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L'intelligenza e la curiosità di Langer per tutto quanto di nuovo si muovesse sul piano dell’impegno politico e delle rivendicazioni sociali, fecero sì che la sua attenzione per l’emersione del movimento ecologista in Germania e per le sue istanze fosse particolarmente precoce. Già dalla metà degli anni ’70 era stato un osservatore attento delle mobilitazioni che in quel paese si opponevano all’installazione di nuovi impianti nucleari sebbene, in una prospettiva ancora molto condizionata dall’ideologia classista, avesse manifestato una certa perplessità rispetto al carattere individualista e conservatore di forme di lotta volte non a rovesciare l’assetto sociale, ma a salvaguardare l’integrità del proprio angolo di mondo. L’avrebbe ricordato egli stesso, autocriticamente, qualche anno più tardi: «Nel 1975, allora ero in Germania, a Francoforte, mi consigliarono di andare a Wyhl, vicino a Basilea, a vedere i vignaioli in lotta contro l'installazione di una centrale atomica importante […]. Ci andai, e in un articolo per «Lotta Continua» razionalizzavo a mio modo la situazione descrivendo la rassicurante presenza di giovani militanti che fornivano alla rabbia dei contadini attaccati solo ai loro vigneti le opportune tattiche sovversive»1.

Ma, come testimonia un importante servizio di Langer sui neonati verdi tedeschi pubblicato su «Lotta continua» nella primavera del 19802, già

allora gli erano ben chiare tanto la serietà delle istanze sollevate dal movimento ecologista, quanto le potenzialità che con la sua formazione si schiudevano. Come la possibilità di riscattare la sinistra da quella condizione di sterilità cui i suoi stessi schematismi ideologici l’avevano condannata: spesso si era interpretato il mondo secondo geometrie troppo rigide e semplificate, senza distinguere se non tra “con noi, o contro di noi”. Questa inclinazione, che probabilmente doveva molto alla marcata propensione escatologica cui si è fatto cenno, aveva fatto sì che con chiunque non avesse condiviso le stesse letture non si fosse mai cercato di aprire un dialogo vero, non limitato all’iterazione identitaria. Si erano causati così forti irrigidimenti, che finivano per arginare la trasformazione che si diceva di desiderare, che impedivano di agire assieme agli “altri”,

1 Adriano Sofri, Le liste verdi prima del calcio di rigore, «Fine Secolo», 4 maggio 1985. 2 Alexander Langer, Verde speranza, «Lotta continua», 25 aprile 1980.

anche lì dove, forse, sarebbe stato possibile:

All'interno della sinistra assai spesso si ragiona, in fondo, con una logica dei blocchi non troppo dissimile da quella tra est e ovest: si deve stare da una delle due parti (o a destra, o a sinistra; o con i padroni o con la classe operaia, ecc.), tertium non datur, chi vuole sfuggire a questa polarizzazione forzata, in fondo intende fare il gioco di qualcuno (“dell'altro blocco”, a seconda del punto di vista). Ma il voler pensare tutta la realtà in termini di blocchi finisce per bloccare la stessa possibilità di pensare. Ci si accontenta di aver individuato una contraddizione ritenuta principale e di raggruppare in riferimento ad essa ogni cosa, selezionando tra ragioni valide e prospettive ingannevoli, tra amici e nemici, tra arretratezza e progresso. Una logica di blocco non favorisce i cambiamenti, le nuove aggregazioni, la possibilità di introdurre nuovi valori e prospettive.3

In questo senso il libertarismo laico e promiscuo che caratterizzava i

Grünen poteva forse evitare che la volontà di cambiamento rimanesse

confinata nel perimetro sempre più rigido della sinistra e presiedere alla formazione di alleanze sociali nuove, in cui potessero trovare spazio tanti cittadini cosiddetti “impolitici” con le loro ventate di entusiasmo, di idee, di freschezza, di voglia di fare:

I verdi in Germania federale hanno rappresentato la prima esperienza significativa dopo la seconda guerra mondiale, in cui la sinistra ha potuto uscire dal ghetto, non è rimasta una sinistra inascoltata anche se molto competente e molto preparata, ma ha trovato un rapporto reale con altre componenti sociali e culturali, a volte anche politiche. Ha imparato a fare politica su temi precisi, con un linguaggio e con protagonisti accessibili anche ai non-iniziati, anche a persone che non hanno letto i testi sacri, anche a persone che non vogliono interessarsi sempre di tutto, che non hanno un progetto di società complessivo4.

