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Lo statuto di non decettività del marchio concesso in licenza

L’art. 23 c.p.i., che abbiamo richiamato nel paragrafo precedente, non si limita a disciplinare il contenuto obbligatorio del rapporto contrattuale tra licenziante e licenziatari, bensì, al quarto comma, è stata inserita una specifica previsione finalizzata a tutelare l’interesse del pubblico che potrebbe essere leso dalle operazioni di licenza. In particolar modo, il quarto comma dell’art. 23 c.p.i stabilisce che “in ogni caso, dal

trasferimento e dalla licenza del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell'apprezzamento del pubblico” (45).

(43) Di uno schema contrattuale ricorrente nella maggior parte dei contratti di licenza ne ha parlato, tra gli altri,

AUTERI, (nt. 1).

(44) VANZETTI,GALLI, La nuova legge marchi. Commento articolo per articolo della legge marchi e delle disposizioni

transitorie del d.lgs. n. 480/92, ed. 2, Milano, Giuffrè, 2001. (45) Ex art. 15, comma 4, l.m. 1992.

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Tale norma va, inoltre, interpretata alla luce del combinato disposto degli art. 14, comma 2, lett a) c.p.i. e 21, comma 2 i quali sanciscono un divieto più generale riguardo all’uso del marchio, il quale non deve essere tale da indurre in inganno, per il modo o il contesto di utilizzo, il pubblico sulla natura, qualità o provenienza dei prodotti contrassegnati. L’articolo 21, comma 2, per ciò che concerne le limitazioni del diritto sul marchio riconosciuto al proprio titolare, prevede che “non è consentito usare il marchio in modo

contrario alla legge, né, in specie, in modo da ingenerare un rischio di confusione sul mercato con altri segni conosciuti come distintivi di imprese, prodotti o servizi altrui, o da indurre comunque in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza prodotti o servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato, o da ledere un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo di terzi”;

mentre l’articolo 14, comma 2, lett a) stabilisce che “ il marchio d'impresa decade se sia

divenuto idoneo ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa di modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è registrato”.

Come si può notare, il legislatore ha previsto, all’interno del Codice, una disciplina (46) che

mira a sanzionare tutte le ipotesi in cui un marchio può diventare decettivo.

Si tratta di una soluzione che era già stata messa in luce successivamente all’entrata in vigore della legge marchi del 1992: anche in essa era, infatti, possibile ravvisare la disciplina della decettività del marchio in una molteplicità di disposizioni, quali gli artt. 10, 11, 18, lett. e), 15, comma 2 e 41, lett. b).

L’obiettivo del legislatore era risolvere il problema dell’uso decettivo del marchio in ogni momento della vita del segno stesso: dalla sua registrazione, alla sua circolazione e al suo uso, sia da parte del titolare che da altri soggetti autorizzati al suo utilizzo (47).

Nel complesso di queste norme, prima contenute nella legge marchi del ’92 e ora riaffermate dal c.p.i., emerge il principio fondamentale secondo cui il marchio non deve mai comunicare, né per le sue caratteristiche intrinseche, né per circostanze esterne, qualcosa che faccia ritenere al pubblico che il prodotto contrassegnato abbia una qualità diversa da quella effettiva (48).

(46) Si può parlare di un vero e proprio statuto di non decettività del marchio concesso in licenza.

(47) MARCHETTI, Note sulla liberà trasferibilità del marchio, in La riforma della legge marchi, Padova, CEDAM, 1995,

p. 161 e ss.

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Ad oggi, vengono sanzionate tutte le possibili situazioni in cui un marchio registrato possa divenire fonte di inganno per il pubblico e la sanzione scelta dal legislatore, in tali ipotesi, è la decadenza del marchio stesso, la quale può essere promossa d’ufficio, da parte del Pubblico Ministero, ma anche da altri soggetti legittimati a richiedere la decadenza del marchio divenuto decettivo, ossia le associazioni dei consumatori e le associazioni professionali, infine, anche da chiunque vi abbia interesse.

