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Questo ambizioso progetto prende le mosse dalla stesura del pro- gramma educativo per il perfectus orator. Con esso l’autore intende delineare la formazione dell’intellettuale, protagonista della vita poli- tica della civitas, che avrebbe dovuto presiedere alla ‘rifondazione’ della repubblica, conservandone i valori fondamentali3.

Intende porre l’oratore, il suo oratore, al centro della vita, non solo culturale, ma anche politica di Roma: collocare l’ars dicendi in posizione centrale rispetto alle altre artes, proclamandone la superio- rità dal punto di vista educativo e per la capacità di conferire in- fluenza sociale a chi la pratica. Per questo deve necessariamente fare i conti con altre specializzazioni, con il ruolo di altri sapientes, al- trettanto coinvolti nella vita politica della civitas. Tra questi, i giuri- sti. Il risultato sarà un’inevitabile ridimensionamento del loro ruolo, uno sguardo severo sulla loro disciplina.

Quando si dedica al de oratore l’Arpinate occupa, sulla scena po- litica romana, un ruolo molto diverso rispetto a quello che, come console, rivestiva al tempo dell’oratio pro Murena. Seppure tra le dif- ficoltà e le ombre della sua magistratura e alle prese con la congiura di Catilina, il patronus che aveva declamato in quella circostanza era un uomo all’apice della carriera politica e della fama, consapevole della propria influenza, sebbene alcune nubi si stessero già adden- sando sul suo futuro. Nel 58 era stato costretto all’esilio, dal quale era stato richiamato l’anno successivo4, e al suo ritorno a Roma aveva

dovuto rinsaldare legami e ricostruire rapporti, nella speranza di po- ter ancora dare il proprio contributo a una situazione politica con- 3Sulle finalità politiche della proposta del perfectus orator, per tutti, G. Achard,

Pourquoi Cicéron a-t-il écrit le De oratore, in Latomus, 1987, 46, pp. 318 ss. il quale

(pp. 322 ss.) si sofferma, fra l’altro sull’identificazione, che Cicerone solo sottintende, tra sé stesso e il suo modello di intellettuale. Più di recente, D. Mantovani, Cice-

rone storico, cit., p. 301. Sul punto, si veda anche infra, p. 105 nt. 19. La comples-

sità dell’opera «sintesi della personalità di Cicerone, del suo ideale oratorio, politico, artistico e culturale» – in cui trovano trattazione tutte le questioni relative all’ars

rethorica, all’incontro tra esperienza greca e romana – la rende, agli occhi di B. Ri-

posati, La tecnica dialogica nel de oratore di Cicerone, in Vichiana, 1982, 11, p. 254, un «trattato di retorica integrale».

4K. Kumaniecki, Cicerone, cit., pp. 235 ss. Sull’esilio di Cicerone, recentemente,

C. Venturini, L’esilio di Cicerone tra diritto e compromesso politico, in Ciceroniana, 2009, XIII, pp. 297 ss. A. Guillemin, Cicéron entre le génie grec et le «mos maio-

rum», in REL, 1955, 33, pp. 210 s., osserva come l’oratore, tornato da poco dall’e-

silio, si lasciasse alle spalle le illusioni della gioventù – soprattutto per quanto ri- guarda gli orizzonti politici – ma conservasse «l’énergie de la maturité et la sérénité d’un sage; on le sent en possession d’une autorité et une influence dans lequelles il a pleine confiance».

fusa, indirizzandola, seppure da una posizione più defilata rispetto a quella occupata in passato5. Quando compone il dialogo Cicerone,

quasi ai margini della politica attiva, si dedica con intensità allo stu- dio e alla scrittura, impegni che, come abbiamo già detto, rappresen- tano per lui un’appendice e un completamento dell’azione politica6.

E sono certamente la delusione e il disappunto nei confronti della crisi che sta scuotendo la res publica e la cultura contemporanea, uniti all’amarezza per la parabola discendente imboccata dalla propria per- sonale esperienza politica, a indirizzare la sua elaborazione di un pro- getto culturale di ampio respiro che, sul filo della memoria, mira a proporre per Roma un rinnovamento culturale e civile7.

