Gabriella Ripa di Meana
“La scienza”, disse, “in un secolo/ ha fatto progressi enormi./ Tu non te n’accorgi:
dormi”./ Lo guardai di sbieco./ Io, povero australopiteco.
Caproni (1991), p. 897
Non è stata la pandemia a farmi adottare la pratica delle sedute analitiche via Skype. Sono trascorsi quasi dieci anni da quando ho scelto di attuare il passaggio della mia clinica quotidiana dallo studio allo schermo. Insomma tengo a dichiarare subito che non ho patito alcuna costrizione: ovvero niente e nessuno mi ha obbligata a lasciare la mia stanza di analisi dove, per più di trent’anni, ho ricevuto le persone che mi hanno rivolto una domanda di cura. Dunque ho scelto liberamente di imboccare questa nuova strada. La pandemia, d’altro canto, dieci anni fa era di là da venire.
Tuttavia i tentativi in tal senso cominciavano a spuntare da più parti nel mondo. Prove spesso titubanti, ma a volte orgogliose e intraprendenti.
Siamo immersi nell’era digitale, segnata dall’influenza di tecnologie che consentono il transito tra esseri umani di informazioni e di comunicazioni in tempo reale, qualsiasi distanza li separi, plasmando e modulando pensieri, emozioni, azioni e relazioni, a livello individuale e collettivo. Così anche i rapporti di cura sono stati coinvolti dalla rivoluzione digitale. Si
è diffusa e si è praticata la cosiddetta “telesalute” (telehealth) affidata all’uso di calcolatori, tablet e smartphone come strumenti di accesso a servizi medici e psicologici in remoto, capaci tra l’altro di moltiplicare le risorse dell’ormai tramontato telefono.
Quanto a me potrei enumerare alcuni motivi pratici per cui un simile passo si rendeva, ai miei occhi, sempre più giustificabile.
E lo farò. Li elencherò, sebbene non li ritenga la causa di quello che definisco senz’altro un desiderio. Con il limite di essere il mio desiderio.
Intanto, vivendo in una grande città, avevo constatato a più riprese come raggiungere lo studio di un analista fosse un’autentica impresa di traffico e di cattivi umori. Infatti il tempo dedicato a un viaggio di questo tipo non è, in alcun modo e in alcun senso, un tempo propizio allo svolgersi delle sedute; né è propizio a che qualcosa di inatteso arrivi nel discorso del soggetto, riuscendo perciò a raggiungere, modificandolo, l’orecchio di chi ascolta. Infatti il traffico urbano – in particolare quello degli ultimi vent’anni – è diventato sempre di più palestra di impulsi screanzati, brutali e persino, a tratti, sanguinari. Il che tende a provocare, di risulta, circuiti ossessivi compulsivi che si pongono al servizio delle più scadenti resistenze. In breve: avevo a più riprese notato che le persone approdavano nella mia stanza d’analisi spesso esauste, in ritardo, nonché interiormente coinvolte, piuttosto che nel disagio (più o meno) rivolto all’appuntamento con l’analisi e con l’analista, nell’imbarazzo di altri appuntamenti o trascurati o addirittura mancati per poter onorare la seduta. Per non dire del fatto che troppo spesso bisognava superare un muro di malumori di transfert genericamente alimentati dalla rabbia dovuta alle fatiche dello
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spostamento e, in certi casi, del parcheggio. Nulla che francamente mi sembrasse fruttuoso o evocativo per il lavoro dell’inconscio.
Ora, sebbene da tempo non sentissi più necessarie le tre o quattro convenzionali sedute settimanali, il mio ritmo di ascolto e le conseguenze del transfert mi inducevano ancora a incontrare – non sempre, ma per lo più – i miei analizzanti a distanza di due, tre o al massimo quattro giorni. Quindi troppo di frequente per la vita convulsa e sovraccarica d’impegni di una persona comunemente implicata nel prestazionismo efficientista della nostra civiltà. E, nominando la nostra convulsa società della prestazione, suggerisco una breve citazione al riguardo:
un malessere che permea la nostra esistenza nella civiltà tecnica con una sensazione crescente di insostenibilità. Questo sentimento non può essere separato dalla consapevolezza che la nostra “società” è caduta in uno stress da autoconservazione che ci richiede prestazioni straordinarie (Sloterdijk, 2011, p. 12).