Questa volontà di intraprendere un dialogo significava, per coloro che provenivano dalle file della sinistra, imparare a mettere in discussione i propri dogmi e non solo ammetterne la critica, ma impegnarsi davvero a

3 Alexander Langer, Perché tanto scandalo a sinistra? È vero, il verde non passa per la cruna

dell’ago rosso, «il manifesto», 26 gennaio 1985.

4 Alexander Langer, Cosa ho imparato dai “Verdi”, in Conservare l'ambiente, cambiare la

politica, Atti del convegno “Un partito/movimento verde anche in Italia?”, Trento, 18-19

capire le ragioni di coloro che li contestavano.

Wer sollte die Apokalypse aufhalten?

Ma oltre all'apertura dei verdi Langer condivideva anche le preoccupazioni di carattere ecologista che ne avevano alimentato la crescita. Gli sembrava anzi che proprio il rapido aggravarsi del degrado ambientale consigliasse un’ulteriore e urgente sovversione delle coordinate ideologiche:

L’allarme per il bosco che muore, i deserti che avanzano, i mari che si atrofizzano, il territorio che si degrada, le risorse energetiche che si sprecano e si sostituiscono con energie incontrollabili, i cibi adulterati, le metropoli invivibili e particolarmente ostili a vecchi, bambini, agli handicappati, le specie animali o vegetali che si estinguono, l'atmosfera che viene inquinata, le acque che scarseggiano e non sono più pulite, le monocolture, l'agricoltura trasformata in campo di applicazione pesante della chimica, la stessa possibilità di manipolazione genetica... Tutto questo, messo insieme all’allarme per la corsa agli armamenti e la reale possibilità di un olocausto nucleare ed alla consapevolezza che milioni di persone muoiono annualmente anche in “tempi di pace” per gli effetti devastanti della normalità fisiologica del cosiddetto sviluppo (fame, malattie, urbanesimo selvaggio, rapina di materie prime, ecc.) provoca una profonda presa di coscienza. […] Sicuramente al fondo della presa di coscienza “verde” sta per molti versi un allarme, un forte bisogno di tirare il freno di emergenza […] decelerando e possibilmente fermando un treno in corsa verso abissi non più tanto lontani.5

La prospettiva della fine del mondo, come possibile esito di un conflitto nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica, si era spostata con la guerra fredda dal campo della teologia a quello delle probabilità. La stessa condizione umana aveva conosciuto così una mutazione priva di precedenti: il potere smisurato di cui l’uomo moderno si era impossessato sembrava ritorcersi contro di lui e la prossimità di un’apocalisse senza Giudizio e senza Salvezza minacciava di sancire, per la prima volta irrimediabilmente, l’assurdità dell’esperienza umana. Ne conseguirono spesso una crescente sfiducia in se stessi, che scoraggiava atteggiamenti

volontaristici, e lo screditamento delle ideologie storiciste che avevano vaticinato la Fine del tempo come era della liberazione dell’uomo da ogni limite, per lungo tempo dominanti.

Sentimenti cupi che, all’inizio degli anni ’80, assalivano con particolare durezza chi era rimasto orfano dell’utopia rivoluzionaria. Ma nel frattempo si era fatta strada la convinzione che evitare il disastro nucleare – militare o anche civile - non sarebbe stato più sufficiente per scongiurare la distruzione del pianeta, dal momento che anche lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, alimento necessario del dinamismo esuberante delle economie mondiali, minacciava di condurre allo stesso esito. E, tuttavia, un simile stato di prostrazione facilitava, in qualche modo, quel processo di scioglimento delle rigidità ideologiche cui Langer invitava a prendere parte. Anche perché «mentre noi compagni della sinistra eravamo abituati a mettere al centro della nostra attenzione politica sostanzialmente la lotta tra le classi e quindi, in qualche modo, tendevamo a vedere l’universo principalmente strutturato intorno alla contraddizione di classe […] probabilmente oggi con più urgenza si affaccia in molte forme la stessa questione della sopravvivenza del genere umano: si affaccia come questione “interclassista” […]. La sopravvivenza del genere umano è un approccio nuovo che in qualche modo tende a mettere in secondo piano la questione della distribuzione delle ricchezze»6. La lotta di

classe smetteva dunque di avere senso di fronte alla prospettiva di una distruzione che avrebbe interessato ogni classe e, in questo senso, ogni altra questione sarebbe dovuta essere subordinata all’impegno ecologista.

