giudiziario volto a superare questo stato di sostanziale impunità. E lo ha fatto con la isti- tuzione della Special Investigative Task Force (SITF) con a capo un

procuratore e con il compito di svolgere un’indagine di natura giudizia- ria sui fatti indicati nel report di Marty.

Quanto fin qui detto rileva nella discussione, cuore di questo conve- gno, se tra i vari meccanismi di risposta a crimini di massa si debbano preferire commissioni di verità e giustizia ovvero scegliere la strada retributiva di indagini giudiziarie e processi penali. Al di là delle tante considerazioni che si possono svolgere, la genesi di SITF (e dunque la scelta di una risposta giudiziaria-retributiva) dimostra che le commis- sioni di verità e giustizia possono funzionare solo laddove il regime responsabile dei crimini abbia capitolato. Se quel regime detiene ancora un potere capillare nel paese, torna la necessità della minaccia della spada del diritto penale. E ciò perché nessuna vittima o testimone è di- sposto a testimoniare sui fatti subiti se il responsabile di tali fatti è e rimarrà una minaccia per la sua incolumità e quella dei suoi cari. A ciò si aggiunga che, piaccia o meno, il primordiale “bisogno retributivo” è incentivo più forte di un generico “bisogno riconciliativo” alla collabo- razione con gli organi inquirenti – specie quando si parla di chi collabo- rando si espone alle ritorsioni di un sistema di potere ancora forte nel paese.

2. L’Unione europea

Perché l’UE entra in gioco?

Il primo motivo è che si tratta di vicende europee o che quanto meno riguardano la sfera d’influenza europea. È innegabile che situazioni come quelle descritte abbiano direttamente o indirettamente ripercus- sioni – anche in termini di sicurezza – sui paesi dell’Unione.

Il secondo motivo è legato al fatto che dal 2008 l’UE è già in Koso- vo. La missione ONU che è entrata in Kosovo con le truppe NATO e KFOR nel 1999 è stata progressivamente sostituita da una missione del- l’UE denominata EULEX – cioè la prima importante missione di rule

of law organizzata e dall’UE. Dal 2008 è dunque l’UE (e non l’ONU)

che contribuisce a incardinare le nascenti istituzioni kosovare sui prin- cipi dello stato di diritto.

Missione di rule of law significa, tra le altre cose, consulenza nella definizione del nuovo quadro normativo, ma anche intervento diretto nella amministrazione della giustizia: giudici e procuratori internazio- nali dell’UE collaborano attivamente con quelli locali. E tra questi uno

Special Prosecutor Office (SPRK) diretto da un internazionale sotto

l’egida dell’UE. Quindi l’UE svolgeva già funzioni giudiziarie in Ko- sovo.

SITF nasce perciò come emanazione del SPRK attraverso una rior- ganizzazione interna dell’ufficio. SITF è dunque parte di EULEX- SPRK, con alcune fondamentali peculiarità: 1) fa base a Bruxelles e non a Pristina, 2) i suoi componenti sono internazionali e 3) opera in sostanziale indipendenza da EULEX.

Ma se la legittimazione formale nasce da EULEX, perché allora sorge la necessità di istituire questo nuovo peculiare organismo?

Le ragioni vanno trovate nel Report di Marty. In primo luogo, l’alto profilo delle indagini: non si tratta solo di indagare sul singolo episodio criminoso, ma di capire se c’è stata una campagna massiva e sistemati- ca riconducibile ai vertici di potere. La complessità e la delicatezza del- le indagini rendono necessaria l’istituzione di un organo ad hoc.

In secondo luogo entra in gioco la sicurezza. Non solo e non tanto quella di chi svolge le indagini, quanto soprattutto quella dei testimoni e delle informazioni che vengono acquisite. Omertà, corruzione e inti- midazioni sono problemi cronici di parte della società (e di certa cultura tradizionale) Kosovara – per certi versi non dissimile dalla cultura ma- fiosa di casa nostra. Isolare SITF dal territorio Kosovaro e operare in autonomia e segretezza sono tutte misure volte a limitare il rischio di fughe di notizie e proteggere la incolumità dei testimoni.