Aggiungo che c’è un altro dato di realtà non più trascurabile: le persone che lavorano hanno solo di rado delle sedi fisse (viaggiano spesso e accade che si spostino a vivere, per lunghi periodi, all’estero). Inoltre hanno sempre meno degli orari stabili (per turni di lavoro e per problemi familiari conseguenti, ma anche indipendenti). C’era stato perciò un tempo in cui analoghi intralci alla linearità delle multiple sedute settimanali, possibilmente sempre alla stessa ora, venivano cupamente interpretati come resistenze; oppure accadeva che persone in analisi si vedessero obbligate, lungo il proprio cammino, a lasciare l’analista che avevano scelto ed erano ancora disposte a scegliere; oppure, in alternativa – per non perdere l’analisi,
magari sollecitati dalle interpretazioni in tal senso dell’analista – poteva persino capitare che rinunciassero all’occasione di lavoro.
Così, essendo piuttosto contraria, sulla base della mia lunga esperienza, a interpretare (per liquidare) come resistenza nel transfert e di transfert tutto quanto si frappone a un andamento lineare e prevedibile del cosiddetto setting analitico, ho provato a intendere ostacoli di questo tipo come dei suggerimenti inviati dalle esigenze dell’attualità. Attualità a cui ritenevo, come analista, di dover prestare umilmente attenzione. E attenzione non di certo per adeguare il taglio dell’ascolto e dell’intervento analitico alle ultime tendenze della modernità, ma piuttosto per il contrario. Ovvero per affrancare l’atto analitico dalle sue fissità cerimoniali, come dalle sue tecniche del sospetto “paranoico” e dai suoi protocollari luoghi comuni.
Del resto, è noto come ogni scuola abbia ritenuto di congelare alcune regole, considerate ineludibili, per far individuare il proprio indirizzo come l’unico autentico psicanalitico. E mi riferisco non solo alle sedute a tempo cronometrato dei postfreudiani, ma anche a quelle a tempo-razzo delle scuole lacaniane; non solo al sistema d’interpretazione capillare e persecutoria dei kleiniani, ma anche a quello fatto di puri significanti degli emuli di Jacques Lacan. Taccio di altre cerimonie di varia provenienza scolastica che, nel corso del tempo, hanno fatto dell’esperienza analitica esattamente l’opposto di quello che era nata per essere. L’hanno (a mio parere) progressivamente ridotta a un’esperienza artefatta: sacra per alcuni e, per altri, essenzialmente ridicola.
Riconosco che anch’io non sono stata indenne dalla pratica di alcuni di questi artifici e liturgie, tuttavia mantenevo viva (e nel tempo sempre più viva) l’idea che il lavoro analitico dovesse
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procedere per via di levare. Ovverosia levando man mano ogni ingombro che si interponesse all’ascolto del soggetto dell’inconscio nei suoi sintomi, nei suoi lapsus, nei suoi sogni e nel suo oblio. E gli ingombri mi pareva provenissero soprattutto dalle suscettibilità confessionali del setting, ossia dall’insieme di riti superflui che ci eravamo abituati a ritenere imprescindibili per comprendere, per smascherare, per curare.
D’altro canto è stata proprio la mia esperienza a insegnarmi che un’analisi deve fare conti davvero ardui con quanto le convenzioni vanno sclerotizzando non solo nella lingua, ma anche nell’anima, di ciascuno (analizzante e analista incluso). È perciò che ci spetta il compito di procedere (lo abbiamo imparato da Freud) per via di levare. Citando Leonardo, Freud scrive:
La pittura opera “per via di porre”: essa applica piccole masse di colore dove prima non c’erano, sulla tela incolore; la scultura, per contro, procede “per via di levare”, ossia toglie dal blocco di pietra quel tanto che copre la superficie della statua in esso contenuta […]. La cura analitica non vuole sovrapporre né introdurre alcunché di nuovo, bensì togliere via, far venire fuori (Freud, 1904, p. 432).
Seguendo questa linea, oggi mi trovo a pensare che non ci resti di meglio che scolpire l’insieme analizzante/analista, eliminando da esso tutta la concrezione di pregiudizi che suggestionano il lavoro e lo ostacolano. Penso, quindi, che un’analisi nuova (non affetta da patetico epigonismo) dovrebbe ridurre il suo atto al nòcciolo, all’essenza, dei grandi insegnamenti originari. Oggi, viceversa, è costretta a farsi largo in un mare di enunciati che tendono a bloccare il libero corso delle enunciazioni. Mentre
dovrebbe scavare nel blocco dei luoghi comuni (di cui lo stesso analista rischia di essere complice anche attraverso le sue regolamentazioni corazzate) lo spazio per ospitare quello straniero che è l’inconscio.
