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L’indagine si è focalizzata sul Foyer Vignola della Fondazione Amilcare, una piccola realtà ticinese che si propone di accogliere minori che, per svariati motivi, non possono più vivere nella loro famiglia d’origine. Nel capitolo precedente si ha potuto osservare la visione che gli adolescenti hanno in merito alle modalità operative dei propri educatori, attivate per adempire ai 4 standard Q4C individuati. Si è visto come queste sono ritrovabili nei principi teorici e nelle linee direttive seguite dal foyer. In secondo luogo, si è mostrato come i giovani vivono emotivamente i metodi educativi impiegati dai caregivers. Sono scaturiti vissuti per la maggior

parte positivi, tuttavia si sono evidenziate delle difficoltà per alcuni ragazzi in relazione a delle strategie utilizzate.

Dal lavoro compiuto è possibile cogliere degli aspetti a mio avviso fondamentali per chi si relaziona con la fascia adolescenziale, ma non solo, infatti come vedremo in seguito, alcuni di questi sono trasferibili anche in altri contesti.

Seguendo l’ordine degli standard affrontati, un primo punto sul quale trovo importante focalizzarsi è l’armonizzarsi nell’intreccio ragazzo-genitore/i o altri componenti famigliari significativi per il minore. La presa in carico dell’adolescente comprende, inevitabilmente, l’accostarsi anche al suo ambiente d’origine e adattarsi alla situazione che lo ha circondato fino a prima dell’entrata nel CEM. In questo contesto l’educatore deve cercare di trovare il suo posto, equilibrandosi ed equilibrando il mare di emozioni che l’incontro fra genitore e figlio adolescente può far scaturire. Riprendendo un termine indicato dai ragazzi, saper mediare, risulta necessario al professionista per bilanciare le due parti. Inoltre, anche se dalle interviste non traspare, è importante ricordare che persino nelle situazioni apparentemente più fragili, un genitore può apportare qualcosa (conoscenze / competenze su e/o del proprio figlio) al progetto del minore. Riprendendo le parole di Ombretta Zanon (2019) riguardo alla prospettiva bioecologica dello sviluppo umano di Bronfenbrenner, l’esperta riporta che quest’ultimo “(…) mette in rilievo il ruolo prioritario del coinvolgimento attivo della famiglia nell’educazione dei bambini, in base al principio che i genitori conoscono il loro figlio meglio di chiunque altro: sono, quindi, una risorsa paritaria e complementare rispetto agli insegnanti ed ad altri operatori/caregivers nella costruzione/realizzazione del suo progetto di crescita”.

In tal senso si rivela, però, essenziale saper collaborare anche con i non professionisti, mettendo da parte eventuali pregiudizi. Dove possibile, quindi, la ripresa dei contatti famigliari, se perseguita in modo funzionale, risulta essere importante per i ragazzi che, come si è potuto cogliere dalle sensazioni restituite, percepiscono un numero maggiore di persone che tiene a loro e li sostiene. Allargando lo spettro al di fuori della sfera famigliare, il discorso può riferirsi a qualsiasi altro individuo con cui si relaziona un educatore, anche a coloro che non hanno più dei parenti prossimi. La ricerca di diversi sistemi come quello amicale o lavorativo da coinvolgere nel percorso di un ipotetico utente può rivelarsi un aspetto cruciale per allargare la cerchia dei sostegni e apporti esterni.

Altro punto che ritengo importante sottolineare è l’essere trasparenti e veri nella relazione con l’altro, soprattutto con degli adolescenti che hanno perso fiducia nel mondo degli adulti. Presentarsi senza maschere, portando quando opportuno la propria interiorità e storia, come si è visto nel caso dei ragazzi del Vignola, può rivelarsi la porta di accesso più immediata per entrare in comunicazione con i giovani. Correlato a ciò, un altro aspetto che trovo utile portarsi a casa è quello della comprensione e del rispetto quando si entra o si è nella relazione con l’altro. Forse questi concetti possono sembrare scontati, ma nel lavoro con dei minori, che momentaneamente si sono persi, il rischio di far prevaricare il proprio punto di vista perché si è “più grandi e con più esperienza di vita” e di accostarsi in maniera autoritaria è maggiore che con altre utenze. L’adolescente ha bisogno di qualcuno che comprenda i suoi limiti, ma soprattutto le sue potenzialità, che lo veda più come un giovane adulto che sta crescendo, piuttosto che come un ragazzino appena uscito dall’età infantile.

A queste prime due nozioni è possibile ricondurre quella di flessibilizzare il proprio operato adattandolo alla persona con cui ci si rapporta. Abbiamo visto come la stessa modalità comunicativa connotata dalla schiettezza e dall’essere troppo diretti, non produce necessariamente gli stessi effetti per ogni adolescente. Per una giovane in particolare, questa modalità non è stata per nulla apprezzata e l’ha portata, in alcune occasioni, a chiudersi nella relazione con i propri caregivers. È vitale cogliere le persone nella loro unicità e irripetibilità, non solo nell’ambito dell’adolescenza, ma con qualsiasi altra utenza. Ciò può aiutare a non incorrere nell’errore di pensare che se un determinato metodo è risultato funzionale fino a quel momento, allora andrà sempre bene con chiunque e per qualsiasi progetto.

Contrariamente a questo atteggiamento nato per garantire agli adolescenti di esprimersi su qualsiasi aspetto del loro percorso, che la giovane citata prima ha percepito come troppo intrusivo, è emersa un’altra attitudine. Quella che ha interessato due professioniste della rete della stessa ragazza che, in base alle sue parole, non le hanno permesso di sentirsi la protagonista nel suo progetto di crescita. Assicurare alla persona di essere al centro del proprio cammino può portarla ad investire maggiormente in esso e ad una maggiore collaborazione con la rete che dovrebbe essere presente per lei. La mancanza di tale garanzia può addirittura portare all’abbandono del percorso da parte del giovane, risulta vitale che la CE e il responsabile trovino un terreno comune con gli altri professionisti coinvolti, come assistenti sociali, curatori, terapeuti, ecc. Magari compiendo delle riunioni fra professionisti per esplicitare le proprie modalità comunicative e operative o esprimere i propri obiettivi e valori, al fine di trovare una linea condivisa da seguire, per rapportarsi poi con l’utenza e la rete familiare.

Un ultimo aspetto che ho colto come funzionale è lasciare all’adolescente la libertà di

sperimentare, anche facendogli correre il rischio di sbagliare, ma permettendogli di percepirsi

l’artefice di quell’errore e il possessore delle capacità per rialzarsi. In quest’ottica l’educatore deve fungere da guida, esponendosi con autorevolezza e non con autorità; guidare non significa imporsi. Offrendo all’altro la possibilità di compiere delle esperienze, egli può scoprire nuove caratteristiche di sè e l’educatore può farsi sorprendere da esse.

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