Tornando ora all’ipotesi più specifica di cui si intende occuparsi, ossia della decettività sopravvenuta del marchio concesso in licenza, si può osservare che la previsione contenuta al comma 4 dell’art. 23 potrebbe essere vista come un’affermazione ridondante del principio generale del divieto di uso decettivo del marchio affermato all’art. 14 c.p.i.. Come osservato ad alcuni autori con riferimento alla legge del 1992, considerazione peraltro tutt’oggi valida, la specificazione dell’art. 23 (prima art. 15 l.m.) ha lo scopo di ammonire quei soggetti i quali potrebbero credere che, eliminato il legame tra le vicende del marchio e quelle dell’intera azienda, la licenza o il trasferimento possano essere considerati un giusto motivo per “derogare al principio della non decettività dell’uso del

segno” (49).

Merita un’ulteriore specificazione il rapporto tra la previsione specifica all’art. 23, comma 4 e il principio generale contenuto all’art. 14, comma 2: la formula utilizzata “caratteri

essenziali nell’apprezzamento del pubblico” va, infatti, interpretata come un’espressione

sintetica e riassuntiva degli elementi indicati nell’art. 14, ma anche di tutte le ulteriori caratteristiche dei prodotti sui quali si basa l’affidamento dei consumatori.

Il sistema di tutela del pubblico è, quindi, basato su un trade-off: un bilanciamento compiuto dal legislatore tra l’ampliamento delle opportunità offerte al titolare di un marchio di sfruttarne il valore attrattivo e l’esigenza di prevedere, in un tal contesto, un sistema di responsabilizzazione di tutti i soggetti coinvolti, affinché i consumatori non risultino ingannati sulle caratteristiche essenziali dei prodotti che, tradizionalmente, vengono collegate all’uso di un certo marchio (50).

Resta da chiarire quando si possa ritenere che il marchio sia divenuto decettivo in base all’uso che di esso è stato fatto; la tesi prevalente in dottrina stabilisce che debba verificarsi “uno scarto sensibile nella percezione di una parte non irrilevante del pubblico,

(49) Si è così espresso MARCHETTI, (nt. 47), p. 15; ma anche AUTERI, (nt. 34).

(50) GHIDINI, Licenza di marchio rinomato e rischi di decezione non confusoria del pubblico, in Segni e forme

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fra la obiettiva natura, qualità, provenienza del prodotto e il messaggio viceversa evocato dal marchio in relazione a detti elementi, giustamente assunti come rilevanti per la scelta dell’acquirente” (51).

Tali considerazione non devono essere interpretate come un obbligo assoluto nei confronti dei licenziatari di continuità qualitativa affinché il loro diritto ad usare il marchio sia legittimo: il legislatore, infatti, aveva come obiettivo vietare a qualsiasi soggetto di utilizzare un marchio per contraddistinguere prodotti le cui caratteristiche non rispecchino più quelle in base alle quali il segno era stato apprezzato dal pubblico, a meno che quest’ultimo non fosse adeguatamente informato sui cambiamenti qualitativi avvenuti.

È, quindi, previsto un esimente nei confronti del titolare del marchio o dei suoi licenziatari per evitare che il marchio diventi decettivo: tale esimente consiste in tutti quei comportamenti messi in atto affinché venga eliminato, attraverso un’adeguata informazione, l’affidamento del pubblico su caratteristiche non più presenti nel prodotto/servizio considerato (52).

L’informazione del pubblico circa i cambiamenti avvenuti è ritenuta, quindi, dalla più autorevole dottrina, la soluzione a disposizione per evitare la decadenza del marchio divenuto decettivo, il cui uso non risulta più conforme al messaggio che il segno trasmetteva al pubblico originariamente.

I consumatori risultano ingannati solo se i cambiamenti non sono stati adeguatamente comunicati o addirittura celati dal titolare del marchio.

In conclusione, le variazioni qualitative conseguenti alla concessione del marchio in licenza sono quindi possibili, anche in misura sensibile, e non comportano la decadenza del segno se esse stesse sono ritenibili “trasparenti” (53), ossia comunicate, attraverso

idonei strumenti informativi e pubblicitari, al consumatore finale.