Ho fatto l’esperienza di come, al fine di levare simili impalcature, sia necessario e davvero ostico distogliere la domanda del soggetto, che ci ha scelto, dagli imperativi della cura medica (unico modello di cura legittimato, da cui promana - in questa temperie come non mai - un autentico indottrinamento soggettivo). Supposizione di sapere, rilevanza esclusiva della comunicazione, calcolo dei risultati, benessere a qualsiasi costo…
e soprattutto a scapito di una conoscenza alternativa e di una verità soggettiva enigmatica o complessa. D’altronde a tutto questo non si è piegata soltanto la medicina ma, anche e non meno, una gran parte della psicologia comune.
Allora: il tentativo di dissolvere un simile scudo protettivo è il primo lungo passo a cui un’analisi deve sottoporre l’attuale domanda di cura. Ma perché tale prova sia possibile è indispensabile che un analista si disfi dell’immutabilità di quei dispositivi che rischiano di fare dell’atto analitico una pratica medica o assistenziale come un’altra. A mio parere:
l’eliminazione di tutto questo e la riduzione dell’incontro analitico alla parola (parola dell’analizzante, parola dell’analista, parola dell’Altro) è uno dei compiti a cui si consacra la fine del ricevimento di persona nel proprio studio professionale e l’introduzione, al suo posto, di un semplice, essenziale, schermo.
In tal modo (constato) il piccolo altro, l’interlocutore immaginario, può ridurre il suo spazio, lasciando che erompa l’Altro, il grande assente: «l’Altro come mistero, l’Altro come
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seduzione, l’Altro come eros, l’Altro come desiderio, l’Altro come inferno, l’Altro come dolore» (Han, 2016, p. 7).
Ciò detto, è indubitabile che l’analisi con Skype abbia dei difetti.
Ma c’è un’analisi che non abbia difetti, ovunque si svolga? Basta forse passare una vita in poltrona dietro a un divano, iscritti in uno studio possibilmente elegante e borghese, per credere che analisi ci sia? Penso proprio di no. Infatti, il rischio che analisi non ci sia si corre ogni momento. E un analista leale lo sa, perché di un’analisi conosce le vicissitudini e le contraddizioni. Peraltro:
non le conosce soltanto, ma le sperimenta sulla propria pelle.
Perché è la sua integrità e quella dell’altro che ogni volta sono in gioco. E non si tratta della fedeltà a una dottrina, ma di una sfida sul campo, difficile e affatto scontata. Eppure mi sento di insistere sulla testimonianza che l’analisi con Skype ha anche l’interessante pregio di ridurre all’osso gli orpelli immaginari dell’incontro.
In direzione opposta si copre le spalle, con il consenso dei più, Gillian Isaacs Russell quando fonda – in compagnia, appunto, di parecchi altri autori psicanalisti – la seduta d’analisi su una sbalorditiva (a mio parere) comunicazione corpo a corpo. E su questa linea tiene duro sostenendo come sia «difficile negare, in termini generali, che a livello sia individuale sia collettivo stiamo dimenticando che le modalità tecnologiche di comunicazione sono generalmente più limitate della comunicazione in presenza fisica dell’altro» (Isaacs Russell, 2015, p. 19). Dunque questa autrice svela, fin dalle prime pagine del suo libro, il proprio punto di vista su quella che per lei (e per molta parte degli analisti americani) è la psicanalisi, chiamata del resto – come oggi è comune fare, e non solo negli Stati Uniti – psicoterapia. La Russell ritiene che il cuore di una pratica analitica (in realtà:
psicoterapeutica) sia la comunicazione e, per di più, espletata corpo a corpo. Ora tutto questo è esattamente ciò che io non penso. E non lo penso intanto perché ho imparato dai miei studi (Freud e Lacan quali maestri di elezione, ma non soltanto) a pensare che un’analisi sia proprio il contrario di un’esperienza di comunicazione tra due io, preoccupati di farsi capire con i loro discorsi e magari con il linguaggio volontario e involontario dei loro corpi. Ma non lo penso anche e soprattutto perché ho imparato dal lavoro quotidiano con i miei analizzanti come i cosiddetti “momenti di comunicazione” – che pure ci sono e non sono neanche pochi – si rivelino quelli in cui i reciproci sintomi di transfert impazzano e per lo più alla cieca. Non ne parliamo dei momenti (che conosco e apprezzo ancora meno) in cui si verificherebbe una sorta di corpo a corpo. Ora, in altri termini, tutte queste eventualità vanno prese e intese come dei veri e propri sintomi da cui un buon lavoro analitico non può pensare di rimanere indenne. Però neanche credo che possa farsene un vanto identitario e per di più irrinunciabile.