Secondo Adriano Sofri, la constatazione che per la prima volta l’estinzione della specie umana, la distruzione della Terra, «non è più competenza remota della storia naturale, ma è essenzialmente un fatto, una competenza della storia umana», poteva condurre addirittura all’estinzione

della «figura del nemico»7: una concezione che, nei termini della lotta di

classe, aveva costituito – tra l’altro - l’elemento dominante delle concezioni della storia ispirate al marxismo. Una simile perdita avrebbe suscitato necessariamente uno stato di profondo smarrimento, perché senza teoria del nemico «[…] non sapremmo più come regolare la nostra vita, non sapremmo più come ragionare, come essere intelligenti, come

6 Alexander Langer, Cosa ho imparato dai “Verdi”, cit.

7 Adriano Sofri, Come orientarsi senza principî e senza nemici?, «Tandem», luglio 1983. Consultabile anche digitalmente sul portale della Biblioteca provinciale di Bolzano Friedrich Teßmann: http://digital.tessmann.it/tessmannDigital/Zeitungsarchiv/Suche

muoversi, come nascondersi, come inseguire»8, ma la presa di coscienza

della futilità dell'inimicizia di fronte alla minaccia della fine del mondo avrebbe potuto dare un respiro del tutto nuovo alla solidarietà del genere umano. Una solidarietà declinata in termini simili a quelli richiamati da Leopardi nella Ginestra (“l’umana compagnia,/ tutti fra sé confederati estima/ gli uomini, e tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta aita/ negli alterni perigli e nelle angosce/ della guerra comune”), ma con una differenza fondamentale: contrariamente a quanto asserito dal poeta, infatti, la catastrofe incombeva sull’umanità non come risultato della malevolenza della Natura, ma come conseguenza dello sfruttamento sconsiderato cui gli uomini stessi l’avevano sottoposta9.

Il dilemma dello sviluppo, la sostenibilità del lavoro

Una simile presa di coscienza era foriera di conseguenze particolarmente destabilizzanti per chi si considerava di sinistra. Se era vero, infatti, che l’inaudita emergenza consigliava di superare i tradizionali confini tra destra e sinistra perché rendeva difficile «l’individuazione di precisi interessi di classe», lo era altrettanto che a minacciare «l’annientamento dell’umanità» erano le conseguenze del progresso tecnologico, cui la sinistra era stata acriticamente votata10. Si trattava di

una rivelazione dalla portata copernicana, che non mancò di suscitare l’ostilità di coloro che non potevano accettare la minaccia che essa rappresentava per la loro visione del mondo o che temevano costituisse il viatico di una svolta conservatrice.

Per Langer e per molti di coloro che ne avevano condiviso i passi, questa scoperta costituì invece la premessa per una revisione profonda – ma non per un rinnegamento - della propria esperienza precedente, che li avrebbe condotti a mettere in questione la validità delle categorie di destra e sinistra o, per meglio dire, di progressismo e conservazione: «bisognerebbe “andare a vedere” se la denigrazione progressista della “conservazione” non si basi anch’essa su una bugia ereditaria: che cioè in fin dei conti le cose (la vita, la società, ecc.) possono solo migliorare. Ma è poi vero che la gente è convinta che col passare del tempo e col progresso

8 Ibidem. 9 Ibidem.

della scienza, della tecnica, dell’industria, ecc., la vita diventi via via più vivibile, più bella, più giusta, più gratificante? Credo che solo gli ideologi incalliti possano rispondere di sì senza esitazione»11. Il relativo successo

dell’ecologismo, del resto, rifletteva proprio questo crescente disincanto rispetto a un progresso concepito come espansione quantitativa della produzione, dei mercati e del reddito, le cui ripercussioni deleterie si manifestavano sempre più visibilmente in termini di inasprimento del dominio, di corsa agli armamenti, di sfruttamento delle risorse, di mercificazione e burocratizzazione di ogni settore della vita12.