(51) Si è così espresso GHIDINI, Decadenza del marchio per decettività sopravvenuta, in Riv. dir. ind., 1993, I, p. 213

e ss.; tesi sostenuta anche da AMMENDOLA, (nt. 37), dove l’a. afferma che la previsione dell’art. 15, comma 4, (oggi art. 23, comma 2 c.p.i.) ha modo di operare nel caso in cui il marchio sia già stato usato e i consumatori sono giustamente portati a credere che le caratteristiche sulle quali hanno fatto affidamento per valutare la qualità, natura o provenienza del prodotto, possano ritrovarle in tutti i prodotti che vengono immessi sul mercato sotto lo stesso marchio; cfr., altresì, AUTERI, (nt. 34), p. 116 in cui sostiene che “nella misura in cui il marchio susciti determinate aspettative, l’uso del marchio non deve deluderle”.

(52) MARCHETTI, (nt. 47), p. 167; AUTERI, (nt. 34), p. 115; AMMENDOLA, (nt. 37), p. 75; VANZETTI,DI CATALDO, (nt. 32), p.

243; SENA, Veridicità e decettività del marchio, in Riv. dir. ind., 1993, I, pp. 338-339. (53) GHIDINI, (nt. 51), p. 216.

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Si è chiarito che la decadenza è quella sanzione che colpisce il marchio divenuto, per il contesto e l’uso che ne viene fatto, decettivo, ossia portatore di un messaggio diverso da quello su cui il pubblico faceva affidamento ed è stato sottolineato che, per uso, si intende sia quello direttamente realizzato dal titolare del marchio che dai suoi licenziatari, ovvero da tutti quei soggetti autorizzati ad usare il segno.

È, quindi, nell’interesse del titolare stesso evitare che il proprio marchio diventi decettivo e di conseguenza colpito da decadenza: da qui l’affermazione di una responsabilità in capo al titolare del marchio, il quale deve assicurarsi che qualsiasi uso del segno di sua proprietà sia conforme alle caratteristiche per le quali esso è apprezzato dal pubblico. La responsabilità, ovviamente, presuppone che il titolare del marchio abbia il potere di controllare l’uso dello stesso da parte dei suoi licenziatari, prescrivendo le condizioni, le modalità e gli standard che essi devono rispettare per tutta la durata della licenza, elementi che le parti possono liberamente inserire all’interno del contratto stipulato, per il quale vige il principio della libertà contrattuale.

Si tratta, quindi, di una facoltà che il legislatore concede al titolare del segno il quale può, così, guidare e orientare l’attività dei suoi licenziatari, nonché effettuare le opportune operazioni di controllo sulle caratteristiche dei prodotti finali.

Anche nel caso in cui il titolare del segno non preveda, nel contratto, alcun riferimento a

standard e regole da rispettare, ciò non lo esime da responsabilità nei confronti del

pubblico qualora questo venisse ingannato sui caratteri dei prodotti che sono essenziali per il loro apprezzamento, poiché diventerebbe operativa, in codesta situazione, proprio la previsione di cui al quarto comma dell’art. 23 (54).

(54) L’espressione “in ogni caso” contenuta all’ultimo comma dell’art. 23, infatti, presuppone una responsabilità

in capo al titolare del marchio, il quale non ha fatto tutto ciò che era in suo potere per evitare che il pubblico venisse ingannato. Quindi, la tutela del pubblico prevista da tale disposizione diventa operativa indipendentemente dal contenuto del contratto e, automaticamente, laddove si riscontri inganno del pubblico.

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CAPITOLO QUARTO

I CONTRATTI AD OGGETTO IL MARCHIO:

MERCHANDISING, SPONSORIZZAZIONI E FRANCHISING

SOMMARIO: 4.1 Il contratto di merchandising: definizione ed evoluzione storica - 4.1.1 Il merchandising dei personaggi immaginari e reali - 4.1.2 Il merchandising sul marchio d’impresa - 4.1.3 Ammissibilità del contratto di merchandising sui marchi: evoluzione della normativa - 4.1.4 Le condizioni di validità del contratto di

merchandising - 4.1.5 Il rischio di decezione del marchio rinomato

oggetto di merchandising - 4.2 Le sponsorizzazioni: introduzione -