5Che questo approccio fosse dovuto alla prudenza, a un’innata propenzione al-

l’irresultezza o semplicemente a ragioni di opportunità non interessa qui indagarlo, così come, in generale, non possiamo – ma non lo riterremmo comunque oppor- tuno – prendere posizione sulle motivazioni delle scelte politiche compiute da Ci- cerone, né tentare una valutazione d’insieme del suo operato prendendo le parti del- l’Arpinate o viceversa criticandone l’approccio prima ancora che i comportamenti – una sintesi sulla storiografia che si è occupata dell’autore, e che tiene conto anche di questa prospettiva d’indagine, è stata recentemente operata da A. Castro Sáenz,

Cicerón, cit., part. pp. 43 ss. Dovremmo, forse, a tal proposito, tenere sempre pre-

sente quanto influisca, nella possibilità di approfondimento della personalità politica e intellettuale di Cicerone, la mole di scritti di natura diversa che di lui si sono con- servati. Testimonianze di genere talmente vario e capaci di indagare l’Arpinate da così tante angolazioni (il politico, l’oratore, il filosofo, l’amico o il fratello…) da con- sentire molte – del tutto fisiologiche – possibilità di lettura e altrettante valutazioni. Gestire questa complessità, che forse non ha pari nella storia della letteratura di tutti i tempi, tenendo conto della distanza che ci divide dal personaggio e mantenendo una visione obbiettiva su tutti aspetti è, certamente, una sfida non facile, ma deve, altrettanto sicuramente, essere il parametro di comportamento di ogni interprete.

6 Una significativa descrizione dell’approccio ciceroniano a quegli anni la forni-

sce lui stesso, in una lettera ad Attico, proprio del 55 (ep. ad Att. 4.6.2). Qualsiasi comportamento egli tenga, confida all’amico, rischia di suscitare critiche, tanto che sarebbe probabilmente preferibile che egli si defilasse del tutto dalla vita pubblica. In conclusione, tuttavia, egli ribadisce il suo proposito di non astenersi dal combat- tere: ego vero, qui, si loquor de re publica quod oportet, insanus, si quod opus est,

servus existimor, si taceo, oppressus et captus, quo dolore esse debeo? quo sum scili- cet, hoc etiam acriore quod <ne> dolere quidem possum ut non in te ingratus vi- dear. quid si cessare libeat et in oti portum confugere? nequiquam; immo etiam in bellum et in castra.

7Così E. Narducci, Cicerone, cit., p. 297, il quale osserva, in particolare, come

la memoria rappresenti un leitmotiv dell’intera opera, palese nei proemi nei quali in prima persona l’autore prende la parola anticipando chiavi di lettura e prospettive interpretative. Sulla memoria come argine alla perdita del ricordo delle tradizioni passate che hanno guidato il cammino della civitas e che costituiscono il tessuto con- nettivo di essa, anche nella sua proiezione verso il futuro – un tema caro, non solo a Cicerone, ma anche a Sallustio, Seneca retore, Tacito, Plinio – C. Moatti, Tradi-

I referenti culturali del de oratore sono Platone e Aristotele, ma, come è stato notato, l’atmosfera in cui si svolge il dialogo e le te- matiche trattate risentono ampiamente della sensibilità dell’ottimate romano8. I protagonisti principali del dialogo9, che si immagina av-

venuto nel 91 a.C., sono Marco Antonio e Lucio Licinio Crasso10.

tion, cit., pp. 385 ss., ma, in merito al riferimento al patrimonio culturale come ar-

gine alla crisi dell’ultimo scorcio della repubblica, si veda anche Ead., La construc-

tion du patrimoine culturel à Rome aux Iersiècle avant et Ier siècle après J.-C., in

M. Citroni (a cura di), Memoria e identità. La cultura romana costruisce la sua im-

magine, Firenze 2003, pp. 81 ss. Sul tema della «memoria culturale», fondamentale

J. Assman, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi

civiltà antiche, trad. it. Torino 1997. Sui proemi del de oratore, B. Riposati, La tec- nica, cit., pp. 259 ss.