3. Le basi legali

Ma quali sono le basi legali perché l’UE si impegni in un’indagine e un processo penale internazionale in Kosovo? Il punto di partenza va cercato nel trattato di Lisbona, in particolare nel Titolo V che regola l’External Action – ossia il «ministero degli esteri» nell’ambito del qua- le opera SITF in quanto inserita nell’ambito della missione all’estero

EULEX. Il tal senso basti leggere l’art. 21 che disciplina i principi gui- da della politica estera:

L’azione dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l’allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. (…)

L’Unione definisce e attua politiche comuni e azioni (…) al fine di: a) salvaguardare i suoi valori, i suoi interessi fondamentali, la sua sicu- rezza, la sua indipendenza e la sua integrità; b) consolidare e sostenere la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti dell’uomo e i principi del dirit- to internazionale; c) preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale, (…)

L’UE promuove democrazia e stato di diritto anche al di fuori dei suoi confini, specie se al fine di salvaguardare i suoi interessi e la sua sicurezza. È evidente che è nell’interesse dell’UE affermare lo stato di diritto in Kosovo contrastando corruzione e impunità. EULEX e SITF rispondono a questa esigenza. Per dirla anzi con quanto affermato da Catherine Ashton (Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza fino all’ottobre 2014): EULEX contribuisce a facilitare i progressi del Kosovo verso la sua integrazione nell’UE.

4. Cosa è, cosa sarà

Quando parliamo di SITF oggi, di cosa parliamo? Un pool investi- gativo diretto da un procuratore capo e diversi sostituti chiamati ad in- dagare, ed eventualmente formulare, capi di accusa da portare a proces- so.

Manca evidentemente qualcosa: manca un giudice. E cioè ad oggi non esiste ancora un giudice internazionale competente a occuparsi del- le indagini che svolge SITF. Se ad esempio il procuratore capo volesse oggi avanzare una richiesta di rinvio a giudizio, non saprebbe di fronte a quale autorità presentarla.

Ed infatti, non è un caso che il procuratore capo abbia tenuto una conferenza stampa il 29 luglio 2014 per fare il punto delle indagini e sottolineare l’unicità di tale situazione: l’ufficio di un procuratore con il mandato a svolgere una indagine giudiziaria ed eventualmente formula- re capi di imputazione, ma senza una corte chiamata a vagliare le sue istanze.

The filing of an indictment will not occur until the specialist court des- ignated to hear these cases is established (…) So, this is an unusual – in fact, an unprecedented – situation in international justice where a spe- cial prosecutor’s office has been set up with full investigative authori- ties and with a mandate to issue indictments, but where no viable court exists in which those indictments can be filed.

Che cosa ci sarà? Quale forma prenderà dunque questa futura corte speciale? Un po’ per curiosità accademica, un po’ per essere un convin- to europeista, chi vi parla sperava nella nascita di un primo tribunale europeo di diritto penale internazionale.

Così non sarà per molte ragioni. La prima difficoltà è data dal fatto che ci sono alcuni Paesi nell’UE che non riconoscono il Kosovo; il se- condo ostacolo è la contrarietà dei Paesi tradizionalmente euroscettici che non vedono di buon occhio la creazione di un tribunale penale in- ternazionale dell’UE – un precedente da evitare se ci si oppone alla espansione dei poteri dell’UE e tra questi a forme comunitarie di am- ministrazione della giustizia penale.

Dopo lunghe trattative il compromesso emerso è quello di una Se- zione Speciale ibrida. Con un voto parlamentare il Kosovo ha infatti approvato in linea di principio la creazione di Specialized Chambers interne al sistema giudiziario kosovaro ma con giudici e un procuratore speciali internazionali con egida EU. Sarà dunque una legge del Koso- vo a istituire e definire i contorni delle Specialized Chambers.

Seppure tale legge istitutiva ad oggi non esista neppure in forma di bozza, ci sono però almeno due irrinunciabili punti cardine che, a pare- re di chi vi parla, dovranno necessariamente caratterizzare le nuove

Specialized Chambers. Anzitutto la sede principale dovrà trovarsi fuori

dal territorio Kosovaro: udienze, documenti e trascrizioni dovranno tenersi ed essere conservati in un paese terzo. In secondo luogo, il per-

sonale dovrà essere anzitutto internazionale: una camera di prima istan- za speciale, una camera di appello speciale e una corte costituzionale speciale in cui opereranno solo giudici internazionali.

Se questi due cardini venissero meno si contraddirebbero quelle istanze di sicurezza e confidenzialità che, come si diceva, hanno giusti- ficato la creazione di SITF stessa. Specialized Chambers con sede in Kosovo e giudici Kosovari non avrebbero alcuna credibilità.