Comunque mi rendo conto di come, a simili condizioni e con tali premesse teorico-cliniche, il passaggio dallo studio di analisi allo schermo di Skype diventi impraticabile, salvo che per motivi di stretta realpolitik. Intendo dire al mero scopo di non perdere la domanda dei pazienti, vessati come sono dalle pretese
“materiali” (logistiche, economiche, e, da un po’ di tempo in qua, persino virali) della loro vita.
E a questo fine mi pare si ispirino le linee guida che l’International Psychoanalytical Association (IPA) ha pubblicato nel 2014, mettendo a punto un codice dedicato all’uso dell’analisi a distanza (remote analysis) nel training di formazione
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degli analisti, aggiungendo poi ritocchi e correzioni negli anni seguenti:
Nella psicoanalisi a distanza analista e paziente non sono nella stessa stanza. Può essere condotta per telefono o per mezzo di tecnologie VoIP [tramite protocollo Internet] (con o senza una webcam) come, per esempio, Skype, GoToMeeting, eccetera.1 In aggiunta, nel 2017, la suddetta casa madre internazionale della psicanalisi freudiana pubblica un altro documento online dedicato al tema,2 sottolineando come l’analisi (la vera, l’unica, analisi?) sia condotta di norma e preferibilmente «in presenza in una stanza», mentre altre forme di pratica analitica dovrebbero essere messe in campo solo in circostanze eccezionali. Per esempio: un’analisi che si intenda continuare in remoto dovrebbe cominciare in presenza e l’analista dovrebbe incontrarsi fisicamente col paziente quanto più spesso possibile o almeno una volta all’anno.
Ora propongo di notare come in testi del genere, piuttosto che far fronte a un difficile nodo – che si è andato stringendo tra una grande esperienza clinica e teorica (come quella analitica) e le altrettanto grandi metamorfosi della nostra civiltà – ci si intrattiene con puntiglio conservatore sulle regole di funzionamento di un’associazione, schiacciata fin dalle sue
1 Dal sito web della “International Psychoanalytical Association”. Link:
https://www.ipa.world/IPA/en/IPA1/Procedural_Code/IPA_Policy_o n_Remote_Analysis_in_Training.aspx.
2 Dal sito web della “International Psychoanalytical Association”. Link:
https://www.ipa.world/IPA/en/IPA1/Procedural_Code/Practice_Notes/O N_THE_USE_OF_SKYPE__TELEPHONE__OR_OTHER_VoIP_T ECHNOLOGIES_IN_ANALYSIS.aspx.
origini su protocolli ispirati a un epigonismo identitario, fondamentalmente difensivo. Ciononostante persino l’IPA ha dovuto riconoscere, sia pure con molte cautele, che l’analisi a distanza è un metodo così diffuso da esigere ormai studi e ricerche orientate in tal senso.
Del resto, già nel 2010 lo psicanalista argentino Ricardo Carlito osservava che molti analisti nel mondo proseguivano o anche iniziavano trattamenti psicanalitici per telefono o con altri strumenti di comunicazione. Carlito fu tra i primi, però, ad avere il coraggio di proporre questa modalità come un vero nuovo metodo formalizzato (cfr. Carlito, 2010). Quattro versi di Antonio Machado posti in esergo indicavano bene la sua posizione: «Viandante, le tue orme/ sono il cammino e niente più;/ viandante, non c’è cammino:/ il cammino è fatto del tuo stesso andare» (Machado, 1912, trad. mia).
In anni recenti Jill Savage Scharff ha curato la redazione e la pubblicazione di quattro volumi dedicati a Psychoanalysis online (cfr. Scharff, 2013; 2015; 2017; 2019) raccogliendo i contributi sul tema di molti psicanalisti e l’interesse di autori e clinici come Christopher Bollas il quale a sua volta, da anni, pratica l’analisi esclusivamente con Skype. Naturalmente nell’opera della Scharff sono esaminati vantaggi e svantaggi di questo dispositivo in un quadro sia teorico-clinico che etico. Per esempio: la tecnologia viene spesso considerata come “un terzo”
nell’alleanza terapeutica e il suo impatto è analizzato come ogni altro elemento in campo. Il tema scottante della distanza o meno indotta dalla cosiddetta teleanalisi mette a confronto esperienze e idee diverse e interessanti. Il che vale altrettanto a proposito della tormentata questione dei risultati: nella fattispecie, tra quelli in presenza e quelli in remoto.