8 Scrive E. Narducci, Cicerone, cit., p. 301: «impegnati nell’imitazione di una

grecità irrevocabile, i personaggi del De oratore sono parimenti preoccupati di con- servare la dignità di un tono prettamente romano». E ancora B. Riposati, La tec-

nica, cit., p. 258 osserva come sia proprio «questo acceso spirito di romanità che

conferisce anche carattere di ‘novità’ al dialogo». Sul de oratore ciceroniano come modello di opera latina in cui lo sguardo ai modelli greci convive con la rielabora- zione attraverso valori propri della tradizione romana, A. Guillemin, Cicéron, cit. e part. pp. 217 ss. Sullo sfondo delle motivazioni politiche del de oratore (ma an- che del de re publica e del de legibus) a partire dal modello di riferimento plato- nico, G. Reggi, Cicerone di fronte a Platone nei dialoghi politici. De oratore, De re

publica, De legibus, in Id. (a cura di), Letteratura e riflessione filosofica nel mondo greco-romano. Atti del corso d’aggiornamento per docenti di latino e greco del Can- ton Ticino. Lugano 21-22-23 ottobre 1999, Lugano 2005, pp. 97 ss.

9Sulla scelta della forma letteraria del dialogo, sul rapporto tra il de oratore e il

genere manualistico, e su quello tra il de oratore e il de inventione – l’opera giova- nile e incompiuta ma che può ricondursi proprio al manuale –: E. Narducci, Ci-

cerone e l’eloquenza, cit., pp. 28 ss. Allo specifico tema della forma dialogo nel trat-

tato sull’oratore, B. Riposati, La tecnica, cit., pp. 254 ss., il quale osserva come Ci- cerone si ponga in ideale continuità con i precedenti greci dei dialoghi platonici e aristotelici, pur riversando nell’opera la propria grande esperienza letteraria e reto- rica. Come osserva E. Narducci, Cicerone, cit., p. 299, sebbene il de oratore non sia la prima opera dialogica in latino, essa, per l’impianto e il modo in cui venne concepita, dovette essere fonte di sorpresa per i lettori contemporanei.

10Hos oratores fuisse maximos et in his primum cum Graecorum gloria Latine

dicendi copiam aequatam, dice Cicerone riferito a Crasso e Antonio nel Brutus

(36.138). Sono loro il momento culminante della storia dell’eloquenza romana. Per la descrizione dell’eloquentia di Antonio e Crasso, si veda Brut. 37.139 ss. Su Marco Antonio, E. Klebs, s.v. Antonius (28), in RE I-2, cc. 2590 ss.; su Licinio Crasso, Ch. Walde, s.v. Licinius I 10: L. Crassus L., in Der neue Pauly, 7, cc. 158 s. Sui rapporti di Cicerone con l’oratore, ma anche con il giurista, nella particolare pro- spettiva dell’influenza politica (ma anche culturale) che essi esercitarono su di lui, E. Rawson, Lucius Crassus and Cicero. The Formation of a Statesman, ora in Ro-

man Culture and Society. Collected papers, Oxford 1991, pp. 16 ss. e in particolare

Nelle idee di quest’ultimo la dottrina ha generalmente identificato il punto di vista di Cicerone stesso: a dimostrarlo sarebbe, come sap- piamo, la consonanza tra la posizione delineata in prima persona dal- l’Arpinate in de or. 1.6.2011e le idee fatte esprimere da Crasso stesso

nel corso del dialogo in merito alla necessità di una formazione po- liedrica per l’oratore. Se è quindi certo che a quest’ultimo spettasse di incarnare la prospettiva ideale dell’autore, è ormai opinione con- divisa che anche Antonio lo rappresentasse esprimendone la coscienza critica.