Tuttavia le critiche avanzate da sinistra nei confronti dell’ecologismo non erano soltanto di natura ideologica. Infatti il periodo a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 era segnato da una congiuntura economica sfavorevole, che aveva influito negativamente sul potere contrattuale dei lavoratori: era necessario difendere acquisizioni che erano state date precedentemente per definitive e l'occupazione veniva minacciata dall'intensificarsi della concorrenza internazionale e dal progresso della tecnologia, i cui ultimi ritrovati sostituivano spesso il lavoro degli operai. Dal momento che la sinistra aveva sempre riposto fede nella virtuosità della crescita economica, non c’era nulla di strano nel fatto che al suo interno si auspicasse allora una sua pronta ripresa per rilanciare l’occupazione. Alle orecchie di coloro che sostenevano questa posizione, gli appelli degli ecologisti a contrastare l’espansione delle economie, incuranti delle conseguenze che questo avrebbe potuto avere sui lavoratori, suonavano come eresie.

Alexander Langer, alla cui sensibilità non sfuggiva la serietà della questione, si sforzò anche questa volta di cogliere le ragioni di quanti, all’interno dei sindacati e nel movimento operaio, non condividevano la sua conversione all’ecologismo. Cercare di intraprendere un dialogo, invece di stringere i ranghi in preparazione dello scontro campale, significava in questo caso prestare attenzione all’inquietudine degli operai che temevano di perdere il posto di lavoro: «il movimento ecologista […] dovrà fare della solidarietà attiva e fantasiosa con i lavoratori disposti a “finire la guerra” e a “riconvertire l'industria bellica a scopi pacifici” un suo obiettivo di primaria importanza […] L'idea di un globale disegno di

11 Alexander Langer, Quanto sono verdi i conservatori, quanto sono conservatori i verdi, «Alfabeta», ottobre 1985.

12 Alexander Langer, Relazione introduttiva alla prima assemblea nazionale della Liste verdi, FAL, fascicolo 1746.

risanamento del lavoro ed anche di una grande “cassa integrazione verde” perché la collettività si assuma, giustamente, gli oneri di tale riconversione e non li scarichi semplicemente sugli operai che - spesso loro malgrado! - lavorano negli impianti nocivi si fa sempre più strada»13.

Ma, allo stesso tempo, i lavoratori e i sindacati che li rappresentavano avrebbero dovuto capire che era necessario individuare degli obiettivi diversi da quello di uno sviluppo industriale le cui conseguenze disastrose erano sempre più evidenti agli occhi di tutti. Per il movimento operaio si profilava il bisogno di rimettere in discussione l'assioma che una crescita economica sostenuta fosse un presupposto indispensabile per il miglioramento della condizione dei lavoratori e di rivedere la propensione «produttivistica» e l'orientamento fortemente «industriocentrico» che lo caratterizzavano14. Tanto più perché, secondo quanto credeva Langer,

quello che opponeva gli operai e gli ecologisti era in realtà un falso conflitto: lo sfruttamento dei lavoratori dipendeva, infatti, dalla stessa logica implacabile del profitto ad ogni costo che istigava a quello nei confronti della natura. E, dal momento che il degrado dell’ambiente implicava a sua volta il deterioramento delle condizioni di vita e di salute degli operai, cedere al ricatto occupazionale che spesso si celava dietro la tensione tra ecologisti e lavoratori costituiva una scelta certamente comprensibile, ma miope e sostanzialmente autolesionista: «Come possono gli stessi operai chiedere di continuare una produzione o un'attività nociva a loro stessi ed agli abitanti della loro città, ai loro figli, alla gente in generale - ed il tutto, ovviamente, perché qualche impresa e qualche imprenditore ne tragga profitto? O non è questa piuttosto la

massima alienazione che il movimento operaio dovrebbe combattere?»15.

D’altronde degli operai che avessero preso coscienza del fatto che non esisteva alcuna contraddittorietà irriducibile tra le istanze dell’ambiente e quelle del lavoro, si sarebbero trovati in una posizione privilegiata per dare un contributo determinante alla causa dell’ecologia:

13 Alexander Langer, Ecologia e movimento operaio – Un conflitto inevitabile?, «Verde UIL», ottobre 1983.

14 Alexander Langer, Sindacato e limiti della crescita, «Verde UIL», gennaio 1985.

15 Alexander Langer, Ecologia e movimento operaio – Un conflitto inevitabile?, cit. Il tentativo di Langer di avviare un dialogo con il movimento operaio sarebbe continuato negli anni, sollecitando una ricca riflessione. Tuttavia i rapporti tra verdi e i lavoratori della fabbriche sarebbero stati spesso molto conflittuali, come testimoniano i casi della Farmoplant di Massa, dell'ACNA di Cengio e dell'impianto nucleare di Trino Vercellese, documentati dallo stesso Langer: cfr. id., Il bilancio delle catastrofi, «Alto Adige», 5 luglio 1987; e Tra verdi sindacato e