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Ricordato brevemente tutto questo (senza alcuna pretesa di esaurire il tema, oggi più che mai, in fermento), desidero esporre alcune delle premesse teoriche che hanno ispirato e ispirano la mia scelta di ricevere i pazienti attraverso lo schermo, che d’altronde non uso – salvo molto raramente – come luogo per un incontro vis-à-vis. Espletato infatti il saluto reciproco, oscuro lo sguardo sia dell’analizzante che il mio, orientando la telecamera su una parete della mia stanza di studio. Si rientra entrambi nel video solo per il saluto di congedo e la definizione dell’appuntamento seguente. Lo spazio della parola è salvaguardato, il corpo a corpo evitato.
Segnalo su questo punto la diversa esperienza di Benjamin Kilborne (psicanalista dell’IPA) il quale – nel sito in cui presenta se stesso ed espone il passaggio della sua pratica a Skype – non solo premette che Skype offre «uno straordinario mezzo per praticare l’analisi»; ma aggiunge che «convenzionalmente la psicanalisi viene praticata senza il contatto visivo, ma con la presenza; mentre la psicanalisi con Skype viene praticata con il contatto visivo, ma senza la presenza».3
Dal mio punto di vista viceversa il rito di accogliere, all’inizio, lo sguardo reciproco per poi eliminarlo (allo scopo di dare spazio alla dimensione dell’incorporeo) fino a ritrovarlo nel momento del saluto, non ha solo la funzione di recuperare il salto introdotto dall’originaria pratica del lettino, ma anche quella di favorire libera associazione e silenzio nell’alternarsi della presenza e dell’assenza.
3 Dal sito web “Skype Psychoanalysis” del Dr. Benjamin Kilborne. Link:
http://www.skype-psychoanalysis.com/Skype-Psychoanalysis/About_Dr._Kilborne.html.
Tornando alle premesse teoriche di tale passaggio mi sento di dichiarare che con l’andare degli anni, il mio sistema di
“certezze” in merito alla cura e alla dottrina analitica si è andato man mano sgretolando. Pertanto mi resta soltanto la certezza di voler fondare la mia pratica sull’incertezza. Ritengo infatti che in essa – per i dubbi che solleva, per la produzione costante di interrogativi sempre nuovi, sempre antichi e ogni volta sorprendenti a cui lascia libero il campo – risieda uno dei nuclei più incandescenti dell’ascolto e dell’intervento nella cura. Perciò penso che la presa di coscienza profonda dei nostri limiti ci consenta di accogliere con interesse e curiosità anche i limiti delle nostre abitudinarie sicurezze, fondate su postulati troppo rigidi e ingombranti rispetto allo scorrere del tempo con le sue nuove domande e il suo bisogno di sorprese e di flessibilità.
Questa riflessione può apparire facile da esporre, ma in verità è molto controversa da tollerare nel corso dell’esperienza di ciascuno.
Lavorare su di sé, indagare, analizzarsi è servito troppo spesso a consolidare verità acquisite, rassodando addirittura pregiudizi, favorendo asservimenti alla scolastica del pensiero curante.
Tutto questo non solo è accaduto nel passato, ma accade tutt’ora, sebbene la pratica analitica dovrebbe allenarci a guardare con speciale attenzione quel che si preferirebbe non vedere.
Dovrebbe averci insegnato a osservare con umiltà i nostri meriti e senza sdegno le nostre miserie. In altre parole: mi sento di affermare che un lavoro di indagine in se stessi dovrebbe contribuire a raggiungere un pensiero più libero, una conoscenza vagabonda, duttile, pronta a mutare. E mi riferisco non soltanto a una conoscenza edificata sulle strettoie della propria storia e sugli smascheramenti del proprio fantasma, ma anche e non
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meno sui frammenti di verità spuri, divaganti e inconsueti che ci provengono dai disagi e dai tormenti di questa nostra attuale civiltà.
«Più mi frequento e mi conosco, più la mia difformità mi stupisce, meno mi capisco» (Montaigne, 1595, p. 1915), scriveva Montaigne. Eppure (secondo me) oggi, dopo tanti secoli, queste parole brillano di attualità. E continuano a riguardare non solo il soggetto nella sua unicità divisa, ma anche la nostra dottrina
«Più mi frequento e mi conosco, più la mia difformità mi stupisce, meno mi capisco» (Montaigne, 1595, p. 1915), scriveva Montaigne. Eppure (secondo me) oggi, dopo tanti secoli, queste parole brillano di attualità. E continuano a riguardare non solo il soggetto nella sua unicità divisa, ma anche la nostra dottrina