È in effetti dal confronto e dall’incontro delle molteplici voci che si levano dal dialogo che possiamo ricostruire la sfaccettata visione ciceroniana sul panorama culturale dei suoi tempi12. Crasso e Anto-

nio, in effetti, non sono soli. Attorno a loro intervengono, per lo più con funzione di incitamento al dibattito, altri personaggi: Quinto Mu- cio Scevola l’Augure13, Gaio Aurelio Cotta, Publio Sulpicio Rufo,

11Ac mea quidem sententia nemo poterit esse omni laude cumulatus orator, nisi

erit omnium rerum magnarum atque artium scientiam consecutus. Etenim ex rerum cognitione efflorescat et redundet oportet oratio; quae nisi subest res est ab oratore percepta et cognita, inanem quandam habet elocutionem et paene puerilem.

12Da ultimo, sul punto, D. Mantovani, Cicerone storico, cit., p. 327. In questo

senso E. Narducci, Introduzione, cit., p. 120, pur ribadendo che Cicerone affida soprattutto a Crasso il compito di farsi portavoce delle proprie idee, nota come ad Antonio venga assegnato il compito di «compensare gli slanci talora utopici di que- st’ultimo con elementi di scettico realismo, di salutare e pragmatico buon senso» ca- paci di riportare nella discussione uno sguardo obbiettivo sullo stato dell’eloquenza romana. Ancora più apertamente, lo stesso Autore (Id., Cicerone, cit., p. 308) os- serva, in modo assolutamente efficace e condivisibile, che «Cicerone non ha tanto inteso fare di Antonio e di Crasso i portavoce di opposte visioni dell’eloquenza, quanto ripartire tra loro le diverse coloriture delle proprie stesse opinioni» – in que- sto aiutato anche dalla tecnica della disputatio in utramque partem tra i protagoni- sti del dialogo, che «corrisponde alla renitenza di Cicerone ad attestarsi su posizioni dogmaticamente isolate» (p. 304). Secondo C. Moatti, Tradition, cit., p. 430, «les trois protagonistes du de oratore expriment l’embarras de Cicéron: Scaevola incarne la tradition orale et juridique, Antoine le réalisme de l’époque, Crassus les utopies du rationalisme». L’incontro tra la dimensione reale e la dimensione ideale (rappre- sentate dai due personaggi principali) simbolizza, secondo A. Michel, La pédago-

gie, cit., pp. 73 ss., il modello platonico di educazione per il quale l’individuo con-

creto si forma in relazione a un ‘tipo’ astratto. Si tratta dell’ideale della persona che, ad avviso dell’autore, è il cuore della finalità educativa del de oratore, in cui si in- carna un «humanisme personnaliste». Sulla strategia persuasiva dell’opera, J. Hall,

Persuasive design in Cicero’s de oratore, in Phoenix, 1994, 48.1, pp. 210 ss.

13Sul rapporto tra Cicerone e il giurista, dal quale, probabilmente ormai più che

settantenne – ma la data di nascita è incerta: per le diverse proposte (170 a.C., un decennio prima o uno dopo) e la relativa bibliografia si rinvia R. Bauman, Lawyers

Quinto Lutazio Catulo e il fratellastro Caio Giulio Cesare Strabone Vopisco. Come è noto, Crasso è il campione della cultura universale, è lui a sostenere che omnem doctrinarum harum ingenuarum et hu-

manarum artium uno quodam societatis vinculo contineri (de or.