Chi meglio dei lavoratori addetti (e dei loro sindacati) potrebbe informare e mettere in guardia i cittadini e gli ambientalisti, quando una produzione è pericolosa per la salute di chi ci lavora, di chi sta intorno e di chi consuma il prodotto? Quel che la gente e gli ecologisti oggi chiedono ai lavoratori di tutti i settori […] ed al movimento operaio e sindacale organizzato è di essere anche occhi ed orecchi, nasi e gole per conto del “popolo inquinato” e di aiutarlo a difendersi contro gli inquinatori ed i ladri di salute. Di lottare, quindi, per non dover più continuare produzioni nocive ed inquinanti, pericolose ed a rischio.16

In questo modo si sarebbe potuta cogliere un’occasione forse irripetibile per restituire al lavoro le ragioni sociali che andava perdendo: Langer riteneva infatti che i sindacati avessero trascurato l’aspirazione dei lavoratori a conferire ai loro impieghi una significatività sociale ed esistenziale, concentrando sempre più esclusivamente le proprie rivendicazioni sulla redistribuzione del reddito. La stessa adesione della sinistra al dogma della crescita, in ragione del quale si erano subordinate persino molte istanze degli operai al rilancio dell’economia, doveva molto al fatto che si identificasse il benessere con la sicurezza economica, facendone il proprio obiettivo privilegiato: era proprio nel perseguimento di tale obiettivo che erano state talora difese delle produzioni inquinanti. E tuttavia molto spesso a un migliore trattamento economico non era corrisposto il passaggio a forme di lavoro non alienato.

André Gorz che - assieme ad Ivan Illich - costituiva uno dei principali riferimenti teorici del movimento ecologista per questa materia, riteneva che l'alienazione fosse una conseguenza dell’espansione sproporzionata di una sfera produttiva incentrata sull’efficienza ai danni degli spazi dedicati all’autonomia e alla creatività: in questo senso sarebbe servito a poco il fatto che gli operai prendessero il controllo di un sistema che era

comunque intrinsecamente alienante17. L'ulteriore scoperta della necessità

di porre dei limiti alla crescita di fronte alla limitatezza delle risorse naturali poteva allora costituire lo spunto necessario ai sindacati e al movimento operaio per rivedere coraggiosamente la loro concezione del lavoro. Tanto più che ogni arroccamento conservatore era illusorio nel momento in cui il continuo incremento della produttività avrebbe finito in

16 Alexander Langer, Ecologia e movimento operaio – Un conflitto inevitabile?, cit.

ogni caso per sostituire quantità molto consistenti di lavoro umano.

Era proprio con l’intento di invitare a una simile riflessione che la nuova sinistra sudtirolese organizzò a Bolzano il convegno “Arbeit, ade?/Lavoro, addio?” dal 30 settembre al 2 ottobre 1983. Vi presero parte molti ecologisti e sindacalisti provenienti sia dall’Italia che dai paesi di lingua tedesca e la risoluzione finale, redatta da Langer e approvata all’unanimità, invitava proprio a concepire la crisi economica come l’occasione per intraprendere quel cambiamento radicale cui si faceva cenno:

“Lavoro, addio”: per molti queste parole evocano oggi lo spettro della disoccupazione, del licenziamento, della cassa integrazione, delle riduzioni salariali, dell’impossibilità di trovare un lavoro. Ma c’è da evocare anche una speranza. È possibile oggi trarre le conseguenze del processo tecnologico e economico, non mettere più al centro della vita sociale il lavoro salariato per la produzione di beni o servizi per il mercato. […] Aggrapparsi alla difesa di un ordine economico e produttivo che si basa sullo sfruttamento spesso selvaggio di milioni di donne e uomini, di interi paesi e continenti, della natura e dell’ambiente, non può essere la giusta risposta […]. Cresce il numero di persone che non sono più disposte a tenere in vita un carosello distruttivo e autodistruttivo che trascina tutti a

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