Non sarà dunque una corte europea a decidere, ma una corte parte del sistema kosovaro composta giudici, procuratori e staff internaziona- li e con sede in un paese terzo – con ogni probabilità l’Olanda. Si tratta di fatto di una internazionalizzazione di una procedura domestica, con alcune differenze rispetto ad altre esperienze di questo tipo come il Tri- bunale Speciale per il Libano (STL). Tali differenze riguardano non solo la procedura di istituzione, in un caso consensuale (Kosovo) e nel- l’altro di fatto no (Libano), ma sono legate anche alla presenza all’STL di giudici libanesi. Stessa cosa dicasi per le Camere Speciali in Cambo- gia (ECCC), interne anche esse al sistema cambogiano, ma con sede al- l’interno del paese e con giudici sia internazionali che cambogiani.

5. Le domande e le risposte

Alle tante domande che stanno emergendo da questo convegno ne aggiungo due. Primo: in un sistema di giustizia penale internazionale il cui perno, almeno a parere di chi scrive, dovrebbe essere la Corte Pena- le Internazionale (ICC), ha senso che vi sia uno spazio riservato a que- ste forme ibride di internazionalizzazione di procedure nazionali? E cioè, entreranno in gioco solo se e quando l’ICC non ha giurisdizione, ovvero è auspicabile abbiano un ruolo anche in relazione a fatti per cui l’ICC è astrattamente competente?

Questa seconda opzione sembra quella preferibile perché coerente con il principio della complementarità, in particolare di complementari- tà positiva, cardine del funzionamento dell’ICC. Dunque non uno spa- zio in contraddizione o esterno alla sfera della Corte, ma in linea ed anzi parte integrante del sistema di giustizia penale internazionale che gravita attorno alla Corte stessa.

La complementarità, infatti, mira sia a indurre gli Stati a recepire le disposizioni dello Statuto di Roma, ma anche a incentivare forme di giustizia domestica – la Corte interviene solo quando ravvisa che lo Stato non voglia o non possa intervenire. Forme di internazionalizza- zione di procedure nazionali rispondono a quest’ultima esigenza: lo Stato svolge le indagini e celebra il processo in modo credibile con il supporto della comunità internazionale. Così facendo sottrae la materia alla Corte volta che sia soddisfatta che quel paese è willing and able di svolgere indagini e celebrare processi. In altre parole, laddove il conte- sto interno è tale da non consentire un adeguato svolgimento del pro- cesso, l’istituzione di una camera speciale internazionalizzata potrebbe garantirne la buona riuscita prevenendo il trasferimento del caso alla Corte. Il grado di internazionalizzazione di tali strutture (personale na- zionale o internazionale, sede interna o dislocata in un paese terzo, etc.) dipenderà a sua volta dalle condizioni politiche, economiche e sociali in cui il paese versa.

Certo la realtà può esser ben diversa da questo quadretto semplice appena illustrato. Anzitutto l’internazionalizzazione della procedura non è di per sé garanzia di terzietà ed efficienza. Si pensi ad esempio alle critiche di parzialità e politicizzazione mosse alle Extraordinary

Chambers in the Courts of Cambodia in cui i co-investigative judges

internazionali lamentano l’ostruzionismo dei componenti cambogiani dell’ufficio.

In secondo luogo, la politica e la diplomazia internazionale determi- nano il se e come una procedura domestica verrà internazionalizzata e, in ultima istanza, se un meccanismo internazionale verrà creato per per- seguire il crimine. Ad esempio, la UE investirà risorse nelle future Spe-

cialized Chambers del Kosovo, ma nessun simile strumento è all’oriz-

zonte ad esempio per i crimini commessi in Cecenia o nella Repubblica Democratica del Congo.

Concludendo su questo punto: l’internazionalizzazione della proce- dura domestica costituisce una possibile risposta alla istanza di giustizia e, come tale, è da incoraggiare. Ma con attenzione. Rimane infatti a mio avvisto il rischio di frantumare in migliaia di pezzi incoerenti il sistema della giustizia penale internazionale incapace di garantire un’applica- zione uniforme e coerente della norma penale.

La seconda domanda: l’UE è attrice del sistema di giustizia penale internazionale? Sì, di fatto lo è. Anche se le Specialized Chambers per i il Kosovo saranno parte del sistema kosovaro, il sostegno economico e il personale saranno della UE.

DIE „SPECIAL INVESTIGATIVE TASK FORCE“:

Nel documento Prefazione (pagine 121-130)