3.6.21), deluso nel constatare come la grandezza dell’oratoria – e di altre discipline – fosse stata ridimensionata dallo sfaldamento del pa- trimonio intellettuale in tante partes (de or. 3.33.132)14. Prima che ini-

ziasse a farsi strada un modello educativo costruito sulle specializza- zioni, egli nota, l’educazione romana prevedeva l’apprendimento di molte discipline, consentendo di forgiare uomini eccezionali, che po- tevano essere consultati su molte questioni. Ne sono esempi, secondo Crasso, personalità quali Sesto Elio, Manio Manilio, Publio Crasso, Tiberio Coruncanio, Publio Cornelio Scipione Nasica, e, al di sopra di tutti, la figura paradigmatica di Catone, capace di unire in un solo uomo l’esperienza del giureconsulto e dell’oratore15. Gli uomini di

cultura suoi contemporanei, invece, non sanno comprendere, secondo Crasso, il legame che unisce tutte le scienze (omnium vero bonarum

artium, denique virtutum ipsarum societatem cognationemque): i giu-

risti non ritengono più necessario apprendere tutta la scientia iuris

rudimenti di diritto (Lael. 1.1), si veda, ancora, R. Bauman, op. ult. cit., p. 313; M. Bretone, Tecniche, cit., pp. 67, 71 s.; E. Narducci, Cicerone, cit., p. 34, il quale fornisce una suggestiva ricostruzione delle personalità intellettuali a cui Cicerone fu affidato dal padre dopo la morte di Crasso nel 91. Tra queste, Quinto Mucio l’Au- gure e il cugino Pontefice, nella cui cerchia il futuro oratore ebbe modo di cono- scere Tito Pomponio Attico e Servio Sulpicio Rufo. Sul punto, inoltre, M. Fuhr- mann, Cicero, cit., pp. 23 s., 51, e A. Castro Sáenz, Cicerón, cit., pp. 201 ss. In generale sulla vita e la carriera di Mucio, W. Kunkel, Herkunft, cit., p. 14; R. Bau- man, Lawyers in Roman Republican Politics, cit., pp. 312 ss.; D. Mantovani, Iuris

scientia, cit., pp. 647 s. Sul ruolo di Scevola nel dialogo torneremo più avanti (infra

pp. 160 ss.).

14E. Narducci, Cicerone e l’eloquenza, cit., pp. 68 ss.; Id., Le risonanze, cit.,

pp. 536 ss. Nell’introduzione al II libro Cicerone osserva come gli stessi protagoni- sti del dialogo basassero la loro oratoria su una formazione erudita, ma la celavano ai più per evitare di attirare su di sé la diffidenza che i concittadini tradizionalmente nutrivano nei confronti di un’educazione troppo ampia che avrebbe costretto a tra- scurare gli impegni civili e politici (part. de or. 2.1.4): sappiamo peraltro che l’Arpi- nate attribuiva a Crasso e Antonio un’ampiezza di orizzonti culturali della quale, probabilmente, non disponevano. Sul punto E. Narducci, Introduzione a Cicerone, 3a ed., Roma-Bari 2010, 124; Id., Cicerone e l’eloquenza, cit., pp. 24 s.; Id., Cicerone,

cit., pp. 28 s. (pp. 27 s. per le fonti che Cicerone avrebbe usato e manipolato sulla cultura di Antonio), 297 s.

15Su questi ritratti si veda più avanti (infra pp. 153 ss.). Sull’ideale ciceroniano

di un’educazione tendente all’universale A. Michel, Cicéron et les problèmes de la

(ne eius quidem universi…), tanto che non studiano più il diritto pon- tificale che ne è una parte necessaria16, e gli oratori non sanno andar

oltre il vaniloquio (de or. 3.33.136)17. Egli auspica, dunque, che la pa-

dronanza di molti saperi (de or. 1.5.18)18 si concretizzi nella figura

dell’oratore ideale: … sed eum virum, qui primum sit eius artis anti-

stes, cuius cum ipsa natura magnam homini facultatem daret, <da- tor> tamen esse deus putatur, ut et id ipsum quod erat hominis pro- prium, non partum per nos, sed divinitus ad nos delatum videretur19.

Al perfectus orator rivendica il dominio su «ogni attività che si esprima con le parole»20.

All’opposto, Antonio, con tono a tratti anche apertamente cri- tico21, contesta la possibilità che un oratore possa far sue molte com-

16L’affermazione instaura un sottile legame con la riflessione sul rapporto tra la

carica sacerdotale e la preparazione necessaria ad essa da un lato, e munus giuri- sprudenziale dall’altro, svolta da Cicerone nel de legibus – infra pp. 214 ss.

17 Sul ‘causidico ciarlone’, a cui il modello di Crasso si contrappone, V. Bon-

sangue, Canina eloquentia. Cicerone, Quintiliano e il causidico strillone, in Pan 2005, 23, pp. 131 ss.

18Tenenda praeterea est omnis antiquitas exemplorumque vis neque legum ac iu-

ris civilis scientia neglegenda est.

19 de or. 1.46.202. Ma si vedano anche de or. 1.5.16 ss., 3.20.74 ss. Sulla figura

dell’oratore ideale, P. MacKendrick, Cicero’s ideal Orator. Truth and Propaganda, in CJ 1947-1948, 43, pp. 339 ss.; B.B. Gilleland, The development of Cicero’s Ideal

orator, in C.J. Henderson (a cura di), Classical, medieval and Renaissance studies in onor of B. L. Ullman, Roma 1964, pp. 91 ss.; E. Narducci, Introduzione, cit.,

pp. 128 s.; Id., Cicerone, cit., pp. 313 ss. (ma si veda anche Id., Cicerone e l’elo-

quenza, cit., pp. 68 ss.), il quale osserva come il ritorno all’unione tra le scienze nella

figura dell’oratore dovesse avvenire, secondo Crasso, all’ombra delle filosofie acca- demica e peripatetica. Lo stesso Cicerone era consapevole dell’impossibilità di ri- proporre l’originario modello dell’unità dei saperi e prospettava, attraverso un para- digma riconducibile all’‘enciclopedismo’ di matrice ellenistica, di «ristabilire la reci- proca comunicazione tra le diverse artes venuta meno a causa della progressiva spe- cializzazione dei saperi» (p. 315), nella figura dell’oratore. Lo scopo era quello di forgiare un intellettuale dotato dell’auctoritas necessaria a tutelare, sulla base del mo- dello Romano, istituzioni e tradizioni (così ancora E. Narducci, loc. ult cit.): le sue competenze dovevano ruotare attorno alle artes di riferimento, quali l’oratoria, il di- ritto e la politica. Si vedano sul punto anche E. Romano, La capanna e il tempio:

Vitruvio o dell’architettura, Palermo 1990, part. p. 76; M. Bretone, Tecniche, cit.,

p. 86. Sull’idea ciceroniana di una superiorità dell’oratoria rispetto alle altre artes ci-

vicae, si veda anche E. Narducci, Gli slogans della pace, cit., part. pp. 171 ss. Al

fatto che delineando il perfectus orator Cicerone pensasse a se stesso abbiamo già fatto cenno, supra p. 100 nt. 3.

20L’espressione è di A. De Vivo, Le leggi e l’uso della storia nella riflessione di

Cicerone, in Paideia, 2000, 55, p. 185.

21de or. 2.10.40. E. Narducci, Introduzione, cit., p. 117 (ma si veda anche Id.,

petenze e considera il modello tratteggiato da Crasso più consono alle aule di retorica che ai tribunali (de or. 1.18.80-81); pensa che al- l’orator siano sufficienti conoscenze generiche riguardo ai diversi sa- peri, senza la pretesa di poterli realmente padroneggiare (de or. 1.50.218:

neque ea ut sua possedisse, sed ut aliena libasse). A suo avviso, e que-

sto è interessante nella nostra prospettiva, le facultates che presiedono alle varie specializzazioni sono diversae e seiunctae (de or. 1.49.215), e, con specifico riferimento alla capacità di optime dicere, osserva come chiunque possa aver appreso i rudimenti della retorica senza essere, solo per questo, un oratore (de or. 2.9.37).

Si tratta, è più che evidente, di due posizioni contrapposte, a tratti inconciliabili22, a cui corrispondono, da un lato l’immagine al tempo

stesso nostalgica e ideale di un oratore capace di incarnare